L'ultima lezione
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L'ultima lezione

  1. 120 pagine
  2. Italian
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L'ultima lezione

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«Mi concentrerò sui motivi che spingono le persone, in un certo momento della loro storia, a dedicarsi con una passione e un interesse particolari a predizioni, congetture e manifestazioni di panico al pensiero di una possibile fine del mondo.»

Bauman era uno degli ultimi veri intellettuali pubblici in circolazione e attività in questi primi due decenni del Terzo Millennio. Certo, era un accademico, e di successo: un sociologo e sicuramente anche un filosofo. Ma che cosa è un intellettuale pubblico? È una figura che trae, in Occidente, le sue origini dalla tradizione dei profeti, uomini contro il potere, così come ci è stata tramandata più nella versione ebraica – anarchica, iconoclastica, irriverente – che in quella cristiana dove potere e sapere coincidono.

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Informazioni

Anno
2018
ISBN
9788858131688
Argomento
Economics

L’eredità del XX secolo
e come ricordarla

All’inizio dell’era moderna, la natura veniva vista come la principale fonte di incertezza per la vita umana. Inondazioni e siccità, carestie che colpivano senza preavviso e malattie contagiose che arrivavano senza dare avvisaglie, pericoli indicibili in agguato nell’hic sunt leones – quegli spazi che ancora non erano stati raggiunti dallo zelo ordinatore dell’umanità, e che spesso iniziavano pochi metri più in là della palizzata della fattoria – erano i serbatoi principali del temibile «ignoto». Perfino i pericoli minacciosi rappresentati da altri esseri umani erano visti come gli effetti collaterali dell’incapacità di domare la natura. Il malanimo, la malizia e la condotta incivile dei vicini della porta accanto, o della via accanto, o dell’altra riva del fiume, che facevano temere e tremare le persone in attesa del disastro imminente, venivano attribuiti alla natura, intesa come quella parte del mondo non creata dall’uomo. Erano considerati effetti deplorevoli degli istinti guerreschi, dell’«aggressività naturale» e della conseguente inclinazione al bellum omnium contra omnes, visti come lo «stato naturale» del genere umano, le eredità e vestigia della «natura» nuda e cruda, che dovevano essere e sarebbero state debitamente sradicate, riformate o represse, tramite gli sforzi pazienti, laboriosi e accurati del «processo civilizzatore».
Il mito incoraggiante dell’era moderna era la storia di esseri umani che riuscivano, sfruttando il loro ingegno, il loro acume, la loro determinazione e industriosità – versioni raffinate delle linguette degli stivali del barone di Münchhausen –, a tirarsi fuori dal pantano della condizione «naturale», «precivilizzata». I corollari di quel mito erano l’incrollabile fiducia nella capacità umana di migliorare la natura e la fede nella superiorità della ragione sopra le «cieche forze naturali», che gli esseri umani, con l’aiuto appunto della ragione, potevano imbrigliare per adibirle a compiti più proficui, o incatenare se si fossero rivelate troppo riottose. L’aspetto di gran lunga più repulsivo e intollerabile di tutte le cose naturali – cioè quegli oggetti e condizioni non trasformati dall’opera umana, portata avanti scientemente e guidata dalla ragione – era che la loro condotta, accidentale e fortuita, sfidava le aspettative, sfuggiva al controllo dell’uomo e ne mandava in frantumi i progetti.
L’idea di un «ordine civilizzato» era una visione della condizione umana in cui veniva vietato ed eliminato tutto ciò che non era autorizzato a far parte di quell’ordine. Una volta che il processo civilizzatore sarà giunto a compimento, non rimarrà nessun angolo oscuro, nessun buco nero di ignoranza, nessuna zona grigia di ambivalenza, nessun turpe covo di perversa incertezza. Hobbes sperava (ed è rimasto nella memoria, grazie a generazioni di suoi fedeli discepoli) che la società (identificata con lo Stato, in quanto portatore di potere sovrano) avrebbe finito per garantire quel rifugio, tanto necessario e da tutti ambito, contro l’incertezza, difendendo i suoi sudditi dalle terribili potenze della natura e dalla malvagità e i bassi istinti innati in loro stessi, troppo deboli per poterli sconfiggere solo con le proprie forze. Molti anni dopo, in pieno XX secolo, Carl Schmitt riassunse se non la realtà quantomeno l’intenzione dello Stato moderno, definendo il «Sovrano» come colui che decide dello stato d’eccezione. Commentando la definizione schmittiana, Giorgio Agamben ha suggerito che l’aspetto costitutivo dello Stato sovrano era la «relazione d’eccezione», tramite la