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Le disuguaglianze in aumento
Sette a uno, otto a uno, nove a uno, dieci a uno. Sembra la sequenza dei risultati di amichevoli tra squadre di calcio professioniste e dilettanti durante la preparazione estiva. In realtà questa sequenza indica l’aumento tendenziale delle disuguaglianze di reddito all’interno dei Paesi Ocse. Se negli anni ’80 il reddito disponibile del 10% più ricco era in media 7 volte quello del 10% più povero, negli anni ’90 il rapporto era di 8 a 1, negli anni 2000 del 9 a 1 e nell’ultimo decennio si è avvicinato al 10 a 1. Anche nei Paesi tradizionalmente più egualitari – come Germania, Danimarca e Svezia – il divario di reddito tra ricchi e poveri si sta espandendo: da 5 a 1 negli anni ’80 ad oltre il 6 a 1 oggi. Andrea Brandolini lo scrive a chiare lettere: «anche se le esperienze nazionali variano e non c’è una storia unica, nelle ultime tre decadi le disuguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate in molti paesi avanzati» .
I dati sull’aumento tendenziale delle disuguaglianze cominciano solo ora a riflettere l’impatto della pandemia del Covid-19, ma molti segnali ci dicono che c’è un rischio reale che la crisi contribuisca ad ampliare ulteriormente il fossato tra chi sta in basso e chi sta in alto. L’impatto immediato della crisi sulle disuguaglianze nei Paesi industrializzati è stato mitigato se non completamente annullato dalle ingenti misure emergenziali di sostegno al reddito dei più svantaggiati, come sottolineato anche in un recente numero della rivista «Journal of Economic Inequality» dedicato all’impatto distributivo della crisi. A livello globale, però, il Fondo monetario internazionale ha calcolato che l’impatto della crisi da Covid in termini di disuguaglianze rischia di essere di gran lunga peggiore di quanto accaduto nelle pur drammatiche crisi finanziarie recenti. E ha citato un semplice dato, condiviso con l’International Labour Organization: nel solo settore del turismo e dei viaggi, il più colpito dalla crisi, lavorano nel mondo 600 milioni di persone (senza considerare la ristorazione) e sono per lo più giovani, pagati poco, migranti. A questi, fra i più duramente colpiti e ricacciati in basso nella scala socioeconomica, si aggiungono, secondo stavolta la Banca Mondiale, 2 miliardi di “irregolari” nei più diversi settori, che sono i primi “aderenti” al plotone di almeno 97 milioni di persone che sono state sospinte verso la povertà estrema (1,90 dollari al giorno) nel 2021.
La pandemia ha fatto saltare tutti i progetti di riduzione della povertà estrema su scala mondiale: entro il 2030 doveva essere ridotta a non più del 3% della popolazione nel globo sotto la soglia di 1,9 dollari al giorno, secondo la Banca Mondiale, ed essere eliminata sotto la soglia degli 1,25 dollari al giorno secondo i Sustainable Development Goals fissati dall’Onu, con una cogenza pari a quella della riduzione delle emissioni di CO2 per contenere il climate change. Invece, a questo punto, le proiezioni sono ben diverse: difficilmente si potrà stare sotto il 7% della popolazione con meno di 1,9 dollari al giorno e c’è una forte probabilità di avvicinarsi al 10%. Si era arrivati a fine 2019 all’8,4% rispetto alla base di partenza del 10% definita nel 2010. Si doveva arrivare secondo i programmi al 7,9 nel 2020 e al 7,5 nel 2021. Macché: stando alle prime stime, nel 2021 il tasso di povertà è schizzato a causa della pandemia oltre il 9%. La coorte dei “poveri estremi” torna così ad aggirarsi sugli 800 milioni di individui, un livello che si credeva abbandonato per sempre.
