IV.
Geopolitica della paura
1. Il terrorismo di matrice geopolitica
Il metodo della paura ha sempre avuto un ruolo in geopolitica. Come si è visto, del terrorismo si sono serviti e si servono, in primo luogo, gli Stati: sia direttamente, organizzando atti terroristici attraverso propri organi e agenti; sia indirettamente, sostenendo entità non statali che praticano il terrorismo strumentalmente ai propri interessi, contro altri Stati o a favore di certe ideologie o cause politiche. In secondo luogo, gli stessi movimenti di liberazione e per l’autodeterminazione che hanno fatto uso del metodo terroristico avevano in definitiva obiettivi di carattere geopolitico, cioè la conquista di potere politico, economico e sociale in un certo territorio.
Vi sono poi casi in cui entità non statali, non di rado sostenute da Stati, intraprendono il metodo terroristico per perseguire principalmente finalità geopolitiche. Il terrorismo privato di matrice geopolitica emerge compiutamente solo negli anni Novanta in un’area geografica a cavallo fra Africa, Asia ed Europa: è l’erede illegittimo dei movimenti di liberazione e la storpiatura patologica dell’islamismo politico. Sul piano politico e culturale si viveva in quegli anni la fine di un ciclo storico, una fase di tramonto e declino dell’islamismo politico, che per diversi decenni era stato interprete dei cambiamenti della regione soppiantando le varie istanze nazionalistiche. La gioventù urbana povera, la borghesia e i ceti medi religiosi erano divisi da esperienze, ambizioni e concezioni del mondo molto eterogenee, però trovavano nel linguaggio politico islamista un elemento unificatore che esprimeva in qualche misura le frustrazioni, i sogni infranti, le ambizioni, le speranze di ciascuna di queste categorie.
L’islamismo incarnava l’utopia ricorrente della restaurazione della società giusta delle origini, quella fondata dal Profeta a Medina, che perdeva la sua astrattezza se paragonata alla realtà. Strideva il contrasto fra questi ideali e un mondo di regimi rapaci, corrotti, costruiti su clientele etniche, confessionali e familistiche, la repressione autoritaria e la sistematica soppressione dei diritti. Al fallimento morale si univa quello politico, perché quei regimi erano incapaci o non interessati a rappresentare, se non equamente almeno dignitosamente, le diverse componenti di società complesse, etniche, sociali, religiose. Il sottosviluppo economico ricadeva poi in modo immensamente più pesante sui soggetti marginali, esclusi dalla distribuzione delle risorse, riservate agli anelli che si allargavano attorno al potere. Una piccola parte dell’islamismo si era evoluta acquisendo i caratteri del fondamentalismo religioso: il dogmatismo insito nel ritenere le fonti infallibili, immutabili, non contestualizzabili e non storicizzabili; la costruzione del nemico, interno alla società islamica e appartenente ad altri mondi; l’eventuale accettazione della violenza. Quest’ultima, è importante ricordarlo, non è coessenziale al radicalismo: in tutte le esperienze rivoluzionarie o fondamentaliste esiste una certa quota di aderenti che ammette la necessità della violenza per conseguire gli obiettivi della lotta, ma solo un’estrema minoranza la esercita in prima persona, decidendo di versare sangue innocente.
