La lingua della Nazione
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La lingua della Nazione

  1. 224 pagine
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La lingua della Nazione

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La lingua italiana ha dato modelli e vocaboli alle altre lingue e da esse ne ha ricevuti; è vissuta per secoli e vive tuttora accanto ai dialetti e infine, con l'Unità nazionale, è diventata la lingua di tutti.

È nell'evolversi dell'italiano che Maurizio Dardano ricerca l'identità della nostra nazione e attraverso un confronto fra la cultura alta e quelle subalterne (tradizioni, mentalità, costumi, abitudini) interpreta linguisticamente tutto ciò che ci appartiene: la cultura, il progresso delle conoscenze, il variare delle idee e delle ideologie, i contatti con l'Europa, la crisi della politica, gli stili di vita che cambiano.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858115206

1. I fattori dell’identità

1.1. Certezze / Incertezze

Nel 1979 tra le pagine dell’Enciclopedia Einaudi apparve un articolo dal titolo: Identità / Differenza, nel quale si trattava di conoscenza analitica, quindi di matematica e di logica. Con quel titolo un lettore di oggi si aspetterebbe certamente un tema del tutto diverso. L’odierna «identità» – affrontata e discussa in innumerevoli occasioni – s’inscrive in una dimensione antropologica: riguarda i contatti tra società, etnie e popoli, diversi per credenze, tradizioni e costumi; descrive le incomprensioni e i conflitti, ma anche gli scambi e le solidarietà conseguenti a quelle situazioni d’incontro che si manifestano nel nostro tempo. Si è aperto un nuovo campo di ricerche, dove si studiano le dinamiche espresse dai gruppi sociali, dalle culture e dalle ideologie presenti nel nostro orizzonte storico e culturale.
La prospettiva identitaria è entrata nel campo della linguistica, confrontandosi con le dimensioni già note della variazione, la quale può riguardare la situazione, lo strato sociale, lo spazio e il mezzo (variazione diafasica, diastratica, diatopica, diamesica). Se è introdotta in modo proprio, la prospettiva identitaria può portare a un arricchimento dell’analisi. Non ritengo tuttavia che questo fattore abbia mutato i caratteri della disciplina, come mostrano di credere alcuni ricercatori, i quali annoverano l’identità tra i parametri interpretativi della variazione linguistica. Certo si sono delineate nuove direzioni nello studio sociolinguistico; in particolare, l’incontro del paradigma «noi / altri» con le suddette dimensioni ha mostrato nuovi possibili obiettivi della ricerca; ma il multiculturalismo, se ha arricchito il lavoro del linguista, rendendolo più complesso, talvolta ha inglobato corrivamente paradigmi e procedure di analisi già sperimentati da tempo e con profitto; talvolta si è trasformato in un discorso meramente ideologico. Una frase ripetuta da molti: «l’ideologo è colui che sopprime ciò che sospetta essere vero». Per quanto riguarda in particolare l’Italia, il nostro è «un Paese in cui i principi sono più importanti delle soluzioni, gli slogan contano pù degli argomenti e le leggi sono buone soltanto quando si conformano ai dettati dell’ideologia» (Romano). Appare qui un aspetto tipico del pensiero postmoderno, che attua la mescolanza, la convivenza, l’ibridazione di pensieri e di riferimenti culturali diversi, senza tener conto delle distinzioni, delle alternative e delle opposizioni dettate dalla logica.
Vero è che se vogliamo evidenziare i legami intercorrenti tra lingua e identità, l’attenzione si deve concentrare sulle funzioni simboliche e marcanti della lingua più che sulle funzioni comunicative; al tempo stesso si deve approfondire la contestualizzazione delle situazioni esaminate, altrimenti la ricerca risulterà irrimediabilmente viziata. Noi tutti possediamo più aspetti di un’identità predominante, il rilievo con cui si presenta ciascuno di questi aspetti cresce o diminuisce a seconda delle circostanze e dei contesti. Anticipando quanto avremo modo di illustrare più approfonditamente in seguito, è bene chiarire subito che la molteplicità dell’identità o degli aspetti con cui essa si presenta produce una gamma di stili e di comportamenti sociali variamente differenziati.
