Educare alla creatività
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Educare alla creatività

Formazione, innovazione e lavoro

  1. 224 pagine
  2. Italian
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Educare alla creatività

Formazione, innovazione e lavoro

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La creatività non è innata e può essere stimolata e rafforzata attraverso l'educazione. Nel complesso e difficile mondo del lavoro che caratterizza i nostri giorni, è la creatività l'elemento fondamentale per la formazione e la crescita degli individui, nel momento in cui accedono e si fanno spazio nei propri ambiti professionali. Il volume discute il rapporto tra lavoro, formazione e creatività, accreditando questa come principio guida dello sviluppo dell'adulto al lavoro, come fattore strategico dell'innovazione e del successo e come motivo pedagogico grazie al quale realizzare un nuovo umanesimo organizzativo.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858116074

1. Lavoro creativo

Il tempo che viviamo, non meno dei precedenti, reclama una comprensione puntuale e una conseguente definizione di idee capaci di riqualificare la vita umana in tutta l’energia espansiva che può possedere, con la convinzione che quest’epoca di grandi problemi può attendere valide risposte risolutive soltanto da grandi idee direttive, capaci di contribuire alla costruzione di una cultura a misura d’uomo, alla realizzazione di una civiltà umanistica. L’elaborazione di autentici ed efficaci progetti pedagogici non può non discendere da un genuino processo ermeneutico che niente lascia al caso, alla superficialità, alla ideologizzazione, al compromesso.
La genuinità dell’interpretazione è particolarmente richiesta da questo momento storico per la complessità e gravità dei problemi che lo caratterizzano, per il notevole bisogno di futuro autenticamente umano che esprime e per il rilevante vuoto vitale del presente e dell’immediato che denunzia. Termini come giustizia, solidarietà, alienazione, emarginazione, intolleranza, violenza, crediamo riescano a evocare in maniera sufficientemente compendiativa il fitto e intricato tessuto di cui si compone la crisi dell’attualità e siano in grado di lasciar intravedere un futuro possibile cui rapportarsi per costruire una realtà esistenziale umanamente (più) significativa, non ultima quella lavorativa.
Muovendo da questi assunti, riteniamo che l’idea di creatività sia in grado di esprimere un elevato coefficiente di energia ermeneutica, progettuale e decisionale nei confronti delle richieste di sviluppo umano e sociale avanzate da persone e gruppi, nei riguardi cioè della richiesta di autoconoscenza e autocoscienza, mediante cui la libertà sia posta nella condizione di manifestarsi con il massimo di pienezza e di iniziativa reale in ordine alla necessità di produrre soluzioni essenziali alla vita, a cominciare da quella lavorativa.
Sono numerose le sollecitazioni che la creatività è capace di esprimere sia in tema di revisione profonda delle condizioni esistenziali sia in tema di riflessione attenta sulla somma di risorse di cui la persona è singolare portatrice, sino a poter affermare che argomentare sulla creatività equivale ad argomentare sull’intero potenziale formativo che appartiene all’essere umano, che prendere posizione a favore della creatività equivale a produrre un impegno etico orientato al riconoscimento e alla promozione dell’autenticità umana, che educare la creatività equivale a formare la persona nella sua pienezza.
Schierarsi dalla parte della creatività non significa inseguire le mode, con il convincimento che tale «utopia» pedagogica conosce oggi numerose quanto solide legittimazioni scientifiche, a cominciare dall’obbligo che essa esige di interrogazione attenta sulle risorse umane, troppo spesso ignorate o sottodimensionate, logorate e sperperate, e sulla profondità dell’essere persona, e dunque anche dell’essere-persona-al-lavoro. Essa rappresenta la scelta di chi, avvalorando un’idea interpretante fondata, vuole atteggiarsi criticamente nei confronti dei problemi reali al fine di dare a essi una soluzione positiva, di chi crede che la creatività riesca a leggere e comprendere sistematicamente le ansie, le tensioni, le aspettative di questa attualità, di chi ritiene che tale ideale, compendiando numerose promesse, in maniera più valida di altri sia in grado di rispondere al bisogno di affermazione della persona nei luoghi del lavoro e di rinnovamento della cultura organizzativa.

