Videogiochi e cultura della simulazione
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Videogiochi e cultura della simulazione

La nascita dell''homo game'

  1. 208 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La nascita dell''homo game'

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Informazioni sul libro

La diffusione dei videogiochi nel corso di questi ultimi anni ha influenzato profondamente il nostro immaginario collettivo fino a modificare la nostra concezione del Sé. In questa nuova edizione, il volume affronta i temi della cosiddetta ‘cultura della simulazione', del passaggio dalla ‘cultura della profondità' alla ‘cultura della superficie', dei sostanziali cambiamenti della percezione spazio-temporale e delle concezioni di identità, alterità, verità e finzione, del rapporto fra realtà e gioco e delle nuove forme di dipendenza patologica dovute ai videogiochi presenti nella società contemporanea.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116012

Capitolo quarto. «Homo ludens»

Non è straordinario che un giocatore, soltanto per finzione,
possa piegare l’anima di fittizi personaggi a un concetto, così che,
per effetto di quella pura simulazione, il volto d’essi si copra d’emozioni;
occhi in lacrime o aspetto gioioso o voce rotta e l’intero lor agire
in perfetta aderenza a quel concetto? E tutto ciò per gioco! Puro gioco!
Che cosa sono loro per il giocatore, perch’essi debbano piangere,
gioire e vivere così? E che farebbero allora, questi personaggi,
se avessero quel che il giocatore ha come esistenza?
Inonderebbero la vita di nuova realtà,
sconvolgerebbero il mondo con roboanti comportamenti,
cancellerebbero le certezze di chi si sente nel vero reale?
È un limite non tracciato che fa impallidire gli innocenti,
confondere gli ignari, sbigottire i giocatori1.
Tutto sembrerebbe essere cominciato così, per gioco.
Il gioco originario, quello che rintracciamo alla base di uno dei più fecondi miti di fondazione della cultura umana, volle organizzarlo Prometeo per dimostrare le sue superiori capacità – quelle tipicamente umane – rispetto a quelle del suo dio, Zeus. Il confronto, in questo caso, tra creatura e creatore, in una sfida ludica basata su un gioco di intelligenza, rappresenta un modello paradigmatico assai ricorrente nella storia dell’umanità.
Molto tempo dopo, in un’epoca già non più mitica ma storica, un gioco simile, ma con la vecchia creatura al posto del dio-creatore, vedrà l’uomo confrontarsi con la macchina, in una non meno avvincente sfida di gioco. Siamo nel 1950, quando un matematico di straordinaria arguzia e intelligenza – un po’ come il suo antenato Prometeo – elabora un gioco che definisce «il gioco dell’imitazione». In esso un uomo e una donna vengono collocati in due stanze diverse e non comunicanti. Un terzo giocatore dovrà porre ai due delle domande al fine di scoprire quale è il maschio e quale la femmina. Ovviamente le domande non verranno poste direttamente, ma attraverso la mediazione di una telescrivente. L’interrogante potrà porre domande di ogni genere agli individui collocati nelle due stanze, ma non avrà con essi alcun tipo di rapporto diretto e non potrà avere modo di sapere nulla sul loro conto, al di là delle risposte alle sue stesse domande. Scopo apparente del gioco sarà quello di scoprire chi è la donna: il ruolo della donna è quello di fare il possibile per aiutare l’interrogante a capire la verità; quello dell’uomo è invece di cercare di confondere con le sue risposte le idee dell’interrogante, di riuscire ad ingannarlo.
L’ideatore del gioco però, non ha in mente questo tipo di simulazione, ma inserisce una variante fondamentale: cosa accadrebbe se una delle due persone poste nelle stanze separate venisse sostituita da una macchina? Questo brillante signore si chiamava Alan Turing, e il gioco di cui abbiamo tracciato i caratteri essenziali sta alla base di quello che ancora oggi può essere considerato il più significativo strumento per valutare l’intelligenza di una macchina e che è un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia affrontare il problema della creazione dell’uomo artificiale: il celeberrimo test di Turing.
Ma torniamo a Prometeo (etimologicamente «colui che riflette») e al suo gioco fondatore: il mito narra che, dopo aver offerto a Zeus un sacrificio, il Titano gli avesse lasciato la possibilità di scegliere per primo tra due grandi mucchi di carne ottenuti macellando l’animale sacrificato. Zeus scelse l’ammasso più grande, sotto il quale, però, Prometeo aveva ingannevolmente celato solo pelli ed ossa, lasciando invece tutta la parte migliore delle carni nel mucchio più piccolo, che finì pertanto per spettare a lui.
