Dobbiamo restituire fiducia ai mercati Falso!
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Dobbiamo restituire fiducia ai mercati Falso!

  1. 160 pagine
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Dobbiamo restituire fiducia ai mercati Falso!

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Oggi la speculazione domina la finanza. La finanza controlla l'economia. L'economia determina le scelte politiche. La politica impatta sulla vita delle persone. Quello che dobbiamo fare è semplicemente ribaltare l'attuale scala di valori e leggere al contrario le frasi precedenti.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858112007
Argomento
Economia

1. Cosa sta succedendo?

1. Le due Europe

A fine 2013 la disoccupazione in Italia ha superato il 12%, quella giovanile supera il 40%. L’Italia si trova nel suo terzo anno di recessione, ovvero di calo del Pil: stiamo progressivamente diventando più poveri1.
Non siamo un caso isolato. Sono diverse le nazioni nella «ricca» Europa in grandissima difficoltà. Le istituzioni – e in particolare la cosiddetta Troika, composta da Fondo monetario internazionale (Fmi), Commissione europea e Banca centrale europea (Bce) – hanno proposto diverse misure per superare l’attuale crisi. Per capire la natura delle soluzioni proposte occorre prima di tutto risalire alle cause. Il problema di fondo sono i conti degli Stati, e in particolare quelli di alcune nazioni: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna su tutti. Paesi rinominati Piigs dalle loro iniziali, a ricordare la parola inglese «maiali». Se la gran parte dei governi dell’Ue deve impegnarsi a rimettere a posto i conti pubblici, sono in primo luogo i «maiali» a causare problemi. Paesi che hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità, con troppo Stato sociale. Non solo l’eccesso di welfare porta a un aumento del debito, ma si incentiva la pigrizia e si frena l’iniziativa privata, nella certezza che lo Stato mammone penserà a tutto. Il settore pubblico non è soltanto troppo grande e invadente, è anche inefficiente e corrotto.
Esistono quindi due Europe. Da un lato i paesi del Sud. Le cicale. Fannulloni e pigri, non lavorano e hanno una bassa produttività, spendono troppo in welfare. Sono loro i responsabili della crisi. Dall’altro lato l’Europa del Nord, riunita attorno alla Germania. Le formiche. Seri, lavoratori, rispettano i parametri europei e sono un esempio di virtù. Una conferma arriva a marzo 2013, quando il presidente della Bce Mario Draghi ricorda ai capi di Stato e di governo della zona euro che, tra il 2000 e il 2012, nei paesi dell’Europa del Nord produttività e salari crescono grosso modo di pari passo. Uno sviluppo armonioso dell’insieme della società. Ben diversa è la situazione dell’Europa del Sud: i salari crescono molto più rapidamente della produttività, frenando la crescita e mettendo in crisi le nazioni periferiche e l’intera Europa2.

2. Un eccesso di debito pubblico

L’eccesso di debito pubblico è particolarmente evidente in Italia, dove ha superato nel 2013 il 130% del Pil. Il nostro paese si è dovuto impegnare formalmente a tagli e sacrifici per riportare il rapporto al 60%. L’Unione Europea si è assegnata alcuni obiettivi macroeconomici, noti come «parametri di Maastricht»: i paesi membri devono contenere il proprio rapporto debito/Pil entro il 60% e il deficit entro il 3%.
Il problema non riguarda solo l’Italia. I debiti pubblici degli Stati europei hanno raggiunto in media, a fine 2012, l’86% del Pil, ben oltre il limite fissato. Non ci sono alternative allo stringere la cinghia e rientrare a tappe forzate da questo eccesso di debito. Se i governi, per motivi elettorali se non clientelari, non si impegnano a tagliare le spese inutili, deve intervenire qualcuno dall’esterno per costringerli a farlo. Ecco quindi il ruolo assegnato alla Troika. Diversi paesi, i «maiali» in primo luogo, devono cedere una parte della propria sovranità in favore di un controllo – se non di una vera e propria ingerenza – della Commissione europea e delle istituzioni internazionali sui bilanci e sulle decisioni di politica economica.

