La pedofilia
e i suoi nemici
Primavera 2010. Dopo otto anni di martellamento mediatico sulla malvagità dei musulmani, con tanto di foto riprodotte in ogni tiratura possibile dell’immagine della sposa-bambina di Nouakchott in Mauritania – foto dell’anno Unicef 2007 – (leggi: «gli islamici oltre ad essere terroristi sono anche pedofili; il punto di fine della storia, di trionfo globale del capitalismo, comporta lo scontro di civiltà anche perché questi barbari travolgono uno dei baluardi su cui si fonda la nostra società occidentale, ossia la distinzione bambini/adulti e il diktat morale di tutela dell’infanzia che include il divieto di pratiche sessuali con i bambini»), finalmente l’Occidente si sveglia in piena bufera preti-pedofili.
Tra teste di prelati che saltano qua e là per il mondo e voci sempre più insistenti che toccano i suoi più stretti collaboratori di sempre, Joseph Ratzinger esorta i preti a «essere come Angeli». Non sfugge che, al di là del rigoroso rimando teologico sottostante, nella sublime analogia preti-angeli si cela un contenuto popolare «trasparente»: per l’iconografia religiosa, gli angeli sono bambini seminudi o, tutt’al più, presenze efebiche sul cui sesso ancora inutilmente ci si interroga.
Poche settimane più tardi la polizia belga perquisisce tombe di prelati nella cripta di una abbazia, alla ricerca di carte segrete su casi di pedofilia insabbiati. Angeli e demoni appunto.
Botta e risposta. Nel caldissimo luglio 2010 ecco servito da Santa Romana Chiesa il documento «tolleranza zero» per la pedofilia, redatto dalla Congregazione per la dottrina della fede, che modifica il Delicta Graviora (il documento pubblicato nel 2001 contenente le prime linee guida per trattare i casi di pedofilia). Tra gli altri provvedimenti, prescrizioni raddoppiate sino a venti anni per gli autori di abusi, ma ancora nessuna esortazione alla collaborazione con le forze dell’ordine.
Tolleranza zero o quasi. Ma anche comprensione quasi zero: che senso ha dichiarare un nuovo corso di severità per un fenomeno sulle cui vere cause non si è apparentemente fatta chiarezza?
La confusione del Vaticano al riguardo è evidente e il suo riflesso più appariscente è la concomitante recrudescenza di attacchi all’omosessualità nel clero, come se i due fenomeni – abusi sessuali sui minori e orientamento sessuale dei preti – fossero direttamente collegati. Tesi in realtà superata definitivamente, non solo grazie ad approfonditi studi sul tema provenienti dal mondo laico universitario, ma anche da pezzi della Chiesa stessa.
Cinque anni fa la Confederazione dei vescovi americana finanzia il John Jay College of Criminal Justice di New York con 1,8 milioni di dollari (parte dalle casse della Congregazione, parte dalle offerte dei fedeli ma con una cospicua offerta anche del dipartimento di Giustizia) per il più autorevole studio mai condotto sulla pedofilia nel clero.
Le conclusioni – pubblicate sul «New York Times» e riprese in Italia da ilpost.it – sono a dir poco sorprendenti. Dimenticarsi la storia dei preti costretti a molestare gli innocenti a causa delle «aberrazioni» imposte da celibato e omosessualità: la maggior parte degli abusi si è verificata negli anni successivi al 1968 e dunque si è trattato di un vero e proprio «effetto Woodstock»: la pedofilia tra i preti sarebbe il frutto del permissivismo degli anni Sessanta.
Anzi, il progressivo aumento di preti omosessuali nel clero è corrisposto a una graduale diminuzione degli episodi di abusi sui minori. Non solo. I preti pedofili non avrebbero potuto essere identificati in anticipo perché – in base a quanto emerso nello studio – non presentano «particolari caratteristiche psicologiche» o disturbi psichici.
Ma se la causa di questi eventi è puramente esterna alla Chiesa significa che è un fenomeno che non la riguarda? Che non la tocca in «modo strutturale» se non per un’ovvia questione di presentabilità morale?
Per molti cattolici ortodossi sembrerebbe proprio di sì. Anche in Italia. Rispondere – come fa l’autorevole sociologo Introvigne in un recente saggio in difesa di Ratzinger – che i pedofili nella Chiesa non sono più numerosi che in altri contesti della società e che i casi accertati sono «solo» frutto di devianze individuali, sarebbe come dire che la questione lascia del tutto intatto il campo dell’organizzazione simbolica dell’istituzione.
L’alternativa è che abbiano ragione filosofi come Žižek quando dicono che i casi di pedofilia all’interno della Chiesa sono rilevanti proprio (e forse solo) nella misura in cui rivelano il modo di funzionamento della Legge. Come le canzoncine sconce che in ogni parte del mondo fanno parte del «bagaglio culturale» di qualunque esercito che si rispetti – insegna su tutti il sergente Hartman in Full Metal Jacket – ogni istituzione, per sopravvivere, deve rendere possibile l’eccesso che la sua norma «ufficiale» proibisce.
E forse in pochi altri casi come nel fenomeno della pedofilia, il lato oscuro della Legge è buio profondo, e discuterne ci permette di sollevare un poco il velo della funzione simbolica dei bambini nella collettività.
Da dove nasce questa foga per la caccia al pedofilo, che poi scatena la mattanza? Siamo proprio sicuri che quando i pedofili sono preti il problema della mattanza riguardi un eccesso di anticlericalismo?
In realtà sembrerebbe che a scrivere i documenti più efficaci contro la Chiesa cattolica siano, come spesso accade, proprio i cattolici che ce l’hanno con i laicisti. Ed è curioso che l’altro argomento portante del libro di Introvigne consista nella tesi secondo cui l’attacco mediatico alla Chiesa – transitato dal noto documentario BBC e dalle «inchieste» del «New York Times» – è frutto di un «panico morale» fondato su numeri gonfiati e giudizi sommari.