La corrente islamista subisce una brusca involuzione con il jihad afghano, che nello spazio di breve tempo diviene la causa universale più importante in cui si riconoscono militanti politici radicali e che in qualche modo prende il luogo dell’eterna questione palestinese, simboleggiando il passaggio dal nazionalismo all’islamismo. In Afghanistan affluiscono combattenti da tutto il mondo: Egitto, Algeria, Penisola Arabica, Balcani, Sud-Est asiatico. Si costituiscono brigate internazionali che vivono in ambienti rudimentali, rurali, chiusi, puritani e gerarchici come si conviene a campi di addestramento militari. La maggior parte dei mujahiddin è di cultura modesta e ha una conoscenza molto limitata della religione, così assorbe le nozioni dottrinarie abusive che sono trasmesse dai religiosi radicali che nei campi di addestramento hanno il ruolo di giustificare varianti dell’islamismo fondate sulla lotta armata e su un estremo rigorismo religioso. Nel curriculum di studi dei campi sparsi prima in Pakistan, poi in Afghanistan, e più di recente in quelli dello Stato Islamico in Iraq e Siria si prevedono sia l’addestramento pratico, con le armi e gli esplosivi, sia le classi teoriche che hanno la funzione importante di motivare i combattenti, di giustificare eticamente la violenza e di rafforzare la determinazione necessaria per affrontare o rischiare la morte, a seconda del caso che si sia chiamati a operazioni suicidarie o alla routine della guerriglia. Sullo sfondo si stende sempre la profonda contesa geopolitica fra Iran e Arabia Saudita per il dominio sul Golfo: un conflitto che riattizza i tizzoni accesi da secoli e mai spenti della disputa confessionale fra sciismo e sunnismo, il primo nell’incarnazione della rivoluzione khomeinista, il secondo nella variante intransigente del wahabismo.
Da qui ha origine non solo la galassia di al-Qaida ma anche lo Stato Islamico. Il metodo del terrore è per questi movimenti lo strumento per conseguire potere geopolitico. La cifra qaedista è la lotta al nemico lontano, l’Occidente infedele, ingiusto e persecutore dei musulmani; mentre nell’aspirazione territoriale e di rappresentanza politica dello Stato Islamico è insito il contrasto al nemico vicino, i regimi della regione, considerati corrotti, filo-occidentali e apostati. Questi terroristi-jihadisti attingono abusivamente alle cause di liberazione nazionale e ai relativi linguaggi, propagandando una versione grottesca e massimalista della religione, che nelle loro mani diventa polifunzionale: disciplina di vita, frasario di battaglia, messaggio mediatico e codice oscurantista di oppressione delle genti. Il paradosso è che questa nuova classe di terroristi-oppressori è figlia di quegli oppressi che erano ricorsi alla violenza terroristica contro occupanti e dominatori nell’ambito dei movimenti di liberazione nazionale e di autodeterminazione, vedendovi uno strumento di libertà.
2. Il “terrorismo islamico” non esiste
Il “terrorismo islamico” non esiste. Se si volesse collegare concettualmente la violenza terroristica al fondamentalismo politico-religioso si dovrebbe semmai usare l’aggettivo “islamista”, ma anche questa espressione, esaminata a fondo, risulta inevitabilmente priva di contenuto e significato, come lo sono le perifrasi in apparenza politicamente corrette “di matrice islamica” e “di ispirazione islamica”. In generale, accostare al concetto di terrorismo una specifica religiosa (islamico, ebraico, cattolico, buddhista...) offende ingiustamente mondi molto vasti che sono estranei e semmai vittime della violenza, e non aiuta la comprensione, il contrasto e la prevenzione. L’associazione ad arte di determinate parole può determinare correlazioni illusorie, vale a dire connessioni mentali suggestive, malevole e infondate, utili a caratterizzare negativamente certe categorie di persone accostandole a fatti o a concetti repulsivi e stigmatizzabili: diverso-nemico, migrante-terrorista, terrorista-islamico. D’altronde, se c’è un punto sul quale nessuno dissente è che il jihadismo, pur proponendosi come interprete di frustrazioni fondate e ampiamente condivise, non ha affatto incontrato un sostegno sociale diffuso: resta all’interno dell’Islam un corpo estraneo, un’aberrazione di fronte alla quale pochissimi sono disposti alla condiscendenza, quasi nessuno alla condivisione. Così, attribuire la responsabilità di brutalità e nefandezze sic et simpliciter all’Islam, senz’altra specificazione, serve solo a provocare risentimento anche in chi rifiuta la violenza e indebolisce una necessaria alleanza fra musulmani e non musulmani contro il terrorismo.
