1. La scrittura giornalistica: l’editoriale
I veleni in coda a una dittatura
di Sergio Romano
[1] Il regime di Gheddafi è virtualmente morto, ma potrebbe riservarci ancora qualche sorpresa. Non commettiamo l’errore di pensare che il Colonnello sia stato sempre impopolare. [2] Le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano a una parte della società libica e dell’opinione pubblica africana. [3] I laici e i musulmani moderati approvavano il rigore con cui aveva combattuto e spento i focolai dell’islamismo radicale. [4] Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell’economia statale. Accetteranno, senza opporre resistenza, di rinunciare a ciò che hanno conquistato? [5] Non tutti coloro che hanno combattuto per lui negli scorsi mesi erano mercenari prezzolati o poveri soldati costretti dai loro ufficiali a morire per il capo. [6] La guerra civile ha creato rancori che potrebbero riemergere nei prossimi mesi e minacciare la stabilità del Paese. Le tribù sono entità complesse e imprevedibili su cui abbiamo informazioni insufficienti. [7] Quanto tempo sarà necessario perché la Libia possa considerarsi interamente pacificata? [8] Dov’è, nelle file dei ribelli, la dirigenza che sarà in grado di assicurare la transizione?
[9] Fra coloro che andranno al potere dopo il crollo del regime, molti chiederanno giustizia. Il Tribunale penale internazionale, in particolare, sarà felice di affermare la propria competenza e sembra pronto a processare sia Gheddafi, se la sua vita non terminerà in un altro modo, sia i figli e gli altri membri del suo clan familiare. [10] Un processo a Gheddafi sarebbe una pietra miliare nella lunga strada verso la giustizia internazionale. [11] Ma qualcuno ricorderà un brillante testo teatrale, pubblicato a Londra durante la seconda guerra mondiale, in cui un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato sotto lo pseudonimo di Cassius, immaginava un processo a Mussolini dopo la fine del conflitto. Nel brillante pamphlet dell’autore la prima mossa dell’imputato era quella di chiamare sul banco dei testimoni tutti gli uomini politici britannici che lo avevano elogiato e adulato. [12] Quanti uomini politici, soprattutto europei, verrebbero convocati all’Aja per rendere conto dei loro rapporti con il leader libico?
[13] La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia. Ma se vogliamo che sia utile al futuro della Libia e più generalmente a quello dei Paesi dell’Africa del Nord, nessuna di queste domande può essere ignorata o sottovalutata. [14] Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia. Occorre aiutare i libici a superare questa fase, a dotarsi di un governo credibile, a impegnarsi il più rapidamente possibile nella ricostruzione politica ed economica del Paese. [15] La Nato ha fatto la guerra e dovrebbe dare un contributo alla pace. Ma dubito che abbia i mezzi e le competenze necessarie per un lavoro estraneo alla sua cultura e alle sue esperienze. [16] Il compito quindi è dell’Europa e in particolare dei Paesi della regione, fra cui, in prima linea, l’Italia e la Francia. [17] Ma saremo tanto più efficaci quanto più eviteremo di perseguire, come in passato, obiettivi e interessi individuali di corto respiro. [18] Dall’unità dell’Europa dipende oggi il futuro della Libia.
[«Corriere della Sera», 24.8.2011]
1.1 Il testo. L’articolo è stato scritto quando le sorti della guerra civile libica erano già segnate: il giorno precedente, il 23 agosto, le forze ribelli avevano espugnato il bunker dove Mu‘ammar Gheddafi si era rifugiato, pur senza trovare traccia né del dittatore né dei suoi figli (Gheddafi sarebbe stato catturato e ucciso il 20 ottobre dello stesso anno). L’autore, Sergio Romano, unisce una grande competenza, frutto di studi storici ma anche della sua esperienza diplomatica (è stato, tra l’altro, ambasciatore d’Italia a Mosca negli anni 1985-1989), a una spiccata sensibilità comunicativa, che nasce da un’assidua attività giornalistica (è giornalista pubblicista dal lontano 1950).