La crisi Covid rischia di avere un impatto profondo sulle disuguaglianze anche all’interno dei Paesi industrializzati. I sistemi di protezione sociale, molto più sviluppati che nei Paesi in via di sviluppo, e le risorse ingenti messe a disposizione con i programmi emergenziali – i “ristori”, in Italia – hanno permesso di contenere l’impatto immediato della crisi sulle disuguaglianze. Allo stesso tempo, però, la crisi ha colpito con maggior violenza i più vulnerabili, i lavoratori con basse qualifiche, i precari, i migranti, le donne e i giovani. C’è il rischio reale che questo shock si traduca in effetti persistenti sulle loro opportunità di lavoro, carriera e reddito e quindi sulle disuguaglianze. Proprio i servizi essenziali, che durante i lockdown ci hanno permesso di continuare a vivere, sono per la maggior parte svolti da persone con basse qualifiche e contratti precari: ma chi tra loro non svolgeva attività essenziali ha avuto una probabilità doppia di perdere il lavoro rispetto ad un lavoratore con competenze più alte e magari l’opportunità di lavorare da remoto. In particolare, i giovani sono stati i primi a perdere il lavoro perché il più delle volte assunti con contratti a termine di breve durata, mentre i lavoratori più anziani hanno potuto almeno in parte beneficiare di forme di sostegno dei posti di lavoro, come la Cassa integrazione guadagni straordinaria (Cigs). E mentre più del 50% dei lavoratori con alte qualifiche ha potuto lavorare da casa, solo il 19% dei lavoratori con basse qualifiche ne ha potuto beneficiare. Le donne sono state altrettanto sacrificate: in prima linea nel fronteggiare il virus, visto che costituiscono i due terzi del personale sanitario, sono state spesso obbligate a scelte difficili per la necessità di prendersi cura dei figli con le scuole chiuse. Ancora più stridenti le contraddizioni per il sistema formativo. La tecnologia digitale ha permesso di continuare la scuola con la didattica a distanza (DAD) per i nostri ragazzi, seppure con una qualità inferiore dell’apprendimento. Ma per i bambini di famiglie a basso reddito le possibilità di continuare a studiare con le nuove modalità sono state esigue, poiché spesso non avevano né un computer né una connessione veloce, e tantomeno potevano contare sul sostegno dei genitori, il più delle volte cruciale. Nei Paesi in cui il tasso di scolarizzazione era già più basso, questa disparità nella formazione ha assunto dimensioni drammatiche (si veda il capitolo 6).
La pandemia ha rivelato con brutalità come le disuguaglianze che si sono accumulate negli ultimi decenni e che ormai riguardano ampi strati della classe media, schiacciata tra redditi anemici e costi sempre più elevati, stiano non solo minando la coesione sociale, ma ci abbiano resi tutti più vulnerabili economicamente e socialmente. Ma quasi come un paradosso, la crisi pandemica offre anche un’opportunità forse unica, la possibilità concreta di ricostruire in fretta il tessuto sociale sfibrato da questa crisi epocale, e se possibile di ricostruirlo meglio. I piani, spesso ambiziosi, di rilancio messi in campo dai governi – come il nostro Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) basato sui fondi europei del Next Generation EU – potranno permettere se usati bene non solo di far recuperare il terreno perso in termini di crescita economica durante la pandemia, ma anche e soprattutto di affrontare quei nodi cruciali che sono alla base dell’aumento delle disuguaglianze nell’accesso alle opportunità per chi è più svantaggiato. Accesso ma anche qualità della formazione scolastica, dall’asilo nido all’università; formazione per gli adulti che affrontano cambiamenti epocali sul mercato del lavoro; sanità per tutti vista come un investimento e non un capitolo di spesa da tenere sotto controllo; protezione sociale che offra a tutti una rete di sicurezza contro gli imprevisti della vita, anche a prescindere dal tipo di contratto di lavoro. È una scommessa dalle molte incognite ma dalla posta altissima: la capacità di costruire un mondo migliore di quello in cui ci trovavamo allo scoppio della pandemia.
Trend globali e disuguaglianze
Nei Paesi occidentali, da qualunque angolazione lo si guardi – come reddito, ricchezza accumulata, rendite varie, insomma stato patrimoniale o conto economico che sia –, il fenomeno delle disuguaglianze assume contorni inquietanti.
L’indicatore più usato per misurare le disuguaglianze è il coefficiente di Gini, introdotto all’inizio del XX secolo dallo statistico italiano Corrado Gini, che misura la disuguaglianza partendo dalla distribuzione del reddito o della ricchezza. Gini, è opportuno ricordare, era il “mago dei numeri”: basandosi su quanto avevano scoperto gli storici, arrivò perfino a calcolare l’indice di Gini nell’antica Roma (0,54 per la cronaca). Il coefficiente è un numero compreso tra 0 e 1; valori bassi indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la ...