Come se la storia stessa «dell’allarme pedofilia», dagli anni Ottanta in poi, non fosse esattamente la storia di un panico morale planetario, con la stampa impegnata in una campagna a tappeto: «decine di migliaia di bambini scomparsi ogni anno, rapiti quasi sempre per essere sfruttati sessualmente!». Salvo poi scoprire che tutte le cifre ufficiali parlavano di dati ben più modesti e comunque incerti.
Un panico morale alla cui costruzione, tuttavia, ha contribuito non poco proprio l’atteggiamento moralistico del cattolicesimo più radicale, specie negli Stati Uniti. Non a caso le sottocomunità o i «gruppi» a turno accusati d’essere responsabili dell’ondata di abusi sessuali sui bambini – psicopatici, gay, zingari, ebrei, misteriose lobby internazionali, satanisti, stravaganti permutazioni dei suddetti – erano precisamente quei gruppi di individui che sfuggivano alla norma della famiglia cattolica tradizionale (o se si vuole «integralista») e del familismo radicale delle comunità parrocchiali statunitensi. E che, non potendo essere ricondotti all’ordine morale ortodosso, diventavano «automaticamente» oggetto delle peggiori proiezioni paranoidi della società.
Forse certi cattolici dimenticano che la caccia al pedofilo è un genere letterario che non ha certo inventato la stampa laicista anticlericale. Non è necessario risalire ai tempi della caccia alle streghe per farsene un’idea. Basti pensare a ciò che accadde a cavallo tra 1800 e 1900, quando l’Europa cattolica prima e la Germania nazista poi coltivavano l’immagine dell’ebreo-fornicatore, travolto dalle passioni al punto da minacciare anche i bambini. Del resto, anche questo attacco altro non era in fondo che la «naturale» prosecuzione della vecchia storia degli ebrei che rapivano i bambini, per poi ucciderli in riti privati.
«Mafiosi e pedofili? Meglio se si suicidano! Sono sicuro che molte persone la pensano come me!», dice il deputato leghista Buonanno nel giugno 2010 in un’intervista per affaritaliani.it, poi ripresa dalla «Repubblica». Un anno più tardi, l’altro grande quotidiano nazionale pubblica un articolo su «Firenze: Uomo accusato di pedofilia. Folla assedia casa per linciarlo. Decine di persone sono arrivate davanti alla casa, anche con bottiglie di benzina. La polizia mette in salvo l’uomo» («Corriere della Sera», 29 giugno 2011).
Anche in tempi recenti, come si vede, la caccia al pedofilo è rimasta quel tipo di produzione narrativa al cui testo ha contribuito in modo meticoloso quella stessa «sensibilità» politica su cui hanno attecchito le derive populiste cui assistiamo in tutto l’Occidente democratico, specie dopo ogni allarme sociale che minaccia l’ordine costituito.
La questione ha radici antiche. Il mito romantico dell’innocenza infantile si fondava su una specie di equivalenza: i bambini restano innocenti nella misura in cui sono protetti dal sesso e dalla morte. Naturalmente non sfugge che questa equivalenza può essere letta in senso opposto: non sono sesso e morte a corrompere l’innocenza ma, piuttosto, è la nostra stessa definizione di innocenza a implicare l’assenza di sesso e morte. Appiccichiamo l’attributo «innocente» a ciò che sfugge la contaminazione di questi due dominii, che evidentemente riteniamo sporchi.
Con il romanticismo, tuttavia, si costruisce anche un preciso discorso sulla «bellezza» dei bambini: la loro purezza, infatti, veniva considerata come diretta emanazione delle forze più oscure della natura. La controparte negativa di questa poetica della «potenza» infantile era però l’idea che i bambini, come le donne, fossero ipersensibili alle passioni e dunque incapaci di consentire liberamente a qualunque passione intensa, specie quelle connesse alla sfera erotica.
Come si vede, questo «discorso» – che comportava automaticamente il divieto di pratiche sessuali tra adulti e bambini – è inerente a una visione dell’infanzia che nulla ha a che fare con la cosiddetta cultura della sua tutela, più giovane di almeno un secolo.
Non sorprende dunque che il fantasma della tutela del corpo erotizzabile dei bambini – come un tempo quello delle donne – sia diventato una sorta di baluardo fondamentale della società, ciclicamente minacciato da folli e orde di barbari o delinquenti variamente assortiti. Da combattere, scovare e porre alla pubblica gogna. Tanto che negli Stati Uniti esistono alcuni registri pubblici consultabili (childmolester.com e sexoffender.net) con la lista dei «cattivi» e il luogo di residenza. Un comodo «chi è chi» della colpa, per la gioia di onesti padri di famiglia.
È evidente che ciò che qui ci interessa non è quanti siano effettivamente i pedofili e se nelle istituzioni religiose ve ne siano di più che in altri contesti, cosa che curiosamente sembra interessare più chi difende l’operato del Vaticano anziché chi lo attacca. L’aspetto più rilevante è: come è possibile che nell’opinione pubblica si formi qualcosa come un panico morale per il pedofilo? Per quale motivo la caccia al pedofilo funziona così bene dal punto di vista del coinvolgimento emotivo delle persone? Di quale tipo di «desiderio» è fatto oggetto il pedofilo dalle masse bramose di scovarlo e punirlo?
Che la distinzione adulto/bambino comporti il divieto morale di rapporti sessuali tra adulti e bambini è un fatto assodato e sacrosanto. Quale sia il senso profondo di questo divieto è invece ass...