Passaggi segreti
eBook - ePub

Passaggi segreti

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Passaggi segreti

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

«Un pomeriggio d'inverno sono partito per un viaggio così breve che non pensavo potesse condurmi così lontano.»

Tra le valli e i monti, lungo i fiumi e tra gli alberi. A pochi passi dalle città e lontanissimo dalle autostrade. Là dove il rumore delle metropoli retrocede, ci sono vie poco battute, percorsi ferroviari nascosti, passaggi fluviali e varchi che aprono la strada verso un'Italia preziosa e profonda. Dalle enigmatiche vie cave di Pitigliano scavate nel tufo al rocambolesco fascino della statale 92 che attraversa la dorsale della Basilicata. Dal sentiero di punta Manara che conduce lì dove, al confine con il mare, una torretta ancora sembra attendere l'attacco dei Saraceni, fino ai meandri misteriosi delle barene tra le isole abbandonate della laguna della Venezia Nativa. Dai gradoni luminosissimi e irreali della Salita dei Turchi fino al viaggio in traghetto, sulle acque rapide del Lago Maggiore, che conduce all'eremo di Santa Caterina del Sasso. Federico Pace ci accompagna in un suggestivo viaggio tra luoghi che diventano occasione di piccole epifanie, in cui si svela qualcosa di inatteso, un meravigliato contatto che, senza una partenza, non sarebbe stato possibile. Il paesaggio, il movimento, le storie delle persone e i loro legami offrono l'opportunità di uno sguardo diverso e nuovo su noi stessi, sugli altri e su quel che ci accade intorno.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Passaggi segreti di Federico Pace in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Scienze sociali e Cultura popolare. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2022
ISBN
9788858148075

Luglio

Nel fitto del bosco
tra San Martino di Castrozza e Predazzo

Fu un invito a cena, un gesto di cortesia e familiarità, a mettere in moto un viaggio tra i boschi e i monti. Partii da San Martino di Castrozza, nella Valle di Primiero, dove ero arrivato da pochi giorni. Per giungere a Predazzo, lì dove ero stato invitato, avrei dovuto prendere la provinciale 50 attraverso le abetaie e seguendo infiniti sali e scendi. Mi mossi con un po’ di ritardo, con apprensione, come quasi sempre mi accade, per colpa del tempo che compie passi così più rapidi dei miei. Non avevo mai percorso la provinciale in quel tratto e con l’auto mi inoltrai, ignaro di quel che mi attendeva, come non possiamo che essere in ogni istante della nostra esistenza, lungo le curve, le salite e attraverso l’aria leggera che, con il finestrino tirato giù, respiravo come si fa con una prelibatezza che per lungo tempo ci è stata proibita. Era tutto il giorno che osservavo il Cimon della Pala. Prima che il sole gli sorgesse alle spalle, l’avevo veduto cupo, annerito, pietroso e pesante, con il piccolo grumo di luci gialle delle case che gli stava accovacciato ai piedi. E poi, proprio poco prima di partire, l’avevo visto quasi addolcirsi e divenire rosato. Quasi effimero, leggero, apparentemente composto di quel di cui sono composte le nubi. Impalpabile e seducente. Senza neppure sapere ancora delle arenarie di colore rosso, dei calcari grigi che, depositandosi silenziosamente centinaia di milioni di anni prima, avevano dato vita a quelle forme. Nulla sembrava altrettanto mutevole e vivo.
Dal basso immaginavo il vento che stava scuotendo l’altopiano delle Pale, il battito dell’aria sul tavolato enorme che si distendeva misteriosamente proprio lassù, oltre i duemila e cinquecento metri. I luoghi e quel che significano per noi. Gli spazi che abitiamo, che visitiamo e i modi con cui alimentano, misteriosamente, la nostra immaginazione. Sempre ci perdiamo fortunatamente dietro qualcosa, un pensiero, un’evocazione. Nell’uscire da San Martino, la provinciale mi concedeva ancora di rivolgere lo sguardo a quella catena montuosa. Ipnotica. Incantatoria. Sublime e terribile. Cimon della Pala, Dente del Cimone, Rosetta, Pala di San Martino. Ripetevo, quasi come una cantilena, i nomi di quelle dentature montuose che circondavano le case, silenziose e accovacciate. E poi Vezzana e Bureloni. Le ripetevo come un insegnante giovanissimo, appena giunto in una classe, cerca di rimandare a memoria i nomi di quei volti dei ragazzi che ha appena incontrato e cerca di capire il prima possibile la loro intima natura. Per non fare errori. Per non sbagliare anche questa volta. E, come un giovane docente, ero caduto anche io già in una specie di simpatia a prima vista per qualcuno di loro, per il Cimon della Pala, prima ancora di conoscerne la storia. Prima ancora di saper nulla di quel che aveva dovuto passare.