3. L’inefficienza degli Stati

Secondo la teoria neoliberista affermatasi negli ultimi trent’anni, i mercati, se lasciati liberi di agire, sono per natura efficienti. Una teoria che si basa sulla legge della domanda e dell’offerta: se un dato prodotto o servizio è molto richiesto, ovvero c’è una forte domanda, il suo prezzo tenderà a salire. L’aumento di prezzo porterà però alcune persone a non comprarlo più, vale a dire a una diminuzione della domanda, riportando il prezzo all’equilibrio. In maniera speculare, un aumento dell’offerta di un dato prodotto o servizio si traduce in più concorrenza e quindi in una diminuzione dei prezzi. Il calo rende meno conveniente continuare ad aumentare l’offerta, e il prezzo torna all’equilibrio.
I liberi mercati sono quindi caratterizzati da meccanismi di autoregolazione estremamente efficienti. Il prezzo rappresenta il punto di incontro tra domanda e offerta e racchiude tutte le informazioni riguardanti un dato prodotto o servizio. Nel gergo economico, il libero mercato assicura l’allocazione ottimale delle risorse: capitale, lavoro, materie prime. Qualsiasi intervento pubblico di sostegno alla domanda o alla produzione falsa tali meccanismi e genera inefficienze.
Da un lato, eccesso di welfare e inefficienza del settore pubblico. Dall’altro, efficienza dei mercati. Il bilancio è scontato: la crisi è colpa di un apparato statale vetusto quanto sovradimensionato, di contratti di lavoro legati a un’epoca ormai tramontata. Se vogliamo uscire da questa crisi, dobbiamo tagliare la spesa pubblica e rendere il lavoro più flessibile per aumentare la produttività. I cittadini devono scordarsi il tempo delle vacche grasse. La strada maestra sono i piani di austerità.

4. Il giudizio dei mercati

I mercati, per definizione efficienti e obiettivi, sono i migliori giudici per confermare la teoria sopra esposta e per valutare il comportamento degli Stati. Negli ultimi anni le nazioni del Sud Europa hanno visto lo spread salire alle stelle. Lo spread indica un differenziale, in particolare fra il tasso di interesse dei titoli di debito pubblici di due paesi. In Italia misura la differenza di rendimento tra i Btp a dieci anni e i Bund tedeschi di stessa durata, presi a riferimento per la propria affidabilità.
Ogni Stato per finanziarsi può emettere dei titoli – per l’Italia Bot, Btp o Cct. Più un paese è giudicato affidabile, più bassi saranno i tassi di interesse che dovrà offrire. Al contrario, un paese che potrebbe non restituire i prestiti e fare default sul proprio debito pubblico dovrà offrire un tasso di interesse più alto per compensare il maggiore rischio e attrarre investitori. Questa è una regola generale dei mercati finanziari: rischio e rendimento sono due facce della stessa medaglia. Così, se la Germania emette i suoi Bund al 2% e l’Italia deve offrire sui suoi Btp il 5%, si dirà che lo spread è del 3%, o di 300 punti base. Se dopo un mese la situazione in Italia peggiora mentre in Germania rimane la stessa, l’Italia dovrà offrire il 5,5% per convincere gli investitori. Lo spread è salito a 350.
È questo il motivo per cui lo spread ha assunto tanta importanza. È un indice non solo della rischiosità degli Stati, ma più in generale della condizione dei conti pubblici. Il prezzo, ovvero il tasso di interesse e quindi lo spread, è frutto dell’incontro tra domanda e offerta di titoli di Stato e racchiude tutte le informazioni su quanto un paese è in salute o, al contrario, è da inserire nell’elenco dei «maiali».