Un editoriale (o articolo di fondo) rappresenta l’articolo di spicco di un quotidiano: scritto dal direttore o da un giornalista o collaboratore particolarmente autorevole, impegna di norma la linea politica del giornale; la sua tipica collocazione nella prima pagina, in posizione di grande evidenza, fa sì che la maggior parte dei lettori lo legga. Il testo è qui scandito in tre capoversi (così definiamo le porzioni di testo comprese tra due accapo) che condensano i punti salienti del discorso. Il primo capoverso [1-8] mette in rilievo i persistenti punti di forza di Gheddafi, o almeno del suo clan, di là dalla sensazione che la guerra sia stata vinta dai ribelli, senza residui; il secondo [9-12] tratteggia un possibile scenario futuro, in relazione all’accertamento internazionale delle responsabilità penali di Gheddafi (e inserisce l’aneddoto fantapolitico su Mussolini [11] per una riflessione sull’attualità); il terzo [13-18] passa in rassegna le prospettive concrete che si aprono per gli Stati europei.
La scansione di un testo in capoversi non segue evidentemente un percorso obbligato, se non in particolari tipologie testuali (istruzioni per l’uso, verbali ecc.). Romano avrebbe potuto andare a capo, per esempio, prima di [11]: si sarebbe sottolineato il passaggio tematico (dalla realtà all’immaginazione, dal presente al passato), ma forse si sarebbe data troppa importanza a quella che non è se non una trovata brillante, attraverso la quale lo scrivente suggerisce paralleli tra situazioni storiche diverse. Oppure prima di [14], per dare risalto alle risposte che intendono soddisfare le «domande» precedentemente poste. L’importante è che il capoverso, in un particolare contesto, contenga almeno un’informazione nuova, e un’informazione di peso, rispetto a quel che precede: o definendo e precisando un concetto appena enunciato; o esemplificando quel che si è appena affermato; o scandendo l’argomentazione in una sequenza di cause-effetti (a questa terza fattispecie appartengono gli esempi del nostro articolo). In ogni caso, quel che è scritto tra due spazi bianchi (il rientrato che, nella tradizione tipografica italiana, delimita tipicamente il capoverso) implica che lo scrivente abbia intenzione di assegnare particolare rilievo a quella porzione di testo.
Qualche notazione linguistica. Nella sintassi, e quindi nella conseguente impalcatura interpuntiva, Romano presenta alcuni tratti di quello che correntemente si chiama “stile giornalistico”: frasi brevi, separate da punti fermi o da punti interrogativi (nell’articolo non figurano né il punto e virgola né i due punti), ridotto uso di connettivi iniziali per richiamare i rapporti logici. L’idea soggiacente è che la forza e il nitore delle argomentazioni siano sufficienti a far sì che la pura enunciazione del concetto permetta di cogliere la concatenazione, senza che sia necessario sottolineare gli snodi del discorso. Per esempio, in [2] il rilievo sui punti di forza della politica di Gheddafi presso la società libica avrebbe potuto, meno efficacemente, essere introdotto anche da una congiunzione esplicativa (Infatti le sortite nazionaliste e anti-occidentali piacevano ecc.). Al connettivo introduttivo prima di una reggente iniziale fa ricorso anche Romano, naturalmente, ma in misura alquanto ridotta: in [11] il Ma svolge la funzione di “congiunzione testuale” (non c’è apparente contrapposizione con quel che precede; ma introduce un altro piano del discorso, facendo emergere le difficoltà politiche di un processo internazionale a Gheddafi, pur auspicabile in punto di diritto); in [16] compare un quindi – insieme a dunque la fondamentale congiunzione conclusiva della lingua italiana – attraverso il quale Romano vuol tirare le fila del suo discorso, spostando l’obiettivo sull’Europa; in [17] un Ma nel suo classico valore avversativo-limitativo. Altri due ma [13] e [15] hanno autonomia solo sul piano paragrafematico (punteggiatura e conseguente uso delle maiuscole): in realtà introducono proposizioni coordinate (La fine del regime di Gheddafi è una buona notizia, ma se vogliamo ecc.) che Romano, modulando l’articolo su una sintassi fortemente scandita, isola e rende autonome.