1.1. La biografia lavorativa, scelta e non destino

Chi vive attentamente i problemi di questo tempo può constatare le molteplici situazioni nelle quali la persona, a cominciare dalla sua condizione di soggettività-al-lavoro, è costretta al deterioramento e alla mortificazione, sotto il peso consistente di massificazioni ed emarginazioni, violenze e prevaricazioni, discriminazioni e svantaggi di varia natura. Ingeborg Bachmann lamenta che oggi le persone, anche nel lavoro, non sono più creative, in quanto sono diventate un «mucchietto di qualità e di abitudini» e vivono le loro esperienze secondo uno schematismo ereditato. Così non riescono a vivere di esperienze personali1.
La riflessione sull’attuale momento sociale e culturale consente di registrare pressioni conformizzanti e alienanti, eterodirezioni massificanti, disattenzioni considerevoli verso la singolarità creatrice della persona. Pur nella stagione del postfordismo e della de-materializzazione, non poca esperienza organizzativa è rappresentabile ancora come realtà contrassegnata da tendenze operative caratterizzate da una considerevole predefinizione e proceduralizzazione, da una consistente, potenziale omologazione e semplificazione delle condotte e delle prassi, generatrici di demotivazione e senso di estraneità, conformismo e disimpegno. Larghi strati della popolazione sono indotti alla ripetizione, al conformismo, al comportamento e al consumo standardizzato, al lavoro livellato. Non manca chi avverte che negli ultimi due secoli, nel tempo dell’organizzazione industriale, sono state preferite le capacità e le condotte esecutive, convergenti, ripetitive, eterodirette, piuttosto che quelle inventive, divergenti, innovative, autonome e che questa cultura della serialità e dell’esecutività, della conformità e della prescrittività ha finito per condizionare non poco la vita organizzativa e i processi lavorativi.
Nella stagione postindustriale, al contrario, per la persona si va configurando in maniera sempre più precisa e consistente la consapevolezza di essere titolare della forza di autodirezione esistenziale, di avere non poche possibilità in fatto di attuazione e condizionamento del progresso, di poter fare pratica, nonostante tutto, di un potere di scelta responsabile, grazie al quale contribuire all’avanzamento personale e organizzativo, della volontà progettuale di costruire creativamente il proprio futuro, a cominciare da quello lavorativo, e non tanto di scoprirlo, prendendo così le distanze dalla concezione fatalistica di un futuro predeterminato, pur sapendo che vivere significa anche, per usare un detto inglese, «essere ostaggi del fato».
Sempre più marcate paiono la disposizione e l’intenzione a pensare e a volere il lavoro come proprio, a viverlo come singolare espressione progettuale della soggettiva tipicità creativa, piuttosto che considerarlo e praticarlo come una realtà estranea regolamentata in maniera cogente e conformante. Consistente è l’aspettativa non solo di avere un lavoro ma di poter vivere la condizione lavorativa secondo qualità, con quanto ciò implica di possibilità di essere titolari di un’attività adeguata alle proprie attese professionali e congruente con quello che si è e si fa e di svolgerla in un ambiente relazionale capace di avvalorare la personale dignità e competenza e di alimentare sentimenti di riconoscimento, utilità e rilevanza.
Il futuro, piuttosto e prima ancora che spazio temporale, è costituente antropologico. L’uomo ontologicamente non si rassegna, ma spera, si proietta verso l’inedito e il non-ancora e, nonostante determinismi e ostacoli di differente natura, progetta consegnandosi il compito di prefigurare il futuro anche attraverso la reinterpretazione del passato. Se non può essere negato che il tempo reca con sé involuzioni, decadenze, perdite, occorre riconoscere che esso porta con sé, anche nell’esperienza lavorativa, poter-essere e dover-essere, possibilità e compiti di autoformazione, potenzialità di sviluppo e impegni di crescita, opportunità di ristrutturazione e rinnovamento dell’essere e dell’esistere, sentieri da esplorare, itinerari da percorrere, investimenti da compiere, traguardi da raggiungere, responsabilità da esprimere.