È necessario comunque mantenere le necessarie distinzioni e soprattutto occorre accrescere la capacità critica di osservare e comprendere tali distinzioni. Infatti, che cosa accade se le funzioni espressiva, sociale, conativa, ecc. sono assorbite in un campo dove ogni confine è stato abolito e dove tutto ondeggia in una fluidità permanente e indefinita? Che cosa rimane se il relativismo finisce per annullare ogni distinzione di costumi, di tradizioni, di classi, di contesti sociali, storici e geografici? Proprio perché abbiamo il dovere di confrontarci con un mondo che cambia, dobbiamo selezionare temi concreti dal campo linguistico, lasciando da parte questioni che, per il fatto di coinvolgere competenze non soddisfatte, finiscono per rimanere vaghe. Dichiaro fin d’ora il mio personale scarso interesse per quesiti del tipo: l’identità multipla è una teoria del postmoderno? i nuovi confini di natura mentale, cognitiva e culturale hanno sostituito (stanno sostituendo) i confini nazionali?
È necessario riportare il discorso su alcuni dati concreti riguardanti sia la nostra sia le altre comunità. Ed è necessario anche fissare alcuni punti di confronto con il passato. L’odierno discorso sull’identità riguarda situazioni e problemi nati nell’ultimo ventennio: la globalizzazione, con le sue conseguenze economiche e politiche, la deregulation, l’immigrazione nell’Europa occidentale di gruppi sociali provenienti dai Paesi in via di sviluppo. È un discorso che tratta di convivenze, ideologie, stili di vita. Dobbiamo considerare anche, risalendo più indietro nel tempo, quegli avvenimenti interni che, nati sulla scia della crescita democratica e della modernizzazione del nostro Paese, hanno influito sul sentimento della nostra identità. Ecco tre eventi (tra i molti che si potrebbero prendere in esame) che hanno modificato comportamenti, modi di vedere il nostro mondo e di stabilire rapporti con esso: la liberalizzazione degli accessi universitari (1969), la nascita delle televisioni private (1976), la campagna elettorale del 1994, giudicata da molti una linea di demarcazione tra la vecchia e la «nuova» politica italiana.
Possiamo parlare, a questo punto, di modi diversi, rispetto al passato, di concepire l’identità italiana? Se sì, dobbiamo chiederci al tempo stesso se ciò comporti un mutamento sia dei giudizi sulle qualità della nostra lingua sia degli usi che ne facciamo. È facile constatare, ponendoci nella prospettiva del discorso pubblico, che tali giudizi non si muovono più soltanto intorno alla tradizionale nozione di prestigio; si misurano anche rispetto a qualità recentemente rivalutate: l’efficacia espressiva di tono medio-basso, la brevità, la leggerezza, la capacità di superare confini e di riferirsi a realtà diverse. Sono qualità che certamente rinviano a una nozione diversa e innovativa di identità. Perciò accanto all’identità poniamo il prestigio, concetto che ha reso allo studio della lingua e dello stile (sia di singoli individui sia della società) riconosciuti servigi: confido che questa chiave di lettura possa favorire l’interpretazione di situazioni complesse, soprattutto in una prospettiva comparativa. Sulla scena italiana agiscono varietà linguistiche che si ripartiscono compiti e domini, si differenziano o si fondono, competono tra loro. Idee-guida tra loro strettamente correlate, identità e prestigio forniscono strumenti di confronto e di valutazione, che permettono di osservare i rapporti tra società e culture nella particolare prospettiva dell’uso della lingua.
