Un millimetro in là
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Un millimetro in là

Intervista sulla cultura

  1. 144 pagine
  2. Italian
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Un millimetro in là

Intervista sulla cultura

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Quella parte di vita che puoi cambiare, quel pezzo magari piccolo di destino che puoi spostare: la cultura è la condizione necessaria per autodeterminare la propria vita e per liberarla. Ma cosa accade quando tecnologie, linguaggi, modalità di creazione e di trasmissione cambiano così rapidamente e in profondità? Emergeranno forme di produzione e comunicazione della conoscenza e delle emozioni del tutto nuove. Dovremo avere un pensiero il più lungo e il più largo possibile. Lungo nel tempo, verso il futuro, e largo nello spazio, nell'apertura alle differenze e alle alterità.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113066

1. Diventare sovrani

D.    Definire la cultura, dicono gli antropologi, è come ingabbiare il vento. Nella tua vita ne hai parlato più volte come dello strumento per la conquista dell’autonomia, dell’indipendenza. Perché?
R.    Lo hanno sottolineato in molti, il rapporto che c’è tra cultura e potere. La parola «potere» non mi piace, ma se vuoi avere potere sulla tua vita – cioè non essere in balia di qualcosa o qualcuno che ha deciso per te – devi liberarla dalle costrizioni, dai limiti e dai destini segnati. Nasciamo dentro traiettorie di vita determinate da tante cose che ci sfuggono, che accadono prima di noi e lontano da noi. Quella parte di vita che puoi cambiare, quel pezzo magari piccolo di destino che puoi spostare, dipende dalla tua forza, autorità, libertà. Per me la cultura è la condizione per esercitare queste possibilità. Questa è la mia definizione – o forse solo la mia esperienza di vita. Certo, la cultura può essere altro, può essere anche strumento di esclusione e di oppressione, ed io questa dimensione l’ho conosciuta. Queste conversazioni volevamo intitolarle La cultura rende liberi, ricordi? Poi ci siamo spaventati dell’assertività di questa affermazione e della sua troppo parziale verità. Non è vero che la cultura rende liberi, o almeno non è sufficiente la cultura. Ma non vedo altre strade per liberarci e «diventare sovrani», per usare la bellissima immagine della Lettera a una professoressa («Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere»). Ho creduto fosse la politica, questo strumento, e non escludo del tutto che lo sia o che possa tornare ad esserlo. Ma intanto ognuno deve sapere che ha una possibilità – che per me è anche una responsabilità. Ognuno di noi, al di là di ogni dimensione collettiva. Credo che vivrò sempre aspettandola, questa trasformazione collettiva. Ma intanto, come diceva Nicola Chiaromonte, dobbiamo sapere che dalla caverna si esce uno per volta. Usava l’immagine di Platone per dire una cosa così precisa che va citata esattamente: «dalla caverna non si esce in massa, ma solo uno per uno, aiutandosi l’un l’altro». Conoscere bene la caverna e trovare i modi per uscirne: questa per me è la cultura.
D.    Oggi l’uscita dalla caverna è più facile o più difficile rispetto al tempo in cui ti sei formato tu?
R.    Intanto è enormemente maggiore la possibilità di conoscerla, la caverna. Gli strumenti di conoscenza si sono moltiplicati. Parleremo molto di libri, e sono molti i libri usciti in questi anni che ci spiegano come Internet possa renderci stupidi o viceversa intelligenti. Sicuramente può renderci colti, nel senso della conoscenza, di sapere molto di più. La cultura è una cosa diversa dalla somma delle conoscenze, ma nasce comunque dalla possibilità di sapere: si esce dalla caverna anzitutto conoscendo la caverna – e i dintorni. Facciamo subito un esempio: un attimo fa ho parlato di Nicola Chiaromonte. È un intellettuale importante, ma quanti lo conoscono? Il giovane lettore che ero forse sarebbe stato colpito dalla citazione che ho fatto, ma sarebbe impazzito per