Il futuro, insieme al presente, può essere riguardato come il tempo per continuare a nascere e a crescere ininterrottamente, per oltrepassare la personale incompiutezza, per farsi altro-da-sé, per conferire ulteriore consistenza ai soggettivi poteri, per poter continuare ad alimentare la propria vita di singolarità e autonomia, di rischio e speranza, di iniziativa e scommessa, di aspettative e progetti, per avventurarsi nelle regioni dell’inesplorato e divenire ancora, per inoltrarsi negli spazi dell’inedito e attuare il non-compiuto. Innestato sul presente, il futuro può rappresentare la tensione della costruzione/ricostruzione di sé e la linfa dell’autoformazione, può costituire la condizione temporale di sollecitazione creativa all’ulteriore e all’incontro.
L’esistenza personale è costruita e modificata quotidianamente, mediante esplorazioni e combinazioni, sperimentazioni e adattamenti, orientamenti e mutamenti. In ogni età della vita si fronteggiano equilibri e squilibri, perdite e guadagni, linee rette e linee miste, fratture e riannodamenti. Alla composizione della propria storia lavorativa partecipano dis-ordine e ordine, accidenti e intenzioni, destrutturazioni e strutturazioni, disapprendimenti e apprendimenti, perdite e guadagni. Il progetto professionale conosce cambiamenti in itinere, senza per questo andare necessariamente incontro a pesanti stravolgimenti di senso e alterazioni di significato.
Se non possono essere ignorati il dominio del tempo sulla persona, la sua dipendenza temporale, l’inevitabile conflittualità tra tempo naturale e tempo sociale, tra tempo fisico e tempo interiore, la rilevante asincronia tra esistenza soggettiva e corso temporale del mondo, tra quotidianità e desiderio, non può essere misconosciuto che la persona può governare il tempo disponendosi responsabilmente nei suoi confronti per potersene riappropriare, per custodirlo e viverlo come tempo interiore, organizzarlo creativamente, investirlo e vigilare su di esso onde non sciuparlo, non consumarlo banalmente lasciandosi sedurre dalle suggestioni dell’attimo fuggente, non dissiparlo, rinunciando ad attuarlo come tempo di umanizzazione, non sprecarlo, strumentalizzandolo in vista della soddisfazione del pressante bisogno di autorealizzazione, non dilapidarlo, trascorrendolo sotto la pressione continua dell’urgenza e della produttività con il risultato di ignorare ciò che è importante.
La quotidianità, a cominciare da quella lavorativa, pur con le sue costrizioni e invasioni temporali, pur con la sua temporalità pervadente e colonizzante, può essere vissuta non come adattamento al presente o appiattimento sul presente, bensì come tempo significativo, vivendo il quale impegnarsi ad attuare per sé e per gli altri un domani umanamente superiore. E il futuro, compito e scelta piuttosto che dato, può essere recuperato non come un accadimento impersonale, bensì come un’opzione deliberata.
La persona che è presente a se stessa come persona ed è consapevole del suo potere di ulteriorizzazione, dirigendosi verso un «di più» umanamente significativo, si oltrepassa e si costruisce, emerge dai condizionamenti e dai determinismi e si fa soggettività condizionante e determinante. Se non può essere negato che la persona è «data», non può venir ignorato, al livello teleologico e deontologico, che essa, realtà caratterizzata da permanente incompiutezza, ha la possibilità/compito di farsi, di andare oltre il presente e di aprirsi al futuro, di definire le traiettorie della propria esistenza e, così facendo, di creare al tempo stesso se stessa, come un artista produce un’opera d’arte. Esistere, in fin dei conti, è trascendersi e trascendere. Tale obbligazione non può che essere cosciente e responsabile. Il futuro si costruisce attraverso l’esercizio di una quotidianità responsabile, il perseguimento di microutopie, la testimonianza dei valori umani più significativi nei diversi luoghi di vita, non ultimo quello lavorativo.