5. Restituire fiducia

Ecco un ulteriore motivo per cui dobbiamo accettare i piani di austerità. Se sale il rendimento dei titoli di Stato peggiorano i conti pubblici, perché una fetta sempre maggiore della ricchezza nazionale deve essere utilizzata per il pagamento del debito e dei suoi interessi. Se peggiorano i conti pubblici le agenzie di rating – gli enti che danno un «voto» a ogni emissione o emittente sui mercati finanziari – ci tagliano questo voto: da una tripla A fino a una B o peggio. Se il voto peggiora gli investitori non si fideranno più di noi, il che obbligherà l’Italia ad aumentare i tassi di interesse e quindi lo spread. L’aumento dell’interesse comporta un peggioramento dei conti pubblici e via di seguito, in una spirale di spread e sfiducia.
Per spezzare questa spirale dobbiamo diminuire il debito per pagare meno interessi e rimettere a posto le finanze statali. Più che il debito pubblico in sé, il parametro da prendere in considerazione è la capacità di restituirlo, che dipende dalla ricchezza che il sistema paese è in grado di produrre, ovvero dal Pil. Per questo analisti e politici guardano al rapporto tra debito e Pil. Per riportare il rapporto a valori meno preoccupanti, i meccanismi sono due: tagliare le spese o aumentare le entrate. Ciò spiega i tagli al welfare e allo Stato sociale, da un lato, e dall’altro l’aumento della pressione fiscale dall’Iva in poi e le proposte di privatizzazioni per fare cassa, vendendo partecipazioni pubbliche e parti del demanio.
L’Unione Europea può venirci incontro. Dopo diversi tentennamenti la Bce decide di aiutare i paesi in difficoltà, mettendo in campo diverse misure per contrastare lo spread e dichiarandosi pronta, nel luglio del 2012, a «fare tutto il necessario» per salvare l’euro. Con operazioni denominate Outright Monetary Transactions (Omt) la Banca centrale europea acquista, sotto opportuni limiti e condizioni, titoli di Stato dei paesi europei. Misure che la stampa non esita a definire un «bazooka» contro lo spread. La situazione per molti paesi effettivamente migliora. Ma questo aiuto ha un prezzo. Le formiche non vogliono e non possono pagare per le cicale. Dobbiamo fare i compiti e rimettere a posto i conti pubblici. Non ci sono alternative ai piani di austerità, «è l’Europa che ce lo chiede». È l’unico modo per rilanciare la crescita e l’economia e diminuire lo spread. Dobbiamo farlo perché dobbiamo restituire fiducia ai mercati.
1 Mario Pianta, Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di 10 anni fa, Laterza, Roma-Bari 2012.
2 Mario Draghi, Euro Area Economic Situation and the Foundation For Growth, studio presentato all’Euro Summit del 14 marzo 2013.

