Riparare il mondo
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Riparare il mondo

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Riparare il mondo

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Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa che non lo rifarà. Il suo compito è forse più grande: consiste nell'impedire che il mondo si distrugga.

Albert Camus

«Non so mai se abbia senso parlare in termini generazionali. D'altra parte, è pur vero che c'è qualcosa che mi accomuna a quelli che hanno vissuto il passaggio tra i millenni.

Sono cresciuto, come chiunque abbia la mia età, con i miti – i feticci, alle volte – politici del Sessantotto e del Settantasette: qualunque gesto somigliasse anche vagamente a una rivolta, mi è stato detto di misurarlo con quel metro simbolico. E lo stesso è stato per le sconfitte e i reflussi. Di quegli anni e di quelle lotte, però, ho conosciuto anche la tinta della sconfitta. Il terrorismo da una parte e l'eroina di massa dall'altra. In una generazione come la mia, che non ha mai avuto simili esplosioni se non in forme minori e spesso emulative, il confronto con i momenti di sconfitta è più interessante.

Siamo per lo più degli sconfitti, dei reduci, dei superstiti, senza aver ingaggiato alcuna battaglia. Molti sono semplicemente implosi, spesso tornati a vivere a casa dei genitori, molti agganciati agli psicofarmaci. L'espressione assente, il tono di voce distratto, il disincanto che si sclerotizza in apatia, il cinismo di maniera che non riesce nemmeno più a proteggere.

Non faccio che chiedermi perché la condizione di sofferenza comune solo raramente abbia prodotto un atto di ribellione. E soprattutto, perché non è scattato un senso di fratellanza nella condivisione di una condizione materiale, sociale, simbolica simile?»

? tempo di tornare a essere animali politici.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858142912