La parola Islam in arabo rende il concetto di abbandono, di consegna di sé alla volontà divina. Designa tanto la grande religione monoteista fondata da Muhammad quanto l’immenso universo musulmano, la sua civiltà, la sua cultura, la sua arte, la sua storia che si snoda lungo quattordici secoli: un miliardo e mezzo di persone concentrate nel complesso africano e mediorientale e nel Sud-Est asiatico, che hanno disomogenee identità storiche, etniche, nazionali e confessionali.
Gli attributi che si accostano al sostantivo terrorismo sono aggettivi qualificativi e hanno quindi alternativamente la funzione di esprimere una qualità intrinseca, inerente al fenomeno (terrorismo “stragista”, terrorismo “suicida”: commesso con la modalità della strage o suicidaria); di indicarne l’autore (terrorismo “di Stato”, terrorismo “mafioso”: commesso da uno Stato o da un’associazione mafiosa); o di segnalare la funzione perseguita (terrorismo “eversivo”: finalizzato all’eversione). “Islamico” quale funzione svolge? Indica una caratteristica della condotta peculiare allo specifico fenomeno? No, perché le modalità esecutive sono comuni a tutte le forme di terrorismo, compresa quella suicidaria che non è affatto esclusiva di questi specifici fenomeni, né vi è ineluttabilmente connessa (cfr. cap. V.2). Segnala la religione dell’autore, nel senso che se il responsabile è di religione musulmana allora il terrorismo è islamico? Ma è utile questa specificazione? Dovremmo dire che quello dell’Irgun e del Lehi era terrorismo “ebraico” solo perché gli autori erano di questa religione? Semmai quello era “sionista” perché la violenza era funzionale all’ideale della creazione di uno Stato ebraico in Palestina (Sion è il nome della collina di Gerusalemme) e peraltro la violenza era fermamente rigettata dalla stragrande maggioranza del sionismo, come lo è oggi da parte del mondo islamico. O ancora, il terrorismo è islamico, islamista, ebraico, cattolico se persegue la realizzazione di uno specifico ideale religioso? Nemmeno questo è corretto.
Vero è che il terrorismo jihadista nella sua retorica si richiama alla religione, fornendone una visione abusiva, storpiata, grottesca, apocrifa, ma non persegue astratta spiritualità bensì potere, territorio, interessi materiali. Lo Stato Islamico, nello spazzare via le comunità sciite e curdo-yazide, intendeva forse diffondere la propria visione dogmatica della verità o piuttosto fare spazio per la propria parte etnico-confessionale?
Una provocazione aiuta a ribaltare la prospettiva, e a svelare il bluff culturale. Nella storia di Cosa nostra (ma anche della ’ndrangheta e di altre mafie tradizionali) la religione cattolica ha sempre avuto un ruolo importante, e non solo simbolico. Elementi religiosi sono costitutivi del rito di ingresso, le formule pronunciate, il rogo dell’immaginetta sacra; i mafiosi sono invariabilmente presenti con un ruolo primario in tutte le ritualità religiose collettive, le devozioni materiali come portare il santo, l’urna del Crocifisso, la Madonna; vi è un legame fra figlioccio e padrino che è tale in senso cristiano e in senso mafioso; è invalsa la pratica dell’inchino, il rispetto solenne tributato all’uomo d’onore dalla processione davanti alla sua abitazione, nel paese di residenza; ecclesiastici e mafiosi hanno avuto rapporti talvolta molto stretti; i “pizzini” di Provenzano (le istruzioni scarabocchiate su foglietti di carta) sono infarciti di riferimenti sacri, invocazioni a Dio e alla Vergine affinché protegga i mafiosi e le loro azioni; sul comodino dei latitanti, nelle tenebre dei rifugi, è invariabile la presenza di libri sacri. La religione serve alla mafia, da una parte, per affermarsi come depositaria di principi tradizionali positivi in modo da saldare culturalmente la mafiosità ai valori in cui la gente più si riconosce, a partire da quelli religiosi; dall’altra parte, per dimostrare al popolo che essa ha l’autorevolezza e l’autorità per dirigere pubblicamente le cerimonie religiose collettive, essendo prescelta o accettata con questo ruolo dalla Chiesa. Anche qui l’uso della religione è abusivo, e l’obiettivo perseguito è il potere. Sarebbe forse utile scientificamente, o ai fini del contrasto, definire Cosa nostra una “mafia cattolica”?