Se per più di un motivo l’identità è una realtà data, la persona non può non schierarsi dalla parte di una identità creativa, anche professionale, con ciò opponendosi a una identità necessitata. Rendendosi autrice della costruzione di un’identità creativa, essa esprime la libertà e la volontà di oltrepassarsi e di crescere continuamente, si impegna a rifiutare la duplicazione e a reinventarsi originalmente, sceglie di ridurre personali fragilità e inconsistenze, decide di realizzarsi personalità singolare, senza per questo perdersi, rifiutarsi, destrutturarsi. In questo senso, la vita non può che essere un’opera d’arte e la persona non può che essere un «artista» della vita, un progettista e un gestore «artistico» della propria esistenza, delle cui scelte e delle cui decisioni, dei cui meriti e dei cui limiti si assume la piena responsabilità.
Se è vero che ogni autocostruzione è irripetibile, è altrettanto vero che irreduplicabilità non equivale a irreversibilità, così come immoltiplicabilità non significa immodificabilità. Anche all’interno del luogo di lavoro, la persona è in grado di contrastare quelle condizioni soggettive ed extrapersonali che esercitano su di essa un’influenza negativa e sono di impedimento ai fini di una crescita alimentata da un’etica della differenza e pertanto ai fini di un’esistenza vissuta secondo significato, dignità, autenticità. Quest’ultimo concetto richiama il potere squisitamente umano di conferire un senso e una direzione alla propria vita nell’esercizio continuo della scelta e della decisione, in virtù delle quali è concesso di oltrepassarsi e di trascendere la situazione in cui si vive.
All’essere umano è fatto obbligo formativo di esprimere insistentemente la volontà di essere persona, di essere persona singolare, dinamicamente orientata a scoprire e sviluppare la propria unicità identitaria, anche nei contesti del lavoro, nella consapevolezza che tale rilevante sforzo autoeducativo chiede anche la pratica del non volere, ossia del dovere di resistere alla seduzione del non-valore, dell’inautentico, dello pseudocreativo. Scegliersi secondo autenticità esige l’impegno permanente del comporre liberamente e autonomamente la propria identità, del costruirsi non confondendosi con gli altri, senza che ciò voglia dire disporsi contro gli altri o farne a meno, dal momento che la persona da sola non è in grado di autenticarsi fino in fondo e che non è autentica quella persona che non aiuta l’altra ad autenticarsi o che dell’altra ignora o calpesta il diritto all’autenticità. Ma significa anche che la differenza alimenti le molteplici esperienze interpersonali, affinché siano distrutte, o comunque ridotte, la conformazione, la convergenza, la ripetizione. Se Jerome Bruner osserva che la costruzione del Sé «è probabilmente la più notevole opera d’arte che noi mai produciamo, sicuramente la più complessa»2, Erik Erikson sottolinea che «avere il coraggio della propria diversità è segno di integrità»3.
In questa direzione esprime una consistente influenza la soggettiva idea del significato del lavoro e del tempo lavorativo. Questo può venir fatalisticamente pensato, e quindi concepito come un insieme di periodi ed eventi ingestibili, o umanisticamente considerato, e dunque accreditato come esperienza di autorigenerazione e autoincremento, occasione di ri-costruzione e rinnovamento, possibilità di mutamento e ri-significazione, opportunità di accoglienza del nuovo e dell’imprevisto, della loro individuazione e creazione, evento grazie al quale tradurre le proprie attitudini e capacità in una passione professionale.