Ogni volta che lo volgevo verso l’alto, verso la distesa di quella catena montuosa, lo sguardo finiva quasi sempre per andare a cercare le linee del Cimon. Mi rammentavo di un’amica che quelle cime le fotografava dalla pianura, che cercava di continuare a vederle anche quando era dovuta tornare a Venezia. È più facile cadere nella malia dell’incanto, pensavo, che liberarsene. Mentre seguivo le linee che s’aprivano nella strada, come crepe, come fenditure, forse per il freddo dell’inverno, per l’incuria, superai le ultime abitazioni del paese. Il legno, il bianco, i tetti acuminati. I tappeti stesi sulle ringhiere dei balconi. Uno, due, tre ciclisti, che ostinati nelle loro curve schiene spingevano sui pedali. Risalire la vetta. Andare più in alto. La foga, il desiderio. Poi svoltai seguendo la freccia che indicava Passo Rolle. Fu così rapido il piegarsi della strada, il girare su se stessa, l’inerpicarsi, che quasi mi sorprese poi l’inoltrarmi già nei boschi. Attraverso il cruscotto, mi venivano incontro gli abeti, rapidi, pensosi e frementi, per mostrarmi le loro punte aguzze mentre venivano lambite dalla luce del sole radente e le radici se ne stavano nel fondo precipitoso, cupo, umido e scosceso della montagna.
A invitarmi a cena era stata una coppia di amici, Giovanni e Luisa, che proprio in quei giorni erano stati attirati fino a Predazzo, fino a quel cumulo di case che stava dall’altra parte della valle proprio nel cuore della Val di Fiemme, da un’improvvisa relazione d’amore che era nata tra il proprio figlio, poco più che diciottenne, e una ragazza del luogo. Lui altissimo, ciondolante, interrogativo. Lei piccolina, esile e gentilissima. I primi incontri. Gli inganni e gli incanti. L’attrazione, l’incomprensione e la seduzione. I due giovani si erano appena veduti qualche volta e ciascuno sembrava contenere dentro di sé proprio quello che desiderava ci fosse dentro l’altra. Era l’anelito che prima o poi scuote ciascuno di noi, era il desiderio di quel che non riusciamo a raggiungere, quel che di prezioso sembra in serbo per noi ma sta nascosto nel corpo e nella mente di un’altra persona che ancora non conosciamo e non sappiamo se, nel breve arco della vita, riusciremo a trovare. Non sappiamo ancora, o forse non sapremo mai, se dovremo, invece, accontentarci, inconsapevolmente, della illusione di averla trovata.
Senza certezze, senza convinzioni, forse meravigliati da quella stessa meraviglia, forse abbacinati dallo splendore dei luoghi, dal mistero dei boschi, dalla vasta profondità del cielo, dall’odore del legno, dalla freschezza delle lenzuola delle stanze degli alberghi accovacciati ai piedi delle Dolomiti, o forse preoccupati da quell’anelito che ci spinge a cercare qualcosa nell’altra, i genitori avevano seguito il loro altissimo e ciondolante figliolo fino a Predazzo. Sempre i genitori finiscono per seguire i propri figli. Sempre cercano di anticipare i passi che compiranno le proprie creature. Fino a che possono. Fino a che, a loro volta, i passi dei loro figli diventeranno così ampi che i genitori, anche loro creature di altri genitori, non potranno fare altro che lasciarli andare.
