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Gli Ebrei:
riflessioni su un’identità
Quando nel 66 d.C. scoppiò la grande rivolta che condusse alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio, il legame tra Roma e gli Ebrei esisteva ormai da molti anni, dal 161 a.C. almeno: da quando, cioè, col proposito di creare difficoltà interne al regno di Siria che tentava di intraprendere il cammino di una difficile ripresa, il senato della res publica aveva deciso di concedere agli insorti giudaici, guidati dai fratelli Maccabei, la propria amicizia e di stipulare un trattato. Questa mossa, pur non traducendosi in un intervento diretto nella lotta dei ribelli contro il potere seleucide, aveva tuttavia ottenuto che il pensiero ebraico percepisse al primo contatto la Potenza italica come uno Stato forte e sostanzialmente virtuoso, pronto a soccorrere chi ne chiedesse l’aiuto. Era stato anche grazie all’amicizia di Roma che Simone Maccabeo – il terzo dei fratelli, assurto a Sommo Sacerdote (142/1-134 a.C.) – aveva potuto avviare la fortuna di Israele: «E riposò la terra, nei giorni di Simone, il quale procurava il bene alla sua gente. E piacque loro sempre la sua signoria e la sua autorità, ... e coltivarono la loro terra in pace, e la terra dava le sue messi e gli alberi i loro frutti; i vecchi sedevano nelle piazze ragionando degli affari e i giovani vestivano bene e si esercitavano nelle armi... Dette al paese la pace, e il paese godé di grande prosperità, e ognuno sedeva sotto la sua pergola e il suo fico, e non vi era chi li atterrisse»1.
Neppure un secolo dopo, tuttavia, il rapporto era drasticamente mutato: al termine della terza guerra mitridatica (64 a.C.), il regno frattanto costruito a spese dei Seleucidi dalla dinastia degli Asmonei (che del movimento maccabaico rappresentava l’evoluzione) era entrato definitivamente nell’orbita di Roma. Occupato da Pompeo, che aveva osato penetrare nel Tempio di Gerusalemme e violare il Santo dei Santi, e privato di gran parte delle appendici territoriali acquisite in circa un secolo di guerre, prima di liberazione e poi di conquista, il territorio della Giudea aveva conosciuto vicende alterne: affidato inizialmente al Gran Sacerdote Ircano II (63-40 a.C.), era poi passato – dopo la parentesi del nipote e rivale Antigono, sostenuto dai Parti – ad Erode, che fu detto ‘il Grande’.
Figlio di una principessa araba e dell’Idumeo Antipatro, un oriundo delle terre meridionali di conversione recente, già consigliere di Ircano, Erode aveva saputo conquistarsi la fiducia prima di Antonio e poi di Ottaviano. Al di là delle eccezionali qualità di cui era indubbiamente dotato, quest’uomo disponeva, agli occhi dei Romani, di un requisito assolutamente unico: una devozione assoluta, benché interessata.
Erode si era trovato così, grazie alle loro concessioni, alla testa di domini la cui estensione era prossima a quella massima del regno asmoneo. Circa un decennio dopo la morte dell’energico sovrano – che aveva cercato di mantenere il rispetto formale delle tradizioni religiose giudaiche e aveva costruito un nuovo splendido Tempio, ma aveva governato come un principe ellenistico –, la Giudea era stata infine sottratta da Augusto al figlio maggiore di lui, il debole e crudele Archelao (6 d.C.), e mutata in provincia romana di secondo ordine sotto un praefectus di rango equestre. Successivamente assorbite sarebbero state anche le tetrarchie, i minuscoli domini affidati agli altri figli di Erode, Erode Antipa e Filippo. Dopo alcuni esperimenti di breve durata con Caligola e Claudio, sarebbe stata questa, infine, la soluzione prescelta: la peggiore, poiché la dinastia indigena costituiva un prezioso diaframma tra l’ombroso popolo ebraico e quei Romani il cui dominio neppure le mille cautele anche religiose da essi adottate riuscivano a rendere tollerabile.
