Capitolo III. L’alleato nemico
[È il titolo di un lavoro di D.W. Ellwood sulla politica dell’occupazione anglo-americana in Italia tra il 1943 e il 1946. L’opera è stata in precedenza citata.]
Prevenzioni e risentimenti
Erano in partenza per Algeri tutti gli ufficiali italiani prigionieri che, avendo deciso di abbandonare il fascismo, avevano espresso il desiderio di collaborare con gli Alleati. Scendemmo dai vagoni per sgranchire le gambe e fummo avvertiti dall’ufficiale di guardia che era proibito fraternizzare coi P/W. «Fraternizzare un corno!» disse il sergente furiere dopo che l’ufficiale si fu allontanato. «Chi ha voglia di fraternizzare con gli italiani? Non hanno sparato sui nostri in Africa? E ora continuano in Italia (...). Per conto mio metterei quei bastardi al muro». «Dimentichi la convenzione di Ginevra», rispose con calma il caporale. «Davvero! Trattiamoli coi guanti gialli!» disse il sergente furiere «così fra vent’anni ci dichiareranno guerra di nuovo. Che hanno da perdere? Saranno sempre trattati meglio che nell’esercito italiano... fottuti dagos».
È in occasione del racconto del trasferimento delle armate alleate da Casablanca ad Algeri che, servendosi del dialogo tra un furiere ed un caporale, John Horne Burns parla per la prima volta degli italiani e dei risentimenti che essi suscitavano negli Alleati ancor prima di sbarcare nella penisola. Questa è la linea che caratterizzerà, fino all’epilogo, non soltanto il romanzo La galleria, ma anche tutti gli altri scritti dei militari alleati in Italia. Burns, riferendosi al comportamento tenuto dai Gi’s, scrisse ancora:
Molti di noi eravamo abbastanza onesti in patria; ma quando si venne oltremare non si riuscì a resistere alla tentazione di guadagnare qualche dollaro a danno di popoli che erano già a terra. Posso parlare soltanto dell’Italia, perché non ho visto né la Francia né la Germania. Ma con la nostra etica di Hollywood e la nostra logica da rete radiofonica non ci si dava neanche la pena di meditare sul fatto che la guerra era contro il fascismo, non contro un uomo, donna o bambino d’Italia. (...). Non so perché ma molti americani nutrivano un odio profondo verso tutti gli italiani. La mettevano così: questi ginsos ci hanno fatto la guerra e noi possiamo fare a loro qualsiasi cosa: far salire i prezzi, rovinare la loro economia e prenderci le loro donne.
Il soldato-scrittore intese, così, descrivere lo spirito che connotava buona parte dei componenti della compagine alleata, in particolare di quelli che occupavano gli alti ranghi, suggestionati dalle scelte politiche e militari dell’ormai disfatto regime fascista. Dopotutto non solo gli italiani erano stati loro avversari, ma con la «bravata» della guerra parallela in Africa e in Grecia fin dal 1940 avevano più volte combattuto contro i mezzi corazzati britannici e, due anni dopo, anche contro quelli americani. Nonostante le vittorie conseguite non fu facile dimenticare, soprattutto per gli inglesi, gli scontri che li avevano visti gli uni contro gli altri, nonché le numerose vittime. Questo aspetto affiora chiaramente nei dialoghi tra civili italiani e soldati alleati del romanzo La ragazza della Via Flaminia di Alfred Hayes, anch’egli militare alleato in Italia. In uno di questi, ad esempio, il sergente inglese, nel rispondere alle continue provocazioni di Antonio, che aveva combattuto come ufficiale italiano in Libia, sosteneva: «‘Senti, un bel po’ di nostri ragazzi se ne stanno stesi morti ad El Alamein a Tripoli. E non hanno pallottole tedesche in corpo’. ‘No’, – disse Antonio – ‘hanno le nostre’. ‘Proprio le vostre dannate pallottole’, disse l’inglese».