Il seguito è noto: Zeus, sconfitto dall’ingannevole giochino propostogli, lo punì strappandogli il fuoco destinato a bruciare l’offerta, privando così simbolicamente l’essere umano di quel fondamentale elemento. Prometeo, a sua volta, tutt’altro che arrendevole, riportò ancora una volta il fuoco tra gli uomini, facendo definitivamente irritare la divinità, che gli inflisse la più severa delle punizioni: Prometeo venne legato a una montagna del Caucaso con un’indistruttibile enorme catena costruita appositamente dal fabbro divino Efesto. Così immobilizzato, l’intraprendente Titano fu costretto a subire l’enorme tormento causatogli da un rapace che gli rodeva il fegato, che continuamente si riformava.
La severità della punizione inflitta dalla divinità, per quanto cruenta, appare però ben commisurata alla gravità, da un punto di vista simbolico, dell’inganno perpetrato. La ribellione della creatura, per quanto rivelata attraverso un semplice gioco di simulazione – tipico di quei processi interattivi in cui ciò che appare non corrisponde mai a ciò che è, ovvero ciò che si mostra non ha una corrispondenza con ciò che ci si attende – è un gravissimo, forse il più grave, affronto. La divinità viene giocata; la realtà viene dissimulata; il mondo, dal momento in cui ciò viene reso possibile, diventa un’altra cosa, una virtualizzazione.
Da allora in poi è possibile una realtà non prestabilita, non prevista dalla divinità, ma creata e ri-creata continuamente dall’uomo, grazie al suo proprio fuoco, alla sua propria cultura, alla sua propria natura tecnologica.
In «quella» data – secondo l’a-storica datazione di ogni mito (la sfida delle nuove creature tecnologiche al loro creatore-uomo, il cui emblema resta il test di Turing, sarà solo un semplice aggiornamento dello stesso tema)2 – nasce e prende vita il primo uomo artificiale, colui che può vivere solo organizzando la sua esistenza nell’ambito di una realtà costruita e strutturata intorno a regole artificiali, vivendo tale realtà «virtuale» come se fosse l’unica, vera realtà. Ovvero come se fosse un gioco.
Il grande storico olandese Johan Huizinga è stato certamente il più famoso divulgatore dell’idea secondo la quale la cultura dovrebbe essere considerata sostanzialmente un gioco: «Il gioco è più antico della cultura – egli scriveva nell’ormai lontano 1939 –, perché il concetto di cultura, per quanto possa essere definito insufficientemente, presuppone in ogni modo convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare. Anzi [...]. Già nelle sue forme più semplici, e nella vita animale, il gioco è qualche cosa di più che un fenomeno puramente fisiologico e una reazione psichica fisiologicamente determinata. Il gioco come tale oltrepassa i limiti dell’attività puramente biologica: è una funzione che contiene un senso. Al gioco partecipa qualcosa che oltrepassa l’immediato istinto a mantenere la vita, e che mette un senso nell’azione del giocare. Ogni gioco significa qualche cosa»3.
Quest’idea della cultura come sub specie ludi, che ha poi trovato negli anni successivi non pochi epigoni, si fondava in Huizinga su di una prospettiva teorica molto ampia che – come ha sottolineato Umberto Eco nella sua introduzione (peraltro molto critica) a una delle edizioni italiane dell’opera4 – mantiene intatto il suo fascino. «In homo ludens non si afferma soltanto che ogni cultura fa posto a manifestazioni ludiche o che il gioco si fissa subito come forma di cultura. Una volta identificate le caratteristiche del gioco si arriva all’assunzione che i caratteri del gioco sono quelli della cultura e che quindi la cultura sin dall’antichità si manifesta come gioco. E in questo senso si esce subito dalle malinconie apocalittiche di chi vede la modernità come degenerazione ludica della cultura: la prospettiva è anzi rovesciata, la ludicità è contrassegno delle culture classiche e (semmai) viene messa in crisi dalle degenerazioni della cultura contemporanea»5.
Se si estende l’analisi del pensiero di Huizinga anche ad altri suoi lavori, si può comprendere però più in profondità il suo discorso, in tutta la sua ampiezza e complessità. Questo fondamentale bisogno di gioco, ad esempio, andrebbe considerato in modo più ampio come necessità, che appartiene ad ogni società umana, di risolvere armonicamente e con generale soddisfazione le proprie contraddizioni. Di fronte a un bisogno così inteso si aprirebbero allora tre possibili opzioni, che possono essere considerate tre forme ideali di cultura: «una cultura della rinuncia, tipica del primo Cristianesimo; una cultura del miglioramento, che il Medioevo ha ignorato e che si è sviluppata solo nel secolo XVIII; e infine una cultura dell’evasione, che costruisce un mondo ideale, un ‘regno dei sogni’»6, sviluppatasi in particolare nel corso degli ultimi due secoli.