Avevo ancora, negli occhi della mente, l’eco dello splendore rosato, incantevole, ipnotico del Cimon della Pala, mentre salivo, curva dopo curva, tra l’odore verde dei prati, l’umido del bosco e la tentazione che esercitavano le fughe delle stradine in terra battuta che quasi a ogni curva, che si piegava a gomito, dipartivano per inoltrarsi nel denso del bosco. Lo strano mistero della luce che filtrava tra le ramificazioni. Il bosco è uno spazio che meraviglia per ciò che è, ma anche per quel qualcos’altro a cui allude e rimanda, per ciò che intende sempre celare. A ogni passo si ha la percezione di arrivare più vicino, di stare per intravedere quel che viene tenuto nascosto. Si intuisce la possibilità di raggiungere il luogo da cui arriva la luce. O il nucleo stesso del bosco, lo spazio segreto, il centro più profondo. Quel che l’altro sembra contenere dentro di sé. Ma più si avanza e più il bosco ricrea se stesso, si perde, si dirada, si infittisce e si ostina ad allontanare i confini del proprio limitare. Quanto più lo inseguiamo, quel confine, e tanto più il bosco relega quel che c’è al di là, ancora più in là. Infine scompare, quasi spaventato. Infine s’arresta, d’improvviso, davanti alle case, alle strade, alle prime voci degli uomini, al voltare di una curva.
Giravo e rigiravo. E la strada era una lingua che serpeggiava tra l’inclinarsi delle vette. Saliva. E gli abeti, da una parte e dall’altra, stavano con le radici aggrappati alla terra per non scivolare via. Ogni tanto anche la strada pareva prendere un po’ di respiro e si lasciava andare quasi pianeggiando, come se volesse lasciar guardare chi guidava, con maggiore attenzione, gli abeti nella loro altezza mentre svettavano precipitosamente verso l’alto. Passai sul rio Marmor. Un secco greto fatto di pietre. Più andavo e più gli abeti sembravano avvicinarsi al ciglio della strada, quasi a voler ricreare la fitta trama del bosco, nonostante l’auto, nonostante la velocità. Lo stormo delle punte aguzze degli abeti che si sospingevano tutte insieme verso l’alto davano l’illusione che il nutrimento, che dava loro modo di crescere, non arrivasse dal profondo, dalla umidità sotterranea delle proprie radici, quanto piuttosto dal cielo, da quel che li attirava verso l’alto.
M’era tornato in mente così, a cospetto di quegli abeti, di quando, da piccolo, molto più piccolo del figlio altissimo e interrogativo di Giovanni, mi arrampicavo sugli alberi. Un ricordo che avevo rimosso del tutto dalla memoria. Accade così. Gran parte di quel che abbiamo vissuto non rammentiamo neppure di averlo vissuto. E per lo più ci sembra naturale che quel fiume di giorni, una volta attraversato, fluisca nel mare della dimenticanza. Solo a tratti ci viene concesso di riavvicinarci a quel che più di ogni altra cosa ci è appartenuto. Ero così piccolo che forse neppure arrivavo al ripiano del tavolo. Guidavo e risentivo sulla pelle, per la prima volta, l’eccitazione e l’ebbrezza di quelle imprese solitarie e inebrianti. L’arrampicata come una questione che aveva a che fare soprattutto con il corpo. Arrampicarsi era una gioia, uno sfogo. Una rabbia. Un anelito animalesco, antichissimo e primordiale, di cui nessuno era partecipe. L’impresa a cui mi accingevo lontano da tutti. Dapprima con le mani cercavo il ramo più vicino, quello a cui arrivavo appena e che mi permetteva di staccarmi da terra. Già dopo quel primo passo, dopo aver afferrato un braccio vegetale, ero in una dimensione diversa. E allora salivo di ramo in ramo. Con una perizia sconosciuta, con una lentezza che si alternava a gesti rapidissimi. Il timore di cadere, il fitto e articolato mondo che dipartiva dal tronco e si sospingeva orizzontalmente verso l’esterno in ricami e giravolte.
Più salivo e più diveniva complesso, e più sentivo crescere una sorta di eccitazione. Con la mano cercavo il ramo più in alto ancora a cui affidarmi, il supporto a cui consegnare il mio corpo, a cui dare in custodia le strane sensazioni che provavo. E salivo. Non sapevo neppure che, in quel salire di ramo in ramo, in quel consegnare il mio corpo alla flessibile e incerta saldezza di un ramo, cercavo di apprendere quella sorta di segreta arte, che mai si apprende per intero e per sempre, di lasciarsi andare e affidarsi a quel che è al di fuori di noi. Accettare di affidarci a qualcosa, abdicare all’illusione della nostra autonomia e concepire che non può esistere alternativa al fatto che sia qualcosa, o qualcuno, a sorreggerci quando ne avremo bisogno. C’era la selvatichezza, il graffio, la paura di cadere, il rimanere celato, la vertigine della salita. La tentazione di andare sempre più su. Salire, staccarsi da terra. L’inspiegabile desiderio che m’agitava e mi spingeva. Anche io forse trovavo nutrimento nel cielo.
