Contro natura
eBook - ePub

Contro natura

Una lettera al Papa

  1. 288 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Contro natura

Una lettera al Papa

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Remotti indirizza questo libro esplicitamente al papa. Spiega e argomenta perché il relativismo culturale, presente nello stesso cristianesimo, sia preferibile a ogni tipo di approccio dogmatico. In particolar modo quando sono in ballo i cosiddetti temi etici, dai quali dipende la qualità della convivenza ma anche della nostra stessa vita.Corrado Augias, "il Venerdì di Repubblica"Non so quante lettere ricevano il Papa e i suoi collaboratori. Di certo, non molte coraggiose e decise come questa che Francesco Remotti indirizza al Pontefice. L'antropologo propone una profonda riflessione sull'idea di natura che caratterizza molti discorsi di Benedetto XVI, ma soprattutto sulla quantità di cultura che impregna le nostre umane esistenze. Marco Aime, "La Stampa"Per la Chiesa cattolica la natura umana è una, stabile e permanente. Ma esiste una norma e chi la stabilisce? Francesco Remotti affronta e discute una concezione univoca, rocciosa, imperiosa dell'essere uomini.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Contro natura di Francesco Remotti in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Scienze sociali e Antropologia. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858113738
Categoria
Antropologia

1. Un’aspirazione condivisa

Non so se Blaise Pascal possa essere maggiormente considerato un uomo di fede (fede in un assoluto) o possa essere annoverato tra i relativisti: forse è stato propriamente l’uno e l’altro. Sta di fatto che, in pieno Seicento, Pascal sosteneva che, per quanto riguarda lo studio dell’uomo, non si può cercare in esso «né sicurezza, né stabilità» (Pascal 1962: 103). Su questo, come su altri punti, Pascal presenta una visione opposta a quella di René Descartes, per il quale dopo il viaggio tra i costumi si può raggiungere la natura umana, lo strato della «roccia» sotto la sabbia, il luogo della «sicurezza» e della stabilità (Descartes 1969: 152). Per Pascal l’esito del viaggio è diametralmente opposto:
Ho veduto tutti i paesi e gli uomini cambiare; e così, dopo molti cambiamenti di giudizio nei confronti della vera giustizia, mi sono convinto che la nostra natura non è se non continuo mutamento, e da allora non ho più mutato (Pascal 1962: 132).
Sostenitore del vuoto in fisica, Pascal è anche sostenitore del vuoto in antropologia: per Pascal non c’è la natura umana, intesa come roccia da Descartes, una roccia su cui costruire finalmente in modo stabile e sicuro. Pascal esprime un dubbio che caratterizza tutta la sua antropologia: «Ho una gran paura che questa natura [la natura umana] sia anch’essa un primo costume, così come il costume è una seconda natura... Il costume è la nostra natura» (Pascal 1962: 116).
In questa faccenda della natura umana, Benedetto XVI sta senza dubbio dalla parte di Descartes. In un discorso del 25 marzo 2007, pronunciato durante l’udienza concessa ai partecipanti al convegno della Commissione degli episcopati della Comunità europea e pubblicato integralmente dal quotidiano Avvenire, troviamo scritto:
Nell’attuale momento storico e di fronte alle molte sfide che lo segnano, l’Unione Europea per essere valida garante dello Stato di diritto ed efficace promotrice di valori universali, non può non riconoscere con chiarezza l’esistenza certa di una natura umana stabile e permanente, fonte di diritti comuni a tutti gli individui, compresi coloro stessi che li negano (Benedetto XVI 2007: 3, corsivo nostro).
All’inizio del nostro discorso ci troviamo già di fronte a un bivio: c’è chi sostiene l’esistenza certa della natura umana, stabile e permanente (Descartes e Benedetto XVI) e chi invece ritiene che la natura umana sia fatta di costumi, quindi di cose fluttuanti, mutevoli, contraddittorie (Pascal e prima di lui, ovviamente, Michel de Montaigne e tutta la genia dei relativisti, antichi e moderni). Chiamiamo queste concezioni opposte ‘prospettiva 1’ (quella di Descartes) e ‘prospettiva 2’ (quella di Pascal). Chi ha ragione? Chi ha torto? Il nostro discorso avrebbe l’ambizione di dimostrare la plausibilità della prospettiva 2, come si vedrà e valuterà meglio strada facendo. Per ora sono già possibili tuttavia alcune argomentazioni, che vanno a favore – ci pare – della seconda via, quella di Pascal. Queste argomentazioni sono del resto contenute nel suo stesso pensiero.