A ben vedere, si tratta di un’interpretazione non molto distante dalle più attuali prospettive teoriche fiorite nell’ambito della storia dei processi culturali, in cui le trasformazioni intervenute nel mondo occidentale vengono presentate seguendo una sorta di linea evolutiva che, movendo dalla cosiddetta fase aristocratica, tipica delle società premoderne, giunge – non senza aver prima attraversato un periodo di significativa democratizzazione, caratteristica della modernità – all’attuale fase edonista, affermatasi nella nostra tarda modernità. Guardando ad esempio alla storia della pedagogia occidentale, si può comprendere più esplicitamente il manifestarsi di tali «ideali» di cultura: alla prima fase corrisponderebbe un modello pedagogico in base al quale colui che viene sottoposto a un processo di formazione viene spinto a realizzare ciò che già possiede per natura. Tale paradigma è connesso a un’idea in base alla quale l’identità di ognuno sarebbe già inscritta nel suo corredo ereditario. La socializzazione e i processi educativi devono pertanto servire soltanto, in questo caso, a tirare fuori da sé ciò che già si è, al fine di essere in grado di mantenere il proprio status, la propria posizione sociale, la propria identità prescritta.
La fase della democratizzazione corrisponderebbe invece, dal punto di vista degli obiettivi pedagogici da perseguire, a un ideale di cultura che potremmo definire del superamento (o, come direbbe Huizinga, del miglioramento). Gli stimoli presenti nel processo di socializzazione devono indurre in questo caso un bisogno di realizzazione, indipendentemente da qualunque status ascritto. Tutti devono godere (almeno teoricamente) del diritto di formarsi e di realizzarsi, a cominciare da uno stesso punto di partenza, uguale per tutti. Non si può non riconoscere chiaramente in tale modello ideale il nucleo stesso di una serie di presupposti tipici del mondo moderno, e in particolare dell’idea di progresso. A questo ideale però – più o meno lentamente, a seconda dell’impostazione dei diversi studiosi che hanno provato a fornire la propria interpretazione – se ne è venuto sovrapponendo un altro, che sembra diventato tipico della nostra cultura postmoderna. In tale ambito l’imperativo sembrerebbe essere uno solo: godersi la vita.
Laddove nella prima fase prevaleva un orientamento ideale verso il passato, e in quella successiva un orientamento altrettanto ideale verso il futuro, ai fini della realizzazione della propria identità, in quest’ultima tappa ciò che gran parte degli studiosi vedono imporsi è una visione assolutamente edonista, in cui l’importante è stare bene, piacersi, prolungare quanto più è possibile quello che ci si augura diventi un eterno presente7.
Oltre agli esempi già riportati nelle pagine precedenti, questo «edonista postmoderno» può essere ben identificato anche rifacendosi alla famosa metafora della cicala e la formica. Come si ricorderà, la cicala «coniuga tutto al presente, qui ed ora. Essa ignora il futuro ed il passato, dilata l’istante e si risolve nella gioia primitiva dell’immediatezza. Una autenticità di consumi senza riserve ne costituisce il fondamento»8. Al contrario della formica, essa non conosce le virtù della previdenza, né l’ansia per il futuro, al quale non intende sacrificare nulla del proprio presente.
Le esigenze di un individuo così socializzato sembrano convergere: o si cerca di «evadere» dalla realtà quotidiana, se questa non soddisfa le proprie esigenze edonistiche, oppure, se possibile, si cerca di trasformarla in una sorta di gioco perenne. In entrambi i casi la logica prevalente resta comunque la stessa, quella del giocatore.
Non dimentichiamo inoltre che, a conferma della bontà di alcune delle intuizioni di Huizinga oggi tornate così di moda, almeno un altro grande sociologo, Max Weber, aveva presagito che, tra le varie conseguenze dell’aspirazione al profitto, della cura dei beni esteriori, delle passioni puramente agonistiche spinte all’estremo dal processo di razionalizzazione, ci sarebbe stata la trasformazione del mondo in una sorta di «gabbia d’acciaio» tutt’altro che agevole da abitare. Fatta questa ipotesi, Weber acutamente ipotizzava che il mondo occidentale avrebbe finito col produrre degli «edonisti senza cuore».
Se infine consideriamo il polemico capitolo finale di homo ludens su L’elemento ludico nella cultura odierna, in cui la responsabilità dell’anomia e dell’impoverimento culturale che caratterizzerebbe il mondo moderno viene attribuita proprio alla trasformazione del «senso» del gioco (che avrebbe perso il suo originario ruolo organico, per adattarsi principalmente a funzioni ridotte in sfere circoscritte come quelle dello sport professionale), possiamo trovare un’ulteriore intuizione tutt’altro che superata. Se è vero ciò che teorizzava lo studioso olandese, infatti, non ci si dovrebbe assolutament...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione alla presente edizione
  2. Introduzione
  3. Parte prima. Alle origini dell’«homo communicans»
  4. Capitolo primo. Tecnologie e mutamenti antropologici
  5. Capitolo secondo. Tecnologie e mutamenti psico-sensoriali
  6. Capitolo terzo. «Homo communicans»
  7. Parte seconda. L’avvento dell’«homo game»
  8. Capitolo quarto. «Homo ludens»
  9. Capitolo quinto. Coinvolgimento e re-incanto
  10. Capitolo sesto. «Homo game»
  11. Conclusioni
  12. Riferimenti bibliografici