1.
Il mondo capovolto

“Ogni generazione, senza dubbio, si crede destinata a rifare il mondo”. È una frase del discorso che pronuncia Albert Camus nel 1957, in occasione della consegna del premio Nobel alla letteratura. Lo rileggo a marzo 2020, nei giorni di quella che penso sia la fase acuta della pandemia in Italia. “La mia sa che non lo rifarà”, continua Camus. “Il suo compito è forse più grande”, e
consiste nell’impedire che il mondo si distrugga. Erede di una storia corrotta in cui si fondono le rivoluzioni fallite e le tecniche impazzite, la morte degli dei e le ideologie portate al parossismo, in cui mediocri poteri, privi ormai di ogni forza di convincimento, sono in grado oggi di distruggere tutto, in cui l’intelligenza si è prostituita fino a farsi serva dell’odio e dell’oppressione, questa generazione ha dovuto restaurare, per se stessa e per gli altri, fondandosi sulle sole negazioni, un po’ di ciò che fa la dignità di vivere e di morire. Davanti ad un mondo minacciato di disintegrazione, sul quale i nostri grandi inquisitori rischiano di stabilire per sempre il dominio della morte, la nostra generazione sa bene che dovrebbe, in una corsa pazza contro il tempo, restaurare fra le nazioni una pace che non sia quella della servitù, riconciliare di nuovo lavoro e cultura e ricreare con tutti gli uomini un’arca di alleanza. Non è certo che essa possa mai portare a buon fine questo compito immenso ma è certo che, in tutto il mondo, è già impegnata nella sua doppia scommessa di verità e di libertà e che, all’occasione, saprà morire senza odio1.
Non so mai se abbia senso parlare in termini generazionali. D’altra parte, è pur vero che c’è qualcosa che mi accomuna a quelli che hanno vissuto il passaggio tra i millenni.
Sono cresciuto, come chiunque abbia la mia età, con i miti – i feticci, alle volte – politici del Sessantotto e del Settantasette: qualunque gesto somigliasse anche vagamente a una rivolta, mi è stato detto di misurarlo con quel metro simbolico. E lo stesso è stato per le sconfitte e i reflussi. Di quegli anni e di quelle lotte, però, ho conosciuto anche la tinta della sconfitta. Il terrorismo da una parte e l’eroina di massa dall’altra. In una generazione come la mia, che non ha mai avuto simili esplosioni se non in forme minori e spesso emulative, il confronto con i momenti di sconfitta è più interessante.
Siamo per lo più degli sconfitti, dei reduci, dei superstiti, senza aver ingaggiato alcuna battaglia. Molti sono semplicemente implosi. Quarantenni, spesso tornati a vivere a casa dei genitori, molti agganciati agli psicofarmaci. L’espressione assente, il tono di voce distratto, il disincanto che si sclerotizza in apatia, il cinismo di maniera che non riesce nemmeno più a proteggere. Gli anni fuori corso da uno, due, diventano dieci o venti; quelli di precariato sottopagato l’intera età adulta. Quel periodo brutto alla fine di una relazione si trasforma in una patologia irreversibile. Non sono servite leggi speciali come negli anni Settanta: è bastata la fragilità della tenuta psichica.
C’è un episodio che spesso mi torna in mente. Risale a più di dieci anni fa. Stavo facendo un’inchiesta sul precariato cognitivo: intervistavo ragazzi tra i 25 e i 35 anni, i miei coetanei, laureati, iperformati, ipercompetenti, che vivacchiavano tra assegni di ricerca volatili, elemosine dei genitori e nebulose promesse di contratti – il paesaggio mesto che conosciamo bene. Mi capitò una ragazza, con un dottorato in Antropologia, che era riuscita a strappare una collaborazione part time in una fondazione che le garantiva 650 euro al mese; il resto del tempo lo impiegava tenendo un paio di corsi, degli esami e un altro pseudo-volontariato universitario in vece della sua docente di riferimento – retribuito poco più di un rimborso spese (un altro migliaio di euro l’anno).
Tra gli intervistati, non era una di quelli messi peggio. Era una persona in gamba, determinata, fiera della propria indipendenza (non voleva chiedere soldi ai suoi), e soprattutto era consapevole delle condizioni di sfruttamento, delle dinamiche baronali dell’accademia ecc. Viveva insieme ad altre quattro amiche in un appartamento a Tor Pignattara. Condivideva una stanza doppia, un posto letto per cui pagava 200 euro al mese, un prezzo buonissimo. Più o meno a conti fatti le restavano 500 euro, che potevano aumentare un po’ con qualche introito delle ripetizioni (terzo lavoro, dunque). Di questa cifra spendeva circa 300 euro al mese, mi confessò, per andare in analisi. Diceva di averne un assoluto bisogno perché si sentiva piuttosto depressa: a 30 e passa anni dormiva in un posto letto col materasso smollato come una matricola fuorisede appena approdata a Roma, non immaginava nessuno sbocco lavorativo concreto a lungo termine, si sentiva una fallita nei confronti dei suoi, non riusciva a prendere sul serio nessuna relazione sentimentale, desiderava avere un figlio ma la sola idea le sembrava pura incoscienza, era sempre stanca (la fondazione per cui lavorava aveva sede dall’altra parte della città rispetto a casa e all’università), non faceva politica. Non aveva nemmeno il tempo mentale per dedicarcisi.
Alla fine di quella lunghissima intervista, che si era tramutata in un botta e risposta sulle condizioni materiali e morali di vita negli anni Zero italiani, me ne tornai a casa triste. Dovevo ammettere che la mia situazione non era troppo differente dalla sua; eppure, oltre questa sorta di empatia e di rispecchiamento, non era scattato nessun senso di identità condivisa, nessun grumo di quella che un tempo si sarebbe chiamata “coscienza di classe”.
Il malessere sociale che l’aveva contagiata, lei se l’era preso in carico proprio tutto. La formazione di una coscienza di classe era stata sostituita da un percorso individuale di ricerca di adattamento per cui spendeva quasi la metà di quanto guadagnava. Mi sembrò un simbolo perfetto di quello che stava accadendo alle generazioni di quest’età post-comunitaria. Invece di esternare il malessere, provando a generare conflitto sociale o quantomeno affratellamento, il disagio veniva tutto introiettato e si tentava di risolverlo a proprie spese – letteralmente.
Pierre Dardot e Christian Laval nella Nuova ragione del mondo descrivono in modo esemplare questa condizione:
Dal momento che il soggetto è pienamente consapevole e padrone delle proprie scelte, è anche pienamente responsabile di quello che gli capita: l’“irresponsabilità” di un mondo ingovernabile per la sua stessa caratteristica di globalità ha come controparte l’infinita responsabilità dell’individuo per il proprio destino, per la propria capacità di avere successo ed essere felice. Non accollarsi il passato, coltivare previsioni positive, intrattenere relazioni efficaci con gli altri: la gestione neoliberista di sé stessi consiste nel fabbricarsi un io efficiente, che esige sempre più da sé stesso e la cui autostima paradossalmente cresce di pari passo con l’insoddisfazione che prova per le prestazioni del passato.
La fonte dell’inefficienza ce la portiamo dentro, non può più venire da un’autorità esterna. Un lavoro intrapsichico diventa necessario per cercare una motivazione profonda2.
Se il Novecento è il secolo delle rivolte scaturite dai no, sotto il segno di Bartleby lo scrivano di Melville e dell’uomo in rivolta di Camus, oggi dire no può essere complicato.
Il capo non può imporre, ma risvegliare, potenziare, sostenere la motivazione. La costrizione economica e finanziaria si trasforma così in autocostrizione e autocolpevolizzazione, perché siamo i soli responsabili di quello che ci succede.
Cosa sarebbe accaduto a Bartleby se il capo, di fronte ai suoi preferirei di no, avesse replicato: “Va bene, fa’ come vuoi, la scelta è tua; se non ti vuoi realizzare, fai come meglio credi”? Cosa succede quando persino le conseguenze etiche e psichiche di un boicottaggio sociale deve prenderle in carico chi le subisce, attraverso lo sviluppo di un malessere psichico? Come si fa a essere luddisti contro un algoritmo che prevede i tuoi cambiamenti d’umore?
Non c’è nessuno come Mark Fisher che ci abbia aiutato a pensare che si dovesse mettere insieme la politica e la questione della depressione. L’amico e teorico Simon Reynolds, nel dedicargli uno struggente commiato sul “Guardian”, ricordava il modo in cui nel Realismo capitalista3 abbia mostrato come:
la pandemia di angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere adeguatamente compresa, o curata, se vista come un problema privato sofferto da individui danneggiati4.
In un post del suo blog k-punk, Mark Fisher scrive:
Essere sfruttato non è più sufficiente. Oggi la natura del lavoro è tale per cui quasi a tutti, indipendentemente dall’umiltà della mansione svolta, viene chiesto di esibire un (super)investimento nelle proprie occupazioni. Non veniamo semplicemente costretti a svolgere un lavoro, nel vecchio senso di compiere un’attività che non abbiamo voglia di svolgere: no, ora siamo costretti a comportarci come se ci piacesse svolgerla5.
Nel suo test...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. 1. Il mondo capovolto
  3. 2. Il conflitto? Solo se interiore
  4. 3. L’angoscia mentale è pandemica
  5. 4. Generazione Crono
  6. 5. Gli orfani del conflitto generazionale
  7. 6. La colonia distopica
  8. 7. La dittatura dell’antipolitica
  9. 8. Il futuro fragile