La prima argomentazione può essere formulata nel modo seguente: se esiste davvero una natura umana, stabile e permanente come la roccia, come mai gli esseri umani non l’hanno ancora scoperta? «Questa bella filosofia», la cui ricerca si è protratta ormai per millenni, ha forse chiarito in maniera definitiva la natura dell’anima o della realtà? La ragione – sostiene Pascal – è abbastanza ragionevole «da confessare che non ha ancora trovato nulla di sicuro» (Pascal 1962: 173-74). Questo nel Seicento. E noi possiamo aggiungere: chi invece è sicuro di avere trovato la natura umana, è in grado di farsi avanti e di esporla con qualche formula sintetica? Inoltre, c’è forse accordo su come è fatta la natura umana fra tutti coloro che pretendono di averla scoperta? È la stessa natura umana quella dei pensatori del Seicento e quella che hanno in mente i suoi sostenitori del 2007? Pare che ciò che li unisce sia non l’idea di come è fatta (per esempio, fatta di ragione o di istinto, di aggressività o di amore?), ma la convinzione della sua «esistenza certa» (Benedetto XVI). Su questo punto, i sostenitori della seconda via (quella di Pascal) hanno il vantaggio di poter spiegare il disorientamento, la diversità delle concezioni e delle scelte: se la natura umana è effettivamente qualcosa di fluido e mutevole (come lo sono i costumi, o la cultura), si comprende assai meglio perché gli uomini brancolino nel buio e non siano in grado di pervenire in antropologia a una verità certa. Diamo ancora una volta la parola a Pascal:
Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni (Pascal 1962: 102, corsivo nostro).
Come si vede, la prospettiva di Pascal fa assurgere l’incertezza a una condizione ‘naturale’ dell’uomo: ‘per natura’ gli esseri umani brancolano nel buio, perché non dispongono di una natura umana stabile, certa, permanente. La prospettiva 1 (quella di Descartes) spiega invece il brancolamento nel buio come causato da ignoranza, da superstizione, dal prevalere dei costumi sull’uso della ragione. I costumi sono fattori di cecità; però non si capisce bene perché siano tanto persistenti, in presenza dell’«esistenza certa» di una natura umana stabile e permanente. In altre parole, se esiste davvero questa natura umana, perché mai i costumi? Essi non possono essere generati dalla natura umana, visto che sono fattori di cecità e la coprono con una coltre quasi impenetrabile. Ma se non sono generati dalla natura umana, qual è la loro scaturigine? Accanto oppure oltre la natura umana (fattore di stabilità e di ordine), ci deve essere allora qualche altro fattore, che spieghi come mai gli esseri umani abbiano così a lungo brancolato nel buio, si siano lasciati dominare, per quasi tutta la loro storia, dai loro costumi strani e bizzarri, un fattore da cui soltanto alcuni privilegiati (alcuni uomini, alcune società o alcune religioni) sarebbero stati in grado di liberarsi.
La prospettiva di Descartes (e di Benedetto XVI) compie infatti una separazione di non poco conto nell’umanità: da una parte gli illuminati, coloro che affermano di aver finalmente scoperto la natura umana (non importa se grazie alla religione o alla scienza), dall’altra coloro che ancora brancolano nel buio e che inevitabilmente hanno bisogno dell’aiuto dei primi. Vengono fuori – come si vede – due forme di umanità (in corrispondenza del resto con i due fattori di cui abbiamo parlato prima), con diversi meriti, privilegi, destini e ruoli gerarchici: gli illuminati possono vantare la loro verità e dunque la loro superiorità a cospetto dell’ignoranza dei non illuminati, la quale inevitabilmente richiede non di essere mantenuta, ma soltanto eliminata. La prospettiva di Pascal riconosce invece nell’incertezza e nel brancolamento la condizione generale dell’umanità: non solo gli altri, ma anche ‘noi’ – come abbiamo già letto in Pascal – «voghiamo in un vasto mare [...] sempre incerti e fluttuanti». Non ci sono forme diverse e separate di umanità: tutti tentano disperatamente di ormeggiare da qualche parte, di fissarsi su qualche punto; e tutti vedono i loro appigli sfuggire di mano, «in un’eterna fuga». Non vi è la verità di alcuni e l’ignoranza degli altri, la superiorità dei primi e l’inferiorità dei secondi, il destino di leader degli illuminati e il destino di seguaci dei non illuminati: vi è invece una comune e condivisa condizione di miseria e di precarietà. È la pietà e la reciproca comprensione l’atteggiamento che più si addice alla prospettiva di Pascal: in quel «vasto mare» siamo nella stessa barca, o in barche molto simili.