La provinciale in quel tratto non faceva altro che ripercorrere tutta la distesa delle cime di San Martino. Cima della Rosetta, Cima Corona, Croda della Pala, Cimon della Pala. Erano i nomi ed erano i monti che stavano proprio di fianco, maestosi, alla destra della direzione di marcia, verso est, mentre a ovest, verso valle scendevano le malghe, le case mute. La strada compiva dei zig zag, invertendo l’ordine delle cose, che facevano pensare alla cucitura, al rammendo della terra, ora avanti, ora indietro, come se si potesse tenere insieme ogni cosa grazie al movimento della vettura. Ora avanti, ora indietro, così come fa chi rammenda una tela strappata.
La sensazione e la vertigine della solitudine. Il fitto del bosco. Il viaggio, quel che appariva nei finestrini. Il silenzio, il ricordo di un’arrampicata su un albero, una liberazione. La ferita, l’inquietudine, l’attesa, una sorta di anelito più ampio che si riesce a colmare, comprendere, placare. Sempre, quando avevo camminato nei boschi in quei giorni, mi aveva accompagnato un certo allarme, come di chi si muove in un mondo sconosciuto, su un pianeta mai raggiunto prima da alcuna forma di vita. La foresta e il mistero. Il selvatico e il domestico.
Il bosco rammenta il labirinto, per il fascino che esercita e per la minaccia celata che sempre incombe. Per la meraviglia che suscita e per lo spaesamento in cui ci getta. Rammenta una casa abbandonata, per le vestigia quasi domestiche, di un qualcosa in cui abbiamo vissuto e in cui però, per qualche ragione che non riusciamo a ricordare, abbiamo smesso di abitare. Per quel che ci dà di confortevole e per quel modo che ha di somigliare a una cosa che abbiamo avuto e ora però non ci appartiene più.
In paese mi avevano raccontato di un bambino di dieci anni che era scomparso nel bosco in un pomeriggio di maggio del 2007. Proprio tra questi abeti, nei pressi di San Martino di Castrozza. Il bambino era semplicemente uscito di casa con il suo cane. Come faceva tutti i giorni. Forse era stato attratto dal bosco, che stava sempre così vicino, così dappresso, forse anche lui aveva inseguito le punte aguzze degli abeti protese verso il cielo. Anche lui si era inoltrato, attratto dal mistero. Nessuno si era preoccupato all’inizio. Di rado ci viene offerto di intravedere qualcosa di preciso di quel che accadrà. Un bambino che entra nel bosco con il suo cane. Le corse affrettate, il fiatone, la gioia. La luce che filtra tra i rami. Fermarsi d’improvviso con la mano poggiata sul tronco a riprendere fiato. Il cuore in gola. La sensazione di poter arrivare nel centro segreto del bosco. Mentre la trama di tronchi, rami e vette aguzze recede e sposta il confine di sé sempre un altro passo avanti a quello che compiamo. Per tutto il pomeriggio a nessuno venne in mente quel che sarebbe potuto accadere. Nella mente di nessuno crebbe il timore, si insinuò la preoccupazione. Un bambino nel bosco. Con il suo cane. Quel che accade. Come una fiaba. Come un sogno. Le corse, il fiatone. La primavera che sogna l’estate. La gioia e la paura. Il bosco, il mistero, la natura. Quel che può accadere e non riusciamo a prevedere. Un turista in questi luoghi qualche anno prima era precipitato sotto la neve in uno di quei vuoti improvvisi che si aprono nella terra, in una di quelle ripe scavate durante la Prima guerra mondiale e che ancora rimanevano come fratture della terra. Le ferite non sempre si rimarginano.
A una curva a gomito mi parve di vedere, proprio nello spiraglio improvviso che s’era aperto tra le cime, nel piegarsi della strada, il Cimon della Pala sbucare alla vista. Proprio quando la strada si dirige verso est, poco prima di voltarsi e dare le spalle di nuovo alle Pale di San Martino per salire ancora. Era ancor più effimero, sognante e rosato. Si saliva sempre più su. A una curva strettissima passai sopra al Rio Fosse, un altro asciutto greto di sassi e pietre. A quel punto si usciva dal bosco, dal fitto degli alberi e ci si inoltrava tra il verde illuminato, tra la schiena delle pietre rosate. Sempre più in alto. Il verde. Le pietre. Passo Rolle. Quasi duemila metri. Il vento spazzava l’aria e sembrava poter rompere quella rammendatura che con l’auto, con lo zigzagare della strada, si aveva avuto l’illusione di aver cucito.