cercare notizie su di lui. Non è mai stato un autore di cui parlano i giornali o che si trova facilmente in libreria. Oggi basta un motore di ricerca: la voce di Wikipedia è piuttosto rudimentale (e bisognerebbe arricchirla), ma in Rete ci sono siti e materiali bellissimi ed esaurienti su Chiaromonte. Dopodiché nasce il problema se l’abbondanza di risultati e la facilità ad accedervi spingeranno a leggere davvero i suoi libri o genereranno la sensazione che alla fine siano, per così dire, superflui. La conoscenza non è un accumulo di competenze e di informazioni, ma a volte ho l’impressione che ci sia una sottovalutazione di quello che, anche solo da questo punto di vista, sta accadendo sotto i nostri occhi. Pensiamo al tema della comunicazione delle notizie e dei saperi. L’umanità ha cercato da sempre strumenti per comunicare più velocemente, più esattamente e più largamente possibile. Tutti gli strumenti di comunicazione che abbiamo conosciuto, fin dai più rudimentali, inseguivano questi tre obiettivi: raggiungere più persone possibili, nel più breve tempo e con il massimo di precisione. Con qualche risultato: secondo Eschilo, quando Agamennone torna da Troia Clitemnestra ha già saputo l’esito della guerra. In poche ore, attraverso una rete di fuochi, cioè di segnali luminosi, la notizia ha preceduto il ritorno dell’eroe. Eschilo descrive meticolosamente la catena di montagne e postazioni che hanno permesso al messaggio di arrivare e un tedesco, all’inizio del Novecento, ha dimostrato che effettivamente era possibile nei tempi descritti dalla tragedia. La storia dell’umanità è dominata dal desiderio di comunicare, è piena di tentativi generosi e ingegnosi di trasmettere qualcosa: in fondo cosa ha fatto Filippide con la sua corsa da Maratona? E cosa hanno fatto per secoli, tra l’ammirazione stupefatta dei presuntuosi europei che ne scoprivano la raffinatezza comunicativa, i tamburi parlanti africani?
Ebbene, oggi quel desiderio è stato esaudito: possiamo diffondere notizie e conoscenze in modo immediato, con una velocità che coincide ormai con l’istantaneità, con un raggio talmente ampio che tendenzialmente non esclude nessuno e con l’esattezza che deriva dal fatto che il messaggio arriva direttamente da chi lo ha emesso. Non credo di semplificare troppo se dico che il sogno di comunicare con la massima precisione, rapidità e ampiezza si è realizzato, ed è un risultato che chiude un’epoca, che pone fine alla storia delle comunicazioni come l’abbiamo conosciuta. E finalmente ci mette davanti alla sfida vera: come riempire questo enorme spazio che si è aperto? Qui siamo renitenti, indolenti. Ci balocchiamo in discussioni vacue o interessanti ma non afferriamo ancora la meravigliosa, epocale occasione che ci è offerta. Non onoriamo il sogno di generazioni.
D.    Torneremo su questo esito. Qui vorrei però anticipare un tema centrale: quali sfide pone questo nuovo paesaggio ad un concetto, un valore, un obiettivo come l’uguaglianza?
R.    Per me la cultura, come forma di conoscenza della propria realtà, è la condizione necessaria per autodeterminare la propria vita, diciamo pure per liberarla. Alimenta continuamente un processo individuale e collettivo di empowerment, come si dice oggi. È la condizione necessaria ma per nulla sufficiente. Allo stesso modo l’allargamento infinito della possibilità di accedere alla cultura è una condizione necessaria e straordinaria che favorisce l’uguaglianza (e qui devo dire subito che per me «le diseguaglianze rendono le società più infelici», come dicevano Richard Wilkinson e Kate Pickett. E dunque più uguaglianza c’è, più una società è ricca. Se vuoi ne parliamo ancora, ma se ho un a priori è questo). Dopo di che, dove sta la contraddizione in questo paesaggio di offerte smisurate? Perché non sta funzionando da ascensore sociale, per usare una brutta immagine condominiale, come seppure in minima parte è accaduto con la diffusione dell’istruzione (che consentiva proprio questo: sapere cose che non si sapevano e