Ancora, la prova che questa forma di terrorismo è religiosa in essenza sarebbe nel sottostante conflitto secolare che oppone le due correnti principali dell’Islam, sunnismo e sciismo. In effetti, questa è una componente rilevante dell’attuale terrorismo. Ma la fitna al-kubra (“la grande discordia”) che dilaniò la comunità musulmana dopo la morte di Maometto non era dottrinale ma riguardava il potere, la successione del Profeta che aveva mancato di designare un successore, un khalifa (“califfo”). Solo in seguito i tre schieramenti originari, sunniti, sciiti e kharigiti, si differenziarono religiosamente e giuridicamente. Egualmente, il conflitto saudita-persiano nelle sue varie ramificazioni poggia su una diversa identità confessionale e culturale ma è una schietta contesa per la conquista di potere geopolitico.
L’espressione “terrorismo jihadista” descrive la recente deriva terroristica di un concetto che si è snodato lungo i quattordici secoli di storia dell’Islam, il jihad, che nella sua essenza e nella sua storia prescinde del tutto dal metodo della paura. Pur non rientrando fra i cinque precetti fondamentali (shahada: professione di fede; hajj: pellegrinaggio alla Mecca; zakat: elemosina; salat: cinque preghiere quotidiane; sawn: digiuno del mese di Ramadan), il jihad è un elemento centrale dell’Islam. Sebbene jihad significhi letteralmente “sforzo” (fi sabil Allah: sulla via di Dio), “lotta interiore”, “impegno” (per la propria religione) e nelle fonti abbia carattere polisemico, nei fatti il lemma ha progressivamente assunto un valore abbastanza preciso. Nella terminologia occidentale dell’epoca delle crociate medievali la parola viene resa come “guerra santa”, una definizione rigettata dai musulmani, anche perché nel Corano per il concetto di guerra si usano altri termini. Nella dottrina e nella storiografia islamiche, richiama le guerre offensive per le prime conquiste arabo-islamiche del VII e VIII secolo e anche lo sforzo per respingere le invasioni crociate o mongole, e quindi significa “guerra connotata in senso religioso”, “azione militare volta all’espansione dell’Islam ed eventualmente alla sua difesa”.
Nessun serio studioso musulmano sosterrebbe che il jihad sia un concetto spirituale e non violento e sbagliano gli occidentali, pur spinti da intenti apprezzabili, che insistono sul valore pacifico della parola. Fatto è che nel linguaggio comune, chi decide di abbracciare la violenza arruolandosi in un gruppo di combattenti dice che va a “fare il jihad”, mentre a nessuno verrebbe in mente di dire lo stesso se sta preparandosi a un intenso esercizio spirituale. Il Profeta condusse diverse campagne militari per la fede che sono altrettanti esempi del jihad, anche se non ne dichiarò mai esplicitamente uno.
Ai nostri fini rilevano due questioni principali. Tradizionalmente, il jihad può essere legittimamente condotto solo in conformità alla pronuncia di un’autorità riconosciuta (imam o califfo) e nel mondo musulmano si respinge per conseguenza come abusivo e illegittimo il jihad dichiarato dallo Stato Islamico, da al-Qaida o da altri terroristi. In secondo luogo, il jihad proclamato dai gruppi radicali contemporanei, sia quelli globali sia quelli che si oppongono a specifici regimi, trasforma inammi...