Il vantaggio della prospettiva 2 (Pascal) è nettamente visibile sul piano antropologico e sul piano dei rapporti interculturali: ciò che emerge è infatti un atteggiamento di comunicazione, di reciproco interesse, rispetto e comprensione. La prospettiva 1 (Descartes) impone invece una netta separazione tra forme di umanità diverse e opposte, secondo uno schema gerarchico fondato su una pretesa di verità e di pienezza da un lato (gli illuminati) e un’ammissione di indigenza e di bisogno dall’altro (i non illuminati), rendendo quindi impossibile o senza senso un percorso antropologico che si inoltri nel mare dell’ignoranza: l’unico discorso antropologico di cui la prospettiva 1 sarebbe capace coincide esattamente ed esclusivamente con lo schema di divisione gerarchica dell’umanità. Questa posizione si aggrava ulteriormente se si richiamano le argomentazioni precedenti: la verità della natura umana è mai davvero stata scoperta? Chi ritiene davvero di essere depositario della verità, di trovarsi ormai sul terreno solido e roccioso della natura umana, e di essere in grado di spiegarla finalmente a tutti gli altri? E se anche così fosse, se davvero qualcuno (società, civiltà, tradizione, forma di pensiero) avesse capito come stanno le cose, come davvero è fatta la natura umana, perché mai gli altri stentano tanto a riconoscerla? È sempre soltanto una questione di ignoranza o, come abbiamo accennato prima, accanto alla natura umana dobbiamo ammettere qualche altro fattore, altrettanto e forse più potente della stessa natura, visto che l’umanità nella maggior parte della sua storia e delle sue manifestazioni culturali non ha seguito i dettami della natura, bensì le vie tortuose e devianti dei costumi?
C’è un ulteriore vantaggio, forse decisivo, della prospettiva di Pascal: quello di poter spiegare e rendere conto dell’atteggiamento dei sostenitori della prospettiva opposta, mentre non avviene il contrario (o non avviene in eguale misura). Ce lo fa capire ancora una volta Pascal. Dopo avere sostenuto che lo sbandamento è tipico degli esseri umani («è questo lo stato che ci è naturale»), aveva poi messo un «tuttavia»: questo stato «è il più contrario alle nostre inclinazioni». Stato di incertezza e di instabilità dunque; ma le nostre aspirazioni più profonde vanno in direzione opposta, verso la sicurezza e la stabilità. Infatti, «noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi» (Pascal 1962: 103, corsivo nostro).
Il vantaggio di Pascal è di essere in grado di dimostrare il fallimento di Descartes e nel contempo il senso della sua profonda aspirazione, che è beninteso quella di tutti gli uomini: Descartes non raggiunge la roccia (perché non c’è), ma «brucia dal desiderio» di trovarla, di disporre finalmente di un assetto stabile. Non la troverà mai, per cui la sua affermazione di stabilità non coincide con una stabilità effettivamente raggiunta, bensì esprime un desiderio, un’aspirazione, uno sforzo (oggettivo) di stabilizzazione, nonché l’illusione (soggettiva) di avere ormai messo piede sulla roccia. Il desiderio di stabilità è così forte proprio perché – ci fa capire Pascal – non disponiamo di un «assetto stabile» e di una «base sicura»; ovvero, se poggiassimo davvero sulla roccia cartesiana non proveremmo una brama di stabilità così bruciante. Con la sua teoria della mancanza di una natura stabile, Pascal riesce a ‘comprendere’ l’atteggiamento di Descartes: il suo desiderio di stabilità, i suoi sforzi di stabilizzazione, finanche la sua illusione di raggiunta stabilità. Ma se ora rovesciamo la prospettiva e ci poniamo dal punto di vista di Descartes, è facile constatare come Descartes non potrebbe capire le ragioni di Pascal: come fa a intestardirsi con la sua teoria dei vuoti, delle manchevolezze, visto che la roccia è lì con la sua stabilità? Agli occhi di Descartes ci sarebbe della perversione nell’atteggiamento di Pascal: egli non vuole riconoscere e accettare la verità. La condanna di Pascal da parte di Descartes può essere un esito dotato di forte consequenzialità. Descartes, forte della sua verità e della sua natura umana, potrebbe giungere a condannare Pascal, senza comprenderlo. Pascal, al contrario, fruisce di strumenti che gli consentono di comprendere Descartes, senza condannarlo.