quindi potere cose che non si potevano). Abbiamo di fronte questa terribile ambiguità: un’eccezionale potenzialità di accesso che non si traduce in forme reali di possesso diffuso ed uguale. È la dimostrazione che la cultura non basta, che l’uguaglianza dipende da molte altre condizioni. Pensatori come Evgenij Morozov ragionano molto sulla contraddizione di una Rete che nasce con una vocazione all’orizzontalità, rapidamente contraddetta da forme di controllo e divisione, e mi sembrano diventare sempre più pessimisti. Da questo punto di vista digital divide è una formula che trovo perfino omissiva; in realtà le divisioni che la rivoluzione informatica fa emergere e provoca sono molte, magari meno verticali e impenetrabili che nel passato ma più numerose: ci sono quelle economiche, naturalmente, quelle culturali, territoriali, geografiche, familiari; accanto a privilegi vecchi e nuovi ci sono varie forme di abilità e di competenze che determinano varie forme di differenza. Quindi il problema dell’uguaglianza si articola in modo diverso, forse con esiti ancora più duri di quelli determinati da divisioni puramente economiche e con effetti più resistenti perché difficili da affrontare con gli strumenti con cui si sono combattute le disuguaglianze tradizionali. È qui la sfida vera. Spero, a differenza dei pessimisti, che la contraddizione sia ancora aperta e l’esito ancora incerto. Poi sul tema della mobilità sociale bisogna essere più chiari. Il cosiddetto ascensore sociale come strumento di mobilità collettiva (non parlo di quella individuale, che è cosa diversa) ha funzionato per qualche decennio, quasi un’eccezione nella storia dell’umanità, legata a condizioni particolari, in primo luogo la prosperità economica e la diffusione dell’istruzione. Così si è generata in modo pacifico una minima mobilità sociale. Ma rischia di essere solo l’immagine deformata di chi è cresciuto in quei decenni, di una generazione che considera ovvio che la cultura, l’istruzione, la formazione di sé funzionino come ascensore sociale, che ci sia cioè una relazione tra investimento sul sé, la propria formazione e i risultati. Questo è stato parzialmente vero per un’epoca parziale; questa doppia parzialità la rende un’assoluta eccezione. Eviterei di guardare tutto da questo punto di vista eccezionale e, se ci riesco, generazionale. Sarà difficile, ma ci proveremo.
D.    Come sai però, per molti, non necessariamente di destra, la disuguaglianza è un motore di sviluppo molto efficiente.
R.    Non so se sia un motore, sicuramente è una sfida, o meglio una salita, che uno deve imparare ad affrontare. Quando nasce non da privilegi magari ereditati, ma da talenti e volontà diverse, la disuguaglianza è un tesoro collettivo. Ma allora, non per eufemismo o ipocrisia, parlerei di differenza: quella sì che è un valore! Pensa a quel mito splendido e fondativo, per noi che facciamo comunicazione, che è la Torre di Babele. Una delle interpretazioni più stimolanti dice che, dando diverse lingue, Dio ha sventato l’uniformità e ha costretto gli uomini a pensare, perché solo la differenza genera movimento e pensiero. Ma proprio perché la nostra qualità umana è fatta di differenze e comunque molte forme di differenza e di disuguaglianza sono (per fortuna o purtroppo) ineliminabili, non temo affatto il destino dell’uniformità o dell’omologazione totale. Su questo punto anche Pasolini non mi ha mai convinto del tutto: temo di più la moltiplicazione di disuguaglianze fossili, irriducibili. Però bisogna sempre ammettere che qui, oltre alla biografia o all’ideologia, c’è un problema di inclinazione, persino di gusto: a me fa piacere vedere persone più uguali, cioè che hanno davanti strumenti il più uguali possibile e possibilità più numerose e simili. A me questa sembra sia una condizione di sviluppo migliore e perfino più realistica. Non è la fine della sfida (se proprio dobbiamo usare questa stupida immagine che confonde la vita con un film western), è solo l’inizio di una sfida ad armi pari. Ma