Rispetto a quei Paesi che sono stati interessati, in anticipo rispetto all’Italia, da consistenti flussi migratori, la nostra opinione pubblica ha preso coscienza del problema dell’identità (purtroppo non senza quell’enfasi che è diventata abituale a politicanti e comunicatori mediali) soltanto negli ultimi anni. La conoscenza dei problemi reali dell’immigrazione è stata sovente condizionata dall’ideologia e dal sensazionalismo. Sull’identità la stampa seria discute, la televisione per lo più illustra e racconta, la piazza sproloquia. Una saggistica mirata ha prodotto una forte tematizzazione di questi problemi. Un’elementare riprova di ciò si ha studiando la diffusione dei vocaboli identità, identitario (e in generale dei termini relativi al campo dell’appartenenza, al senso dell’appartenenza) nel discorso pubblico e nella stampa; quest’ultima ha favorito anche usi impropri (spesso identità appare in luogo di personalità, il proprio io, gusti e tendenze personali, coscienza nazionale, memoria collettiva, tradizione, abitudini, ecc.) e metaforici; ricordiamo, per contrasto, un uso serio del vocabolo in questione: identità storica di ordine generale. L’enfasi con cui sono trattati questi temi non risparmia neppure gli scritti specialistici: «Ogni qual volta parliamo di identità, nel fondo della nostra mente si affaccia un’immagine sfocata di armonia, logica, coerenza; tutte quelle cose di cui il flusso della nostra esperienza sembra – gettandoci in perpetua disperazione – così abominevolmente priva. La ricerca di identità è l’incessante lotta per arrestare o rallentare il flusso, di solidificare il fluido, di dare forma all’informe» (Bauman). «Schizofrenia identitaria» e «negazionismo identitario» sono due atteggiamenti ugualmente sbagliati e pericolosi. Un esempio di saggezza ci viene, come accade spesso, dal mondo della scienza. Ultimamente il fisico Gerald Holton ha dichiarato: «Ho visto emergere tra i giovani europei la coscienza di un’identità culturale comune, che si somma, senza negarla o sminuirla, alla loro identità nazionale». Parole sulle quali gli addetti ai lavori dovrebbero riflettere.
Di segno opposto è il discorso nichilista di coloro che parlano di «presunzione occidentale» e guardano con sospetto le idee di «civiltà», «umanità», «umanesimo», perché, a loro avviso, con tali idee si confonderebbe l’essenza dell’umanità con quella di una sua forma storica particolare, la giudeo-cristiana. Quanto fallace sia un simile discorso si vede chiaramente quando lo si confronta con una concezione dinamica dell’identità, i cui posizionamenti ideologici sono in rapporto con le circostanze storiche soggette a variazione. Inoltre tale nichilismo modaiolo dimentica che la liberaldemocrazia è una creazione della cultura e della civiltà occidentale. Vero è che, dopo il crollo del Muro di Berlino, l’illusorio trionfo dell’Occidente ha coinciso con un ripiegamento dell’idea stessa di Occidente cui ha fatto seguito, in un quadro storico e culturale mutato, una riconsiderazione dei valori civili ed etici, tanto più necessaria in un’Europa divisa per tradizioni e culture.
Il concetto di «identità» dalla filosofia è passato alla psicologia, dove un’«identità-idem», incline al confronto con l’altro da sé, si distingue da un’«identità-ipse», che tende a conservarsi nel tempo. È la tesi di Paul Ricoeur, il quale ripropone la distinzione hegeliana tra identità e riconoscimento: la prima dipende dalle pratiche di riconoscimento sociale e pertanto appare sempre in formazione. C’è chi sostiene che l’identità non è altro che il referente immaginario dei processi di identificazione. In ogni modo è certo che negli ultimi anni il concetto di identità ha invaso progressivamente i territori dell’antropologia e dell’etnologia, installandosi, in forme non sempre chiare, nell’immaginario collettivo. Tuttavia l’ultima e fortunatissima accezione del vocabolo è stata registrata non senza incertezze e con inspiegabile ritardo dai nostri lessicografi. Anche l’aggettivo identitario, in circolazione da anni nella nostra stampa e nella nostra saggistica, è stato accolto soltanto nel 2003 dall’Appendice del Grande dizionario italiano dell’uso (GRADIT). Nella stampa e nella saggistica odierna le espressioni contenenti l’aggettivo identitario sono innumerevoli; eccone qualche esempio scelto a caso: cambiamento identitario, configurazioni identitarie, forme identitarie, prospettiva identitaria, sensibilità identitaria, simbolo identitario, tensione identitaria; si vedano anche espressioni come: «declinazione dell’identità nazionale», «pilastri e mattoni dell’identità linguistica», «strumento d’identità». «Identità linguistica» è una voce aggiunta nella seconda edizione del Dizionario di linguistica di Gian Luigi Beccaria (2004): era assente nella prima edizione del 1994. Tra queste due date non sono mancate riflessioni sul tema: ricordo soltanto che in un convegno di linguisti e di storici, tenutosi a Palermo nel 1999, si lamentò giustamente il fatto che i temi «lingua» e «storia linguistica» non fossero entrati ancora nei discorsi riguardanti l’identità italiana.