Tradotto tutto questo in termini di ricerca antropologica, la prospettiva 1 (Descartes) ci bloccherebbe di fronte al compito non più eludibile di illustrare finalmente e in maniera definitiva quella struttura ‘stabile e permanente’ che è la natura umana: questo sarebbe il compito dell’antropologia, da assolvere una volta per tutte. Dopo avere spiegato come essa è fatta, l’antropologia avrebbe esaurito il suo compito e il suo destino: consegnata la verità fondamentale, la sua ricerca sarebbe finita (finalmente scoperta la natura umana, avrebbe ancora senso andare dietro ai costumi?). La prospettiva 1 rischia di porre l’antropologo in un forte imbarazzo, perché i seguaci di Descartes e di Benedetto XVI potrebbero motivatamente chiedere all’antropologo: se rinunci alla scoperta della natura umana (della cui esistenza siamo ‘certi’), di che cosa vai alla ricerca? L’antropologo potrebbe però uscire dall’imbarazzo trasformandolo in una bella provocazione: chi se la sente di individuare e spiegare con ‘certezza’ la struttura stabile e permanente della natura umana? E se dovessero accorrere filosofi di varie ideologie, teologi di differenti tendenze e religioni, scienziati delle più diverse discipline (genetisti, sociobiologi, etologi, neuroscienziati, paleoantropologi e così via), a chi dovremmo credere? In un clima tutto improntato alla ‘sicurezza’ vedremmo riaffiorare divisioni, spaccature, dubbi, incertezze, brancolamenti piuttosto paralizzanti.
Al confronto, la via di Pascal (la prospettiva 2) si rivela assai più promettente: essa ci fa capire quanto sia importante studiare nelle culture umane non la ‘certezza’, ma – se così possiamo esprimerci – i tentativi di ‘certificazione’; non la ‘stabilità’, ma i processi di ‘stabilizzazione’; non l’‘umanità’, ma le prove di ‘umanizzazione’. Ma poiché certezza, stabilità, umanità rimangono mete mai del tutto raggiunte e qualunque soluzione adottata non può nascondere all’udito gli ‘scricchiolii’ dei suoi presupposti, un’altra linea di ricerca – estremamente fruttuosa sul piano antropologico – è quella che riguarda le modalità di manifestazione del dubbio e della perplessità, le quali accompagnano, talvolta in maniera esplicita, talvolta in maniera sotterranea, molte imprese culturali.
In questo capitolo abbiamo trattato Descartes e Pascal come rappresentanti di due prospettive differenti e opposte: il nostro obiettivo – come è del tutto chiaro – non era affatto di natura storica (una ricostruzione del pensiero di questi due filosofi del Seicento francese); sfruttando invece i temi della stabilità, e del desiderio di stabilità, così caratteristici del loro pensiero, abbiamo voluto dar luogo a una specie di rappresentazione drammatica, al fine di illustrare presupposti e implicazioni della prospettiva 1 (quella della natura umana) e della prospettiva 2 (quella dei costumi o della cultura). Ne è venuto fuori una sorta di elogio di Pascal antropologo: una perorazione per un’antropologia pascaliana. Avversari e alleati potrebbero tuttavia richiamare l’attenzione sul carattere alquanto unilaterale e un po’ arbitrario di questa operazione: come già abbiamo accennato altrove (Remotti 1990: 162), Pascal non è tutto qui; Pascal è anche stato un uomo di fede, e soprattutto l’esito finale del percorso di Pascal consiste in un’uscita dall’antropologia fin qui considerata.
Anche Pascal in effetti si pone alla ricerca di punti stabili. Perduto l’ancoraggio offerto da una natura umana che solo illusoriamente potremmo considerare stabile e permanente, il punto d’appoggio è soltanto religioso (non naturale): la figura di Gesù diviene il punto di riferimento che consente di comprendere a fondo noi stessi, e il Cristianesimo si configura come l’unica religione che conosce davvero la realtà umana, nella sua miseria, oltre che nella sua grandezza. Per altra via, anche Pascal giunge a staccare il Cristianesimo da tutte le altre religioni (Pascal 1962: 193). Ma questo approdo alla stabilità – che definiremmo ‘mistico’ (Remotti 1990) – non può far dimenticare il lungo tratto di riflessione che Pascal ci ha fornito sull’instabilità da un lato e sui processi di stabilizzazione dall’altro. Al termine di questo percorso, in definitiva Pascal compie un vero e proprio salto (la ‘scommessa’, se vogliamo), che lo porta fuori dall’antropologia. Anche questo salto è significativo per chi decide di rimanere invece tra le incertezze antropologiche e, salutato il compagno di viaggio Pascal, continuare a osservare (ancora con spirito pascaliano, se si vuole) i processi di stabilizzazione che operano costantemente nelle culture: quei processi che si limitano a introdurre in dosi più o meno massicce elementi di stabilità, pur riconoscendo la insopprimibile fluidità del reale, e quelli che invece compiono il salto verso la trascendenza, verso una stabilità ritenuta più totale e definitiva.