Sull’unico segno interpuntivo qui usato all’interno di frase, la virgola, c’è poco da dire. Come tutti gli scriventi esperti (e come la massima parte dei collaboratori di un grande quotidiano), Romano è impeccabile. La virgola è usata in tutti i casi in cui la norma tradizionale la raccomanda.
In una fattispecie si tratta di un uso vincolante: la delimitazione di una proposizione incidentale, quando la doppia virgola concorre con la doppia lineetta o con le parentesi tonde, ma è sempre preferibile se l’incidentale è stringata; per esempio: «Accetteranno, senza opporre resistenza, di rinunciare ecc.» [4]. La virgola marca opportunamente anche l’apposizione costituita da un nome proprio, che precisa un’indicazione generica, dunque introdotta da articolo indeterminativo: «un uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato ecc.» [11]. Invece, con l’articolo determinativo, la virgola non sarebbe appropriata perché in questo caso il nome proprio assumerebbe il rango di soggetto e l’apposizione, anteposta, sarebbe costituita dal sostantivo indicante la sua carica: l’uomo politico laburista Michael Foot, mascherato ecc., non *l’uomo politico laburista, Michael Foot, mascherato ecc. Se l’inciso è rappresentato da un sintagma nominale la virgola è facoltativa, anche se consigliabile in una prosa che si proponga il massimo di chiarezza: «Dov’è, nelle file dei ribelli, la dirigenza che ecc.» [8].
In altri casi la virgola è, se non proprio obbligatoria, certo raccomandabile nella prosa di tipo descrittivo-argomentativo. Tipicamente, è quel che avviene con la virgola seriale, che scandisce le parti di un insieme: «Non basta salutare la fine del tiranno, la vittoria del popolo, il trionfo della democrazia» [14] (l’assenza di virgola è caratteristica della prosa letteraria di forte impatto stilistico, come nel seguente esempio di Claudio Magris citato da Bice Mortara Garavelli: «Marisa, sino all’ultimo, non ha lasciato perdere niente, affetti passioni interessi doveri curiosità giochi amicizie piaceri doni di sé agli altri, e ha anche continuato ecc.»). Lo stesso vale quando si tratta di un’aggiunta che precisa e restringe un’affermazione precedente: «la nascita di nuovi ceti sociali, soprattutto negli apparati della pubblica amministrazione e dell’economia statale» [4]; o di un partitivo iniziale, isolato o espanso: «Fra coloro che andranno al potere dopo il crollo del regime, molti chiederanno giustizia» [9]; o di una coordinata avversativa: «Le straordinarie risorse naturali del Paese hanno arricchito il clan familiare del leader e creato una larga cerchia di profittatori, ma hanno anche consentito la nascita di nuovi ceti sociali» [4].
Da notare anche il gioco dei coesivi, gli elementi di cui ci serviamo per richiamare il già detto (oltre che per anticipare ciò che si dirà). Partiamo da Gheddafi, il personaggio centrale del discorso. Il pronome, il coesivo tipico e fondamentale, ricorre in questa funzione solo in regime obliquo («che hanno combattuto per lui» [5]); nella prosa giornalistica è raro, e risulterebbe irrimediabilmente scolastico, che un nome proprio soggetto sia richiamato da un pronome personale (egli, ella; possibili invece, con funzione di messa in evidenza, lui o lei, che qui potrebbero forse apparire non del tutto stilisticamente coerenti con il livello e il tema dell’articolo). Molte volte la soluzione migliore è scrivere proprio Gheddafi, senza preoccuparsi troppo delle ripetizioni, tradizionale bestia nera degli insegnanti di ogni ordine e grado (università compresa, naturalmente): «Gheddafi» [9], «a Gheddafi» [10]. Una prosa accurata e sobriamente tradizionale come quella che stiamo commentando saprà però avvalersi del meccanismo della “riformulazione”, attivando un riferimento presente nell’enciclopedia del lettore o ricavabile senza difficoltà dal contesto. Così, nel primo capoverso: «il Colonnello» [1], il grado che lo stesso Gheddafi si assegnò nel 1969 quando, a capo del Consiglio rivoluzionario, soppresse la monarchia (questo coesivo fa leva su una precisa informazione storico-politica; ma chiunque, anche ignorando questi particolari, sarebb...