quale si «include qualcosa unicamente attraverso la sua esclusione», e che la regola afferma se stessa stabilendo i limiti della sua applicazione 1. Lo Stato moderno consiste infatti nel gestire le faccende umane mediante l’esclusione di tutto ciò che è ingestibile e pertanto indesiderabile. Potrei aggiungere che l’incertezza, e tutto quello che la provocava e vi contribuiva (tutto quello che era riluttante a lasciarsi gestire, che non si lasciava categorizzare, che era scarsamente definito, trasversale alle categorie, ambiguo e ambivalente), era la principale e la più venefica delle sostanze inquinanti che andavano escluse dal preteso ordine creato dall’uomo. L’attività di pulizia e l’obbiettivo della purezza rappresentavano il senso ultimo dello Stato moderno.
Sono del parere che questa tendenza dello Stato moderno abbia toccato il suo apice a metà del Novecento, dopo che una buona parte di quel secolo era trascorsa sotto l’egida dell’imminente fine della storia così come conosciuta fino ad allora: la storia intesa come libero gioco di forze, senza freni né coordinamento.
Negli anni Quaranta, quando dalla linea del fronte trapelarono le voci sullo sterminio degli ebrei in tutta l’Europa sotto occupazione nazista, venne recuperato e reimpiegato per definirlo il termine biblico di «olocausto». Si trattava di un atto che non aveva precedenti nella storia conosciuta, e di conseguenza non aveva un nome consolidato nei dizionari. Si dovette coniare un termine nuovo per definire l’atto dell’«omicidio categoriale», l’annientamento fisico di uomini, donne e bambini in quanto appartenenti (o assegnati) a una categoria di individui incompatibili con l’ordine auspicato e per questa ragione condannati sommariamente alla pena capitale. Negli anni Cinquanta, il termine vecchio/nuovo di «olocausto» fu largamente accettato come il più appropriato per definire la distruzione totale (nelle intenzioni) degli ebrei europei, perpetrata tra il 1940 e il 1945 su iniziativa dei vertici nazisti.
Negli anni seguenti, tuttavia, l’uso del termine è stato esteso a numerosi casi di omicidi di massa rivolti contro gruppi etnici, razziali o religiosi, e a quei casi in cui l’obbiettivo, esplicito o sottinteso, era la sottomissione o l’espulsione del gruppo preso di mira, più che il suo totale annientamento. L’enorme carico emotivo che il termine si porta dietro e la condanna etica quasi universale delle azioni da esso descritte hanno fatto sì che tutti coloro che subivano un danno cercavano di ottenere che venisse classificato come un altro «olocausto». Nel corso degli anni, il campo di applicazione del termine si è allargato molto al di là dei suoi confini originari, e si è allungata notevolmente la casistica dei danni meritevoli di tale appellativo. Il termine «olocausto» è diventato un concetto «essenzialmente conteso», utilizzato in numerosi conflitti violenti fra etnie o altri gruppi come atto d’accusa contro la condotta o le intenzioni dell’avversario, in modo da giustificare l’ostilità del proprio gruppo.
Nel linguaggio comune, la parola «olocausto» oggi di solito è intercambiabile con «genocidio», un’altra innovazione linguistica del XX secolo. Nel 1993, Helen Fein faceva notare che tra il 1960 e il 1979 «ci sono stati probabilmente almeno una dozzina di genocidi e massacri a carattere genocidiale: fra gli altri, i curdi in Iraq, i neri nel Sudan meridionale, i tutsi in Ruanda, gli hutu in Burundi, i cinesi [...] in Indonesia, induisti e altri bengalesi nel Pakistan Orientale, gli ache in Paraguay, molte popolazioni in Uganda [...]»2. Da quando queste parole sono state scritte, la lista si è considerevolmente allungata e nel momento in cui scrivo non sembra dare segnali di avvicinarsi al termine. Il genocidio, secondo la definizione di Frank Chalk e Kurt Jonassohn, «è una forma di uccisione di massa unilaterale in cui uno Stato o un’altra autorità si propongono di distruggere un gruppo, e sono gli assassini a definire tale gruppo e i criteri di appartenenza a esso»3. Nel genocidio, il potere sulla vita è strettamente correlato al potere di definire (o, più precisamente, al potere di esentare). Lo sterminio integrale di un gruppo è preceduto dalla classificazione dei gruppi in categorie e dalla definizione dell’appartenenza a una determinata categoria come delitto capitale. In molte guerre tradizionali, il numero dei morti ha superato di gran lunga il bilancio delle vittime di molti genocidi. Ma quello che distingue il genocidio da un conflitto, anche il più violento e cruento, non è il numero delle vittime ma la sua natura monologica. Nel genocidio, gli obbiettivi futuri della violenza sono definiti in modo unilaterale e viene negato loro il diritto di replica. La condotta delle vittime o le caratteristiche dei singoli individui della categoria condannata non influiscono minimamente sulla sorte prestabilita. La prova sufficiente del delitto capitale, dell’accusa contro la quale non è previsto appello, è il fatto di essere stati accusati.