Per questi motivi, l’entusiastica reazione all’armistizio del settembre ’43 mostrata dalla popolazione civile destò stupore in un giornalista del «Times». Egli notò che gli italiani sembravano «non considerarlo come la resa ai conquistatori, ma come la ratifica formale ad un’alleanza naturale». «Molti di essi», continua il cronista, «non hanno la minima consapevolezza del fatto che noi possiamo avere per loro sentimenti privi di amicizia. Essi non ostentano la più debole manifestazione di una qualsiasi responsabilità al mondo, per il tradimento della Francia o la tragedia della Grecia o anche per il fatto che i soldati inglesi, ora in Italia, possano avere avuto fratelli o amici uccisi da proiettili italiani in Africa».
Inconciliabile con la salda coscienza nazionale inglese era anche la ritrosia al combattimento mostrata da alcuni reparti dell’esercito italiano ed il tentativo di militari e civili di sottrarsi alla responsabilità della sconfitta, negando ogni legame col regime. Ciò ingenerò nel corrispondente del «Times» in Sicilia il dubbio che «o Mussolini era nell’isola l’uomo più impopolare, oppure i siciliani [erano] un popolo molto volubile». Oltre alla mutevolezza, gli italiani erano accusati di essere «cinici», «servili», «gregari» e «corrotti».
Un membro della Commissione Alleata di Controllo, in una intervista al «New York Times», preferì definire gli italiani «ladri» e «assassini», ostili agli Alleati e desiderosi di «acclamare nuovamente Mussolini». Aggiunse, inoltre, che i soldati americani avrebbero auspicato uno «smembramento dell’Italia» ed un trattamento degno del «più vile dei paesi conquistati».
La decisione di voltare la faccia ai tedeschi e di sottoscrivere l’armistizio, seppur ovviamente apprezzata dagli Alleati, fu allo stesso tempo da essi considerata un’azione tutt’altro che nobile. Lo stesso Eisenhower sostenne che «il governo italiano decise di capitolare non perché si vide incapace di offrire ulteriore resistenza ma perché era venuto, come in passato, il momento di saltare dalla parte del vincitore».
La diffidenza nei confronti della popolazione italiana trova piena conferma anche nelle interviste fatte ad alcuni membri dell’esercito americano trasferitisi a Napoli dopo aver contratto matrimonio con donne napoletane. Il capitano americano Richard rammenta la difficoltà da parte dei comandi direttivi di far conciliare il sostegno che gli italiani avevano assicurato al regime e quello che ora offrivano agli alleati anglo-americani. Egli dice: «i comandanti ci dicevano [che] non [ci] dovevamo fidare degli italiani, perché in Italia c’era Mussolini e Mussolini era ancora alleato con Hitler. Ma era vero perché Mussolini non era uno che era odiato dalla gente, che si è trovato a Roma senza un sostegno, la gente lo voleva e allora se aveva scelto a lui certo non poteva apprezzare a noi (...). E poi pure se aveva scelto l’alleanza con noi era perché ormai si sapeva che non si aveva speranze, era costretta».
Il capitano insiste sui rapporti della popolazione col fascismo ed il suo racconto ci riporta all’ingresso delle truppe in Italia. Abbiamo accennato al caloroso benvenuto riservato dalla popolazione civile ai «liberatori», ma questo fu per molti di essi tutt’altro che scontato. Egli, infatti, confida: «Quando noi siamo venuti in Italia dovevamo cacciare i tedeschi, ma non eravamo alleati, non c’era stato ancora l’armistizio tra noi e l’Italia e i comandanti dissero di stare attenti ai fascisti (...) ma non solo... ai... militanti, ma anche alla gente normale, non militari, a quella gente che avevano voluto a Mussolini. (...). Però anche dopo l’armistizio ci aspettavamo qualcosa, stavamo attenti».
Anche alcuni stralci di lettere censurate ai soldati stranieri in Italia documentano tale atteggiamento. Un soldato alleato di stanza a Genova scrisse, probabilmente ad una sua concittad...