2. Il potere dei costumi

Ancora un’indicazione possiamo trarre da Pascal, al fine di proseguire nel nostro percorso. Come si è già visto, egli non si limita a sostituire la natura con i costumi («ho una gran paura che questa natura sia anch’essa un primo costume»), ma provvede anche a mettere la natura nel posto dei costumi («così come il costume è una seconda natura»). In maniera lapidaria – e riproducendo Michel de Montaigne – giunge infatti a intrecciare e quasi a identificare i due termini: «il costume è la nostra natura» (Pascal 1962: 116). In Pascal, come già in Montaigne, costume e natura non costituiscono due strati sovrapposti (la roccia della natura umana e, sopra, la sabbia dei costumi, per usare l’immagine di Descartes), qualitativamente diversi e separati, cosicché l’ordine della natura umana venga salvaguardato dai costumi. Al contrario, natura e costumi intrecciandosi subiscono una contaminazione reciproca: se da un lato la natura viene concepita come fatta in gran parte di costumi (o di cultura), dall’altro i costumi danno luogo a una sorta di naturalizzazione. In questo modo, la natura affiora non già come uno strato autonomo e a sé stante, ma come l’esito di un processo di naturalizzazione, e dunque di stabilizzazione, a cui vengono sottoposti i costumi. Quanto più i costumi prendono il posto – per così dire – della natura umana, quanto più essi vengono ‘fatti propri’ e ‘incorporati’ dagli individui, tanto più essi si stabilizzano, assumendo così una parvenza di naturalità e persino una consistenza seminaturale. Pierre Bourdieu, il quale si è riferito molto esplicitamente all’insegnamento di Pascal e alla sua attualità per le scienze umane (1998), ha riproposto l’uso del concetto di habitus (2003), che – come è noto – gode di grande considerazione nelle analisi delle scienze sociali e