2. Alcune piccole sviste

1. Gli Stati spendaccioni

La validità e i fondamenti dei parametri di ­Maastricht sono stati duramente criticati. Fatto sta che come europei ci siamo dati alcuni vincoli macroeconomici. Dal 2000 al 2008, l’Europa a 27 Stati ha avuto un rapporto tra debito e Pil quasi costante, con oscillazioni tra il 59 e il 62%. Il deficit nello stesso periodo è compreso tra –0,9 e –3,2%. Dati perfettamente in linea con gli impegni presi. Fino al 2008 non c’è, nel complesso, nessun problema di eccesso di spesa pubblica e di welfare. In media, si dirà. La situazione per i «maiali» sarà ben diversa. Vediamola brevemente.
In Portogallo il rapporto debito/Pil passa dal 48% del 2000 al 70% del 2008. In salita, ma non lontano dagli obiettivi di Maastricht. Ancora meglio la Spagna: dal 60% del 2000 si scende fino al 40% nel 2008. In Irlanda si passa dal 37,5 del 2000 al 44,2% del 2008, perfettamente sotto controllo. Grecia e Italia hanno rapporti più alti – poco oltre il 100% – ma stabili. Sempre tra il 2000 e il 2008, in Grecia il rapporto oscilla tra il 103 e il 110%, in Italia dal 108 al 105%. In altre parole, fino al 2008 non sembra esserci nessun debito insostenibile, nessun «eccesso di welfare» né a livello europeo né tra i famigerati Piigs.
Di colpo, però, nel 2009 la situazione precipita. Il deficit europeo schizza a –6,9%, il rapporto debito/Pil al 74,8%, per superare l’anno successivo l’80%. L’andamento è lo stesso per i Piigs. Tra il 2008 e il 2011 il Portogallo passa dal 70 al 108%, la virtuosa Spagna dal 40 al 70%, l’Irlanda addirittura dal 44 al 108%. In Italia, dopo un decennio sotto controllo, il rapporto sfonda nel 2011 il tetto del 120%, e due anni dopo il 130%. La Grecia passa dal 110 al 165% nello stesso periodo. Un andamento simile interessa anche gli Usa, con un rapporto debito/Pil pressoché costante tra il 2004 e il 2008 (dal 61,3 al 64,8%) che poi esplode: 76% nel 2009, 87% nel 2010 e oltre il 100% nel 2012.
Cos’è successo? Riprendendo la visione della crisi fornita dalla Troika, la spiegazione può essere una sola. Per i primi sette-otto anni del nuovo millennio tutti i paesi europei, Piigs inclusi, si comportano bene, poi di colpo, a cavallo tra il 2008 e il 2009, ecco che i governi dell’Ue iniziano a spendere come matti per lo Stato sociale. Milioni di asili nido, ospedali come se piovessero, pensioni d’oro per tutti. Una spiegazione che suonerebbe come una farsa, se non fosse una tragedia per chi non solo paga il prezzo della crisi, ma negli ultimi anni si è visto tagliare persino i servizi essenziali.

2. Le cicale e le formiche

Secondo argomento: nei virtuosi paesi del Nord la produttività cresce di pari passo con il costo del lavoro. Nel Sud è tutto diverso: troppi vetusti diritti per lavoratrici e lavoratori, il costo del lavoro cresce più rapidamente della produttività, i paesi perdono competitività e trascinano l’Europa nella recessione.
Il problema, in questo ragionamento, è in una piccolissima «svista»3. Nel primo capitolo sono stati citati i dati presentati dalla Bce a marzo 2013 per confermare la necessità di una moderazione salariale e di una maggiore flessibilità nei paesi del Sud Europa. In quei dati la produttività viene però espressa in termini reali, mentre i salari sono riportati in termini nominali. In altre parole, la prima serie di dati tiene conto dell’inflazione, la seconda no. Come dire che cinquant’anni fa il pane costava una lira al chilogrammo e gli stipendi erano di 500 lire. Oggi gli stipendi sono di 1.000 euro, quindi si può comprare molto più pane. «Dimenticandosi» di segnalare che il pane nel 2013 non costa una lira al chilo.
Se si prendono dati omogenei, le cose cambiano. Parecchio. Considerando l’inflazione sia per la produttività sia per i salari, scopriamo che in molti paesi del Sud essi vanno di pari passo, mentre è in quelli del Nord – Germania in testa – che la forbice si allarga sempre di più, ma a discapito delle retribuzioni dei lavoratori. In termini reali, il costo del lavoro in Germania è sceso del 10% tra il 2004 e il 20084. In al...

Indice dei contenuti

  1. Andiamo al mercato
  2. 1. Cosa sta succedendo?
  3. 2. Alcune piccole sviste
  4. 3. Una diversa spiegazione
  5. 4. L’espansione della finanza
  6. 5. Crisi? Quale crisi?
  7. 6. Verso la prossima crisi?
  8. 7. Chiudere il casinò finanziario
  9. 8. Politiche pubbliche
  10. Conclusioni