Ma anche altri Paesi dell’Europa occidentale hanno acquisito con ritardo il tema dell’identità. Il quarto volume del Lexikon der Romanistischen Linguistik (1988), dedicato alla lingua italiana e alle sue varietà, non affronta in modo diretto il tema dell’«identità». Diversa è la situazione del mondo anglosassone, che da molti decenni è alle prese con consistenti flussi immigratori: nel 1987 la Cambridge Encyclopedia of Language, opera mirata a una finalità didattica e divulgativa, presentava un capitolo: Language and Identity. The many ways in which language expresses a person’s individuality or social identity. Indubbiamente la linguistica anglosassone si può vantare di aver sviluppato con anticipo studi riguardanti questo particolare settore della ricerca.
L’identità antropologica, che nella sua accezione specifica si può considerare un calco dell’inglese identity, è un vocabolo-testimone della nostra epoca; come lo sono stati in vari momenti della storia moderna altri vocaboli ed espressioni: rivoluzione, impegno, lotta di classe, alienazione, contestazione, frontiera (intesa come ‘punto d’incontro fra due società’), garantismo, qualità della vita, questione morale, compromesso storico. Il vocabolo identità intreccia una pluralità di rapporti con altri vocaboli ed espressioni che appartengono al nostro tempo; infatti si trova al centro del campo semantico dell’appartenenza; è in prossimità di vocaboli «positivi» come: attraversamento (di culture, etnie, ecc.), concertazione, condiviso (condivisione ‘partecipazione’, memoria condivisa), dialogo, fondamento (fondativo), integrato (integrazione), partecipazione, riconoscimento, solidale (solidarietà), trasversale (trasversalità); di verbi come legittimare, riconoscersi; di vocaboli passibili di assumere valori tra loro opposti: alterità, contaminazione, contatto, diversità, ibrido, ibridismo (ibridazione), nomade (nomadismo); di vocaboli sicuramente negativi come: emarginazione, esclusione, ghetto, ghettizzazione, marginalità; si oppone a razza, e ai suoi derivati: razziale, razzismo, razzializzare. Esiste da tempo un vocabolario europeo dell’identità: flusso migratorio – flux migratoire – migratory flux, logiche identitarielogiques identitairesidentitary logics, logica meticcia – logique metisse, ecc. (invece hybrid logic è una branca della logica contemporanea). Potremmo anche parlare di «prefissati dell’interazione», formati con inter-, multi- e trans-: interpersonale, multiculturale, multietnico, transnazionale, transeuropeo. Accanto a prefissati normali, come dislocazione e delocalizzare, dovremo abituarci a prefissati «iconici» muniti di trattino, i quali hanno già fatto la loro comparsa nella stampa: de-situare, de-privato, de-privare; dovremo accogliere traslati come smarginare ‘privare di margini’ (detto di un’identità che un tempo appariva compatta). Resta confermata la necessità di studiare i vocabolari della diversità, perché in essi si manifestano palesemente fenomeni identitari e perché tali vocabolari sono provvisti di fisionomie diverse da quelle che appaiono in altri settori del lessico in sviluppo. Vi sono vocaboli-guida, dotati di una carica ideologica, e vocaboli che, essendone del tutto privi, devono la loro fortuna alla moda e all’uso acritico che ne fanno i media. Tra questi ultimi va annoverato l’anglismo escalation, in voga negli anni della guerra del Vietnam e passato dall’originario contesto bellico a una banale genericità; ricordiamo ancora un paio di esempi: glasnost, russismo di successo che ha segnato la crisi del comunismo sovietico e che è stato in seguito sostituito con trasparenza, ed ecosostenibile, che è diventato progressivamente un magico aggettivo del perbenismo politico-mediatico. Rispetto a questi vocaboli, la carica ideologica di identità è assai più consistente, anche a causa del fitto reticolo di rapporti intrattenuti con altri individui del medesimo settore lessicale.