c’è di più. Pensa quanto perdiamo tutti con la disuguaglianza sul piano dell’istruzione (e quindi della cultura di tutti). Proprio Wilkinson e Pickett sostengono che la disuguaglianza indebolisce le motivazioni allo studio degli adolescenti perché pochi sono convinti di potercela fare con i propri mezzi, senza privilegi. Le notizie che ci arrivano dalle nostre scuole (penso a certe belle cronache di Marco Lodoli, per esempio) ci dicono che questo scoraggiamento è ormai endemico. Una società privata da queste energie è immediatamente più povera. E come ha detto Branko Milanović, l’economista contemporaneo che forse ha meglio studiato la disuguaglianza, qui «la discriminazione in base al patrimonio ereditato non è diversa da altri tipi di discriminazione, come quella basate sul genere o sulla razza». Altrettanto scandalosa e inaccettabile, dunque.
D.    Dicevi poco fa che probabilmente il periodo storico che ha posto particolare attenzione al tema dell’uguaglianza è parziale, breve. Aggiungo che veniamo da una lunga fase definita neoliberista in cui si è affermata la convinzione, legittima o meno, che l’indipendenza, la capacità di scelta siano più connesse con l’autonomia economica che con l’autonomia culturale.
R.    Dici che sono troppo materialisti e criptomarxisti, questi economisti neoliberali? Allora farò per una volta, e solo per provocazione, il revisionista: io credo che l’incidenza dell’economia sulla vita sia fortemente esagerata. Nel senso che una volta risolte le questioni minime di sicurezza del presente e del futuro, si dovrebbe pensare ad altro. E dunque i traguardi che ha raggiunto l’Occidente negli ultimi due secoli gli dovrebbero permettere – anzi, sono sincero: ci dovrebbero imporre – di pensare ad altro. So bene che la nostra è una condizione sempre revocabile, specie guardando alla crisi di questi anni, però se pensiamo da una prospettiva più ampia alla sicurezza che abbiamo raggiunto, dovremmo riconoscere che nessuna epoca umana ha mai avuto la possibilità di liberarsi dalle costrizioni materiali come questo piccolo gruppo di paesi in un breve volgere di secoli, anzi di decenni. Invece le ossessioni e le paure sono cambiate pochissimo. E libertà, creatività, uguaglianza sono cresciute molto poco. Però, certo, un po’ sono cresciute, sì. Ma si doveva fare di più. Non sottovaluto certamente le condizioni materiali delle persone, ma penso alla cultura come lo strumento che le ridimensiona, le riduce: immagina il loro annullamento – se proprio devo immaginare qualcosa, immagino questo.
D.    Capisco che si rischia di cadere negli stereotipi, ma mi pare che soprattutto in Italia ci sia stata un’inversione dei modelli: pensiamo al diverso prestigio sociale di cui godono categorie come, tanto per semplificare, l’imprenditore e l’insegnante.
R.    Ma la scala dei valori non credo sia mai cambiata, in fondo. Nei famosi anni Settanta avevo un amico che insegnava in un istituto professionale di Testaccio, a Roma – credo che gli alunni studiassero da odontotecnici. Lui era colto, attento, amava molto l’insegnamento e i suoi allievi, ma arrivava a scuola con una modesta utilitaria, mentre gli altri, gli insegnanti che il pomeriggio, più o meno in nero, facevano gli odontotecnici, arrivavano a scuola con gli ultimi modelli di auto fiammanti, fuoriserie o quasi. E lui mi diceva: «Sai, è difficile parlare ai ragazzi, essere convincenti arrivando al parcheggio così...». Allora, qual è la soluzione? Dire ai ragazzi che è meglio un’utilitaria scassata e parlare loro di obiettivi diversi, di sogni più grandi? Ma cosa proponi come obiettivo, come sogno? Il punto è che sembra più semplice organizzarsi la vita con il sogno della fuoriserie. (E infatti ricordo bene come il mio amico alla fine dell’anno fosse piuttosto rassegnato.) Ci sono tendenze, inclinazioni profondissime che mutano molto lentamente. Quanto possono mutare? Quanto tempo abbiamo, ognuno nella propria vita, per cambiarle un po’, spostare i sogni, renderli meno poveri e banali?