Per capire le ragioni di un rifiuto nei confronti di Roma che, nelle proporzioni almeno, rimase unico per tutta l’antichità (e che, come vedremo, provocò una reazione altrettanto estrema da parte dell’impero) è utile ripercorrere per sommi capi la parabola storica e ideale del popolo ebraico, dal collasso di quello che si ipotizza essere stato il mitico impero di Davide (1000-960 a.C.) fino ai primi decenni dell’era nostra. Esteso a comprendere quasi tutta la Palestina (escluse ne erano rimaste solo le città filistee e fenicie, lungo la costa), questo organismo – la cui esistenza, attestata esclusivamente dalla Bibbia, è oggi revocata in dubbio dagli archeologi – si sarebbe comunque diviso in più entità già una generazione dopo la morte del fondatore, e i rapporti tra le diverse Case regnanti nate da esso sarebbero stati messi in crisi dalla crescita costante di alcuni caratteri nazionali che, qui più che altrove, erano pienamente coscienti e avevano cominciato a identificarsi con la componente religiosa. La tradizione afferma che a Yahveh si sarebbe reso, da Davide in poi, un culto di Stato a Gerusalemme, dove – secondo una caratteristica comune alla grande maggioranza delle civiltà vicino-orientali, inclusa quella egizia – il dio era sentito come una presenza fisica reale all’interno del Tempio a lui dedicato: dove, cioè, si manifestava una forma di enoteismo, inteso come culto di una divinità specifica, tutelare di un singolo popolo, ma senza pretese universalistiche. Nel suo nome divamparono così autentiche guerre sante contro nemici che, a loro volta, si riconoscevano in divinità nazionali (come Kemosh per i Moabiti o Dagon per i Filistei).
Anche all’interno della compagine ebraica, tuttavia, si produsse una frattura netta, che coincise con lo scindersi del regno dopo Salomone. In proposito le fonti, sia quelle mesopotamiche sia la Bibbia, che parla dei due rami di uno stesso popolo chiamandoli «figli di Israele», sono concordi; e l’archeologia conferma che – sia pure con qualche variante – cultura, lingua e religione erano le stesse. La monarchia di Israele, a nord, comprendeva le regioni che andavano da Bethel a Dan, vicino al monte Hermon. Qui la pur forte devozione yahvistica (i nomi teoforici israelitici fanno, comunque, riferimento ad una divinità soltanto) non impediva la pratica di altri culti (tra cui, popolarissimo presso la base cananea, quello per la coppia Baal-Astarte), con un’apertura e una tolleranza che solo la tradizione successiva avrebbe poi condannato, dividendo secondo il loro atteggiamento i re in buoni o cattivi. La parte meridionale del paese, occupata dal regno di Giuda, che inglobava Gerusalemme e il Tempio giungendo fino al Negev, rimase invece solidamente legata, nel più rigoroso esclusivismo, all’autentica tradizione religiosa nazionale.
Anche se taluni caratteri della religione mutarono profondamente, il processo di identificazione tra realtà ebraica e yahvismo finì con l’accentuarsi ulteriormente con l’esperienza del duplice Esilio, durante il dominio esercitato su Israele e Giuda dagli imperi assiro prima, neobabilonese poi. Cadde prima Israele, nel 722/21 a.C., e successivamente Giuda, nel 587/86 a.C. L’ultima età di questo secondo regno vide l’accentrarsi del culto nazionale, la proclamazione dell’unicità del Tempio, la distruzione dei luoghi sacri ad altre divinità e la persecuzione dei loro sacerdoti e dei loro fedeli, il rifiuto infine di quegli atteggiamenti sincretistici ch’erano stati talvolta tollerati in passato; e vide altresì la prima sistemazione organica della Legge (nel Deuteronomio, ovvero «Seconda Legge»). Espressione del Patto – o Alleanza – con Dio, questa divenne la base stessa della vita per il popolo ebraico, che finì per maturare la convinzione che solo il pieno rispetto di essa gli avrebbe garantito la protezione di Yahveh, pronto altrimenti ad abbandonarlo nelle mani dei suoi nemici.
Da simili premesse avrebbe preso in seguito l’avvio sia una rilettura in chiave attuale dei trascorsi religiosi del popolo ebraico, sia una rivisitazione retrospettiva della sua storia. Da un lato, si invertì la reale parabola dello yahvismo: per una fede che inizialmente era aperta a forme sincretistiche e si era poi via via irrigidita e ripiegata su sé stessa si immaginò, viceversa, un’originaria purezza solo in seguito contaminata dai contatti con il mondo esterno; e si postulò che Israele avesse avuto fino dalle origini un dio unico, il quale aveva orientato ogni fase della sua storia passata. Dall’altro lato, si vollero rileggere sempre più le vicende della storia ebraica nell’ottica esclusiva del rapporto con Yahveh, il cui intervento – premiando il rispetto della Legge o punendone le violazioni – ne aveva costantemente determinato trionfi e catastrofi.