Il modo di vedere l’«identità» anche linguistica è mutato sensibilmente nella seconda metà del secolo XX. Ma già negli anni Venti il linguista danese Otto Jespersen, in pagine ricche di penetranti osservazioni, aveva confrontato tra loro e sullo sfondo della lingua i concetti di «nazione», «umanità» e «individuo» (termini in parte estranei all’attuale discorso multietnico); lo studioso sottolineava con vigore che l’uomo parla per realizzare un’istanza di socievolezza e che il linguaggio serve innanzi tutto per stabilire un contatto umano. I tempi non erano maturi per introdurre quella dimensione sociolinguistica e antropologica che si è affermata negli ultimi decenni. Oggi si pongono domande di questo tenore: quali forme assume il binomio identità / alterità nella comunicazione linguistica? come si definisce il rapporto «noi / loro»? come si devono interpretare i concetti di vicinanza e distanza da sé? a che cosa ci si riferisce quando si parla di identità e di alterità nella lingua comune, nei media, nel discorso pubblico? Se è vero che l’identità cosciente di sé è il risultato di una costruzione cognitiva e che l’identità si afferma per mezzo del linguaggio, è anche vero che nel linguaggio si consolidano i giudizi, i luoghi comuni, i clichés, gli stereotipi che riguardano tale concetto. Nel linguaggio si fissano, al tempo stesso, i significati di migrante, straniero, minoranza, identità locali, ecc. (con le relative connotazioni). Nel linguaggio hanno il loro fondamento sia le tipologie dell’identità (lingua e identità di genere, lingua e identità sessuale, lingua e identità nazionale) sia l’ideologia che avvolge i discorsi riguardanti tali temi. In ogni caso, non è da dimenticare un dato di fatto: in Italia la popolazione è cresciuta: siamo 60 milioni e 300.000 abitanti, tre milioni in più rispetto al 1998; tale incremento è dovuto all’immigrazione.

1.2. Una storia piuttosto particolare

Rispetto all’Europa, l’Italia presenta una sua storia politica del tutto diversa, i cui effetti, pur essendo legati a eventi storici molto lontani nel tempo, si fanno sentire ancora nella nostra epoca. La Francia, la Spagna, l’Inghilterra (non la Germania, che ha vissuto vicende, per tanti aspetti, simili alle nostre) sono state oggetto, in un periodo che va dalla metà del XII alla fine del XV secolo, di un processo di unificazione politica e territoriale, che si concluderà con la nascita delle monarchie nazionali. Nella Penisola invece sussistono fino all’epoca moderna diversi Stati regionali, prima in lotta per la supremazia, poi in una sorta di convivenza più o meno pacifica. La pace di Lodi (1454) rende temporaneamente stabile una situazione di equilibrio, sostenuta da Lorenzo il Magnifico, fra le tre maggiori potenze italiane: Milano, Venezia e Firenze. Alla morte di Lorenzo (1492) l’Italia è invasa dagli stranieri. Inizia una storia regionale che fa uscire dalla scena mondiale il nostro Paese e che sarà efficacemente riassunta nel detto famoso, formulato a metà dell’Ottocento da Metternich: «l’Italia è un’espressione geografica». Nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (1824) Leopardi presenta il quadro di un’Italia priva di una società, di valori sentiti e di costumi (diversamente da quanto si riscontra in Francia); nel Risorgimento dell’Italia Gioberti sostiene che il ...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. 1. I fattori dell’identità
  3. 2. Una storia contestata
  4. 3. Miti di oggi
  5. Bibliografia