2. Appropriarsi del mondo

D. Cominciamo allora dai libri. In più occasioni hai detto di avere un rapporto complesso con il libro, molto rispettoso. Mi piacerebbe capire che funzione abbia svolto per te, ma soprattutto che funzione tu abbia cercato di fare svolgere al libro nel corso della tua vita.
R. Forse perché nella mia vita quasi tutto è passato attraverso i libri, a loro devo in buona parte l’uscita da una situazione di marginalità sociale e culturale, propria della mia famiglia da sempre. La mia fortuna è stata però che mentre leggevo (e si legge isolandosi, non c’è dubbio) le piazze erano piene di persone e di sfide, di tentativi, di errori, di trasformazioni. Senza libri sarei rimasto un ignorante. Ma senza quelle piazze e quella generazione, senza quelle domande che sentivo non solo mie, non so se avrei letto tanto... E comunque avrei letto male, credo. Jonathan Franzen in Come stare soli incontra una studiosa che finalmente dice una verità sulla lettura: si parla sempre di quanto contino la scuola e la famiglia, ma per diventare lettori è più importante avere almeno un amico, un coetaneo che legge come te. Nel quartiere dove sono cresciuto io c’era qualcuno che leggeva – pochi –, ma ho avuto la fortuna di sperimentare una dimensione più grande, una specie di socialità che accompagnava le mie letture. Leggere non è stato solo il modo in cui potevo impadronirmi di contenuti, di conoscenze che pure mi mancavano drammaticamente. Leggere tanto ha significato indipendenza e autonomia e, al contempo, appropriazione del mondo: conoscendolo, facendolo (o provando a rifarlo...), ma intanto leggendolo.
D. In altre parole, sostieni che i libri permettono di leggere meglio la realtà. Un’affermazione tautologica e banale, in fondo, ma non in Italia. Puoi fare un esempio?
R. Avevo quattordici anni nel ’68, frequentavo un liceo romano che è stato tra i primi a essere occupato e quindi a quattordici anni ho partecipato a un’occupazione. Con scarsa consapevolezza, mi verrebbe da dire, ma forse era invece il giusto grado di consapevolezza che occorre per partecipare ai movimenti collettivi – una consapevolezza pre-razionale, libera da troppa conoscenza e troppa esperienza. Comunque dopo, anziché continuare una sorta di apprendistato politico che era tipico di quella generazione, sono sparito dalla scena politica del mio liceo, che pure era molto attiva. Perché? Mi sono messo a leggere perché mi ero reso conto che non sapevo nulla. Mi sono messo a leggere disordinatamente, affannosamente. Non avevo libri in casa e perciò – mettiamola così – la mia libertà era assoluta. Tutto mi sembrava nuovo e pieno di rivelazioni, tutto era inedito, per così dire. Solo dopo tre o quattro anni – che a quell’età è un tempo lunghissimo – sono riemerso e mi sono accorto che ero diventato una specie di leader studentesco – uso la definizione con ironia, naturalmente, per non rischiare il ridicolo.
D. Leggevi di cultura politica o di letteratura?
R. Soprattutto di cultura politica, almeno fino a diciotto anni. Per me il libro è sempre stato l’interfaccia con l’esperienza emotiva della realtà: abbiamo esperienza della realtà, la realtà ci affascina, ci ferisce, ci travolge, il libro (e cioè la vita e il pensiero di altri prima di noi, diversi da noi – se reali o immaginari non conta nulla) ci aiuta a capirla. La lettura è sempre un atto relativo non solo perché relativizza quello che proviamo ma perché ci mette sempre in relazione con qualcosa di altro e di diverso. Da questo punto di vista, potrei dire che ho letto quasi tutti i libri come fossero dei manuali, come una guida di viaggio e un prontuario di apicoltura. Non so se sia giusto, se sia rispettoso verso gli autori e la storia della letteratura. Ma quando si è giovani il mondo appare opaco, enigmatico nella sua alterità. Per me poi quasi tutto era «altro», sentivo «mio» davvero poco. Prendiamo la prima alterità, la più radicale, quella della differenza di genere. Ho letto Madame Bovary, Anna Karenina, Effi Briest, e quei libri qualcosa, molto più di qualcosa, mi hanno detto. Lo so, sono libri scritti da uomini e quando mi succede di parlarne in pubblico, capita che qualche donna si arrabbi e non mi perdoni nemmeno se dico quanti libri scritti da donne nel tempo ho aggiunto a questi. Ma allora io quei libri trovavo. Forse mi hanno aiutato, forse no, ma qui più che gli esiti vorrei portare alla luce le motivazioni, le pulsioni della lettura. Comunque, al di là delle iperboli, per me il libro è stato questo: una forma di appropriazione della realtà – insieme a qualcosa che nel mio linguaggio di allora avrei chiamato «la lotta politica» –, l’unica possibilità di ...

Indice dei contenuti

  1. 1. Diventare sovrani
  2. 2. Appropriarsi del mondo
  3. 3. Cultura è politica
  4. 4. Un microfono per tutti
  5. 5. Politeismo mediatico
  6. 6. Connettere non vuol dire condividere
  7. 7. La fine dei mediatori
  8. 8. Se devo sognare qualcosa, sogno questo
  9. Opere citate