Sempre si pensa che con il viaggio si possa realizzare un rammendo, ricucire qualcosa, richiudere una ferita. Sempre quando ci si mette in moto si ha la percezione di poter, anche solo per il fatto di aver messo in movimento il proprio corpo, avvicinare tra loro due parti che prima, per qualche ragione, erano rimaste distanti. Passai allora il rosso antico della casa cantoniera. I bar che offrivano, appesi sugli espositori girevoli, i souvenir come fossero un premio bambinesco e da luna park, per chi era riuscito a arrivare fin qui. Gli abiti e le calze. Più in là, le gobbe denudate delle vette. Le case sparse con le finestre a resistere al vento. Il rigirare di un cucchiaino nella tazza di un caffè. L’Hotel Venezia che proprio quassù faceva ripensare alla mia amica che dalla città lagunare cercava con lo sguardo l’incanto delle Pale di San Martino. Così, scollinando, superando Passo Rolle, passavo dalla Valle del Primiero e mi dirigevo verso la Val di Fiemme.
Ebbe così inizio la discesa, quasi poggiando piede dopo piede, così come dopo aver raggiunto inebriato la vetta, dopo aver osservato il mio spicchio di cielo, cominciavo a scendere dall’albero su cui avevo avuto la sconsideratezza di arrampicarmi.
Gli amici portati fin quassù dall’amore di un figlio per una ragazza di montagna vivevano in una città di mare del Sud Italia e da Predazzo mi avevano mandato, prima di quell’invito a cena, che mi mosse a quel viaggio, dei messaggi dove la meraviglia si mescolava a un certo disagio. Le camminate a cui i genitori della fidanzatina li invitavano, con una certa autorevolezza impositiva, li affascinavano e li spossavano. La sera si lasciavano tramortire nel crepuscolo dal girare della Terra, dallo scomparire della luce, dall’affievolirsi del fiato delle nuvole dal rumore delle stelle e poi se ne andavano a dormire. Del figlio mi dicevano che finiva per fare giri sempre più ampi, per camminare sempre più a lungo, per rimanere in piedi anche quando s’era fatto buio e ancora di più. Preoccupato forse dal fatto di non riuscire ad afferrare tutto quello di cui sentiva bisogno. E che cosa era quello di cui aveva bisogno? La fidanzatina, a dire dei miei amici, che avevano un osservatorio limitato, soggettivo, quasi inibito, se ne stava spesso silenziosa quando la incontravano. Era gente di montagna, pensava il mio amico.
E allora, più scendevo e più si facevano di nuovo avanti gli abeti. Un incontrarsi di nuovo. Rivedersi ancora. Il Bosco di Costoncella. Il rio di Colbricòn. Ero di nuovo nel pieno, e ancor di più, in quella trama fitta, attirato dal mistero del loro altissimo svettare. Arrivai così nei pressi di Paneveggio. Proprio vicino al bosco dei violini. Al punto in cui si trovava quel pugno di abeti rossi perfetti da cui si ricava il legno più pregiato per i violini più sonori. Se si poggiava l’orecchio alla corteccia dell’albero, si poteva sentire una specie di risonanza. Più questi alberi sonori crescevano lentamente, mi avevano spiegato, quasi rallentati dal freddo nel loro divenire, dalla minore intensità del processo della clorofilla, e tanto più essi divenivano legno pregiato per i violini, per i pianoforti, materiale unico capace di trasmettere un suono perfetto. Più lenti erano a crescere e più risonanti diventavano.
Lasciare passare attraverso il proprio corpo ligneo le vibrazioni, la risonanza. Gli abeti che crescevano. Il tempo che passava. Le lunghe cime che mostravano interesse per il cie...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Luglio
  3. Agosto
  4. Settembre
  5. Ottobre
  6. Novembre
  7. Dicembre
  8. Gennaio
  9. Febbraio
  10. Marzo
  11. Aprile
  12. Maggio
  13. Giugno