Lungi dal perdere la fede, dal crollo dei regni di Israele e di Giuda, dalla caduta di Gerusalemme, dalla successiva duplice deportazione gli Ebrei furono addirittura spinti a cercare vieppiù rifugio e speranza in Dio. L’interpretazione teologica data alla storia e la perdita sia pure momentanea di ogni base politica e territoriale fecero infine della religione la componente essenziale dell’identità israelitica. Capace di alimentare attese salvifiche sia pure all’inizio di carattere immanente (fu infatti naturale dedurre che, se una violazione della Legge aveva provocato la caduta, sarebbe bastato il suo ripristino a portare redenzione), lo yahvismo divenne via via più totalizzante, alimentando nel popolo ebraico la convinzione di essere da sempre la ‘comunità’ dei fedeli del dio.
Anche i differenti criteri politici seguiti da Assiri e Babilonesi contribuirono a mutare il quadro della regione. Le terre del nord (Israele e gli Stati aramaici) furono colonizzate dai primi che, attenti all’osmosi tra i sudditi, le ripopolarono – pare – con genti venute da ogni regione del loro impero, mischiandole forse con la porzione del popolo ebraico rimasta in situ. Se i Samaritani ancora rivendicavano la loro discendenza dal regno settentrionale, la mancata esperienza dell’Esilio aveva contribuito a differenziarli totalmente dai loro vicini meridionali; addirittura la leggenda delle «dieci tribù perdute» (quelle – forse nove, non dieci – che componevano la parte settentrionale dello Stato davidico, sul cui conto la Bibbia tace a partire dall’Esilio babilonese) parla di un’identità, quella del regno d’Israele, dissoltasi completamente nel tempo. La parte sud del paese, la Giudea, fu invece conquistata dai neo Babilonesi e rimase semideserta, ma non vide in alcun modo diluita la sua identità etnica e culturale. Gli stessi metodi sarebbero stati seguiti nei confronti dei deportati che, secondo la diversa impostazione politica dei vincitori, furono dagli Assiri distribuiti nelle varie province e mescolati alle popolazioni locali, e dai Caldei (Babilonesi) concentrati in Babilonia, dove mantennero incontaminati lingua, costumi e religione.
Proprio l’esperienza dell’Esilio aiuta forse a calarsi nella parabola storica e ideale del popolo ebraico. Se fra le realtà del mondo antico esso fu uno dei non molti popoli a sperimentare la perdita della propria terra, decisamente unica fu la reazione seguita a tale catastrofe: una reazione che portò gli Ebrei ad affermare la propria identità persino a prescindere dal possesso, pur costantemente rivendicato, di un determinato territorio.
Fenomeno straordinario e assolutamente unico per l’antichità, la temperie culturale, politica e religiosa sviluppatasi nel corso dei secoli VI e V a.C., durante l’Esilio, generò in seno all’élite ebraica del tempo alcune figure capaci di condizionare la mentalità e le credenze di tutto un popolo, instaurando valori e concetti le cui tracce permangono sensibili, talvolta ancor oggi, persino nell’Ebraismo moderno. La svolta principale verso una concezione del tutto nuova fu probabilmente il passaggio, guidato da personalità d’eccezione come quelle di Neemia ed Esdra, da una religiosità arcaica, e cioè da quello che era tutt’al più un enoteismo – dove, come si è detto, il dio era una presenza percepibile e, per così dire, reale oltre il velo del Tempio –, al monoteismo vero e proprio, che fonda l’unicità di Dio su un piano squisitamente etico2. Nell’Ebraismo post-esilico la Legge, intesa come complesso cogente di norme morali e comportamentali, non si manifesta più attraverso l’intervento di un re che stabilisce un tramite fra umano e divino (come era avvenuto in tutto l’Oriente antico, ad esempio per Hammurabi e per il suo codice legislativo), ma promana direttamente da Dio...