Il lavoro – sostiene Viktor Frankl – è un’attività particolarmente adatta a manifestare e dimostrare la singolarità della persona. Il lavoro di per se stesso non riveste alcuna importanza in fatto di appagamento di chi lo esercita, bensì è di grande rilevanza il modo con cui lo si esercita. L’essere soddisfatti del proprio lavoro dipende dal lavoratore e non dal tipo di lavoro, dal suo essere o non essere capace di far risaltare nelle sue opere ciò che in lui è di umanamente singolare. Il lavoro offre a chi lo esercita occasioni continue tramite le quali realizzare la soggettiva originalità. L’importante è che esso si muova nella sfera che va oltre quella delle «regole» professionali e sia al di sopra di tutto ciò che è sancito dai canoni strettamente scientifici. È la personalizzazione del lavoro che offre la possibilità di dare un significato alla propria vita. L’indispensabilità, l’insostituibilità, in breve l’unicità è nelle possibilità di qualsiasi lavoro4.
La meta dell’autenticità non è conquistata quando l’esistenza è subita, quando il soggettivo itinerario esistenziale è voluto e tracciato dagli altri, quando la quotidianità è vissuta in maniera impersonale e desemantizzata. Ciò abbisogna di essere avvertito, non potendo fare a meno di osservare che negli ambienti lavorativi presidiati dalla logica mercantilistica è reale il rischio di vivere una quotidianità scandita dal banale, dal ripetitivo, dall’insignificante, governata da informazioni ed esperienze imprigionate in vecchie strutture e vecchi modelli, in tradizionali teorie e percezioni, senza pertanto che l’esistenza professionale sia utopicamente alimentata e sostenuta, senza che la vita lavorativa conosca la libera speculazione intellettuale e la pratica continuata della formulazione di ipotesi alternative e della costruzione di conoscenza creativa utile, senza che l’agire sia sorretto dal coraggio e dalla speranza di riuscita anche in quelle situazioni problematiche e meno confortanti la cui soluzione è considerata dagli altri impossibile o improbabile.
Se non può essere misconosciuta l’incombenza del tempo sulla persona, è innegabile che grazie ai suoi intrinseci poteri essa può abitare creativamente il tempo lavorativo. In gioco sono la volontà e la capacità di decidere per un tempo progettato in virtù di un solido impegno etico e l’assunzione della responsabilità quale principio orientativo di un agire personale, all’interno di una temporalità irreduplicabile, con quello che la responsabilità implica di intenzionalità, iniziativa, apertura al possibile, cambiamento qualitativo. La crescita della persona dipende non poco dalla fiducia di poter essere quello che desidera e dall’agire per diventare quello che al livello più alto può essere. La consapevolezza dell’irreversibilità del tempo, mentre sospinge a valorizzare ogni istante, desta e tiene attive inquietudini e progettualità, insoddisfazioni e spinte all’autosuperamento, anima libertà inedite e apre spazi inesplorati, sollecita a impegnarsi per conferire densità valoriale e autenticità all’esistenza, liberandola dalle istanze dell’utilità e della necessità.
Dare qualità al tempo lavorativo chiede alla persona, oltre che fedeltà alla soggettiva realtà ontologica, pratica costante di intenzionalità e scelta, impegno a decolonizzare l’agire dalle istanze (iper)produttivistiche richieste da una ragione strumentale che vede nel tempo un costo piuttosto che una ricchezza, capacità di non lasciarsi sopraffare dai cambiamenti, mantenendo vigile l’interrogazione su quello che succede e sul perché succede e nello stesso tempo capacità di non rinunciare a cambiare, lotta continuata ai conformismi e agli abitudinarismi, volontà di produrre il nuovo e appropriato, impegno a costruirsi e a costruire un diverso modo di pensare, al fine di dare un’adeguata soluzione ai problemi generati dai vecchi modi di pensare....

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Lavoro creativo
  3. 2. Creatività e sviluppo organizzativo
  4. 3. Formazione continua e innovazione
  5. 4. Professionalità creativa per l’economia della conoscenza
  6. Note
  7. Bibliografia