Se è questa la vera natura degli atti genocidiali, il significato corrente del termine «olocausto», che è diventato in gran parte sinonimo di «genocidio» e dunque intercambiabile con esso, ha un rapporto molto flebile con il significato veicolato dal termine che compare nel Levitico, nella traduzione greca dell’Antico Testamento, da cui è tratto. Quel termine antico fu riportato in vita ed evocato come metafora per lo sterminio nazista degli ebrei probabilmente perché suggeriva l’assolutezza della distruzione. Il termine greco holókauston era una traduzione letterale per l’ebraico «interamente bruciato», che indicava un tipo di sacrificio in cui l’offerta portata al Tempio doveva essere distrutta col fuoco nella sua interezza.
La grande differenza tra il significato originario e quello metaforico della parola, tuttavia, sta nel fatto che l’«interamente bruciato» a cui si riferiva il termine antico era carico di significato religioso: l’intenzione era quella di simboleggiare la completezza della resa umana a Dio e la devozione incondizionata degli esseri umani. Gli oggetti del sacrificio dovevano essere gli averi più preziosi dei fedeli, quelli di cui andavano maggiormente fieri: torelli o agnelli appositamente selezionati, esemplari senza difetti, perfetti in ogni dettaglio come doveva essere la venerazione per Dio e la dedizione ad adempiere i dettami divini. Seguendo questa strada di estensione metaforica, il «sacrificio» è diventato, secondo l’Oxford English Dictionary, la «rinuncia a qualcosa di apprezzato o desiderato in nome di qualcosa che possiede un valore superiore o più impellente».
Se il sacrificio è questo, l’Olocausto tutto è stato fuorché un sacrificio. Le vittime dell’Olocausto, e più in generale le vittime di tutti i genocidi, non sono persone «sacrificate» «in nome di un valore più alto». Oggetto del genocidio attuato nell’Olocausto nazista è, per usare le parole di Giorgio Agamben, l’homo sacer, «uccidibile e insacrificabile». La morte dell’homo sacer è sprovvista di rilevanza religiosa: l’homo sacer non è soltanto una persona di minor valore, ma un’entità priva di qualsiasi valore, sia esso sacro o profano, divino o mondano. A essere annientata è una «nuda vita», spogliata di ogni valore. «Nel caso dell’homo sacer, una persona è semplicemente posta al di fuori della giurisdizione umana senza trapassare in quella divina». Questo individuo è oggetto «di una doppia eccezione, tanto dallo ius humanum che dallo ius divinum»4.
Possiamo dire che prima di essere rastrellati, deportati nei campi di sterminio, fucilati o asfissiati, gli ebrei tedeschi e di altri paesi d’Europa occupati dai nazisti erano stati (insieme ai rom e ai sinti) considerati tutti, per così dire, come un homo sacer collettivo, una categoria la cui vita è sprovvista di qualsiasi valore positivo e il cui omicidio non ha alcuna rilevanza morale e non comporta nessuna punizione. La loro esistenza era un unwertes Leben – una vita indegna di essere vissuta – e così quella degli omosessuali, dei malati di mente e dei ritardati, secondo la visione nazista della Neue Ordnung; per citare un rapporto del governo svedese del 1929, erano persone «riguardo alle quali è nell’interesse della società che il loro numero sia il più basso possibile»5. L’elemento comune a tutte queste categorie era il fatto di essere inadatte all’ordine, nuovo e migliore, progettato per rimpiazzare le caotiche realtà correnti, l’ordine sociale che i governanti sovrani si accingevano a costruire, purificato di tutte le mescolanze, impurità e imperfezioni indesiderabili.
Era la visione di un ordine perfetto che forniva i criteri per separare i «compatibili» dagli «incompatibili», i sudditi la cui vita meritava di essere protetta e migliorata da quelli che non erano in grado di rendere alcun servizio concepibile alla forza del nuovo ordine, e anzi potevano solo comprometterne l’armonia. Il potere sovrano (un potere esercitato su esseri umani ridotti a «semplici corpi») metteva i costruttori del nuovo ordine nella condizione di ammettere o escludere i loro sudditi in questo ordine a propria discrezione. La rivendicazione del diritto a includere o escludere dalla sfera dei diritti giuridici e dei dove...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’Editore
  2. Prefazione - di Fabio Cavallucci
  3. La ragione per i tempi bui - di Wlodek Goldkorn
  4. L’ultima lezione. La fine del mondo
  5. L’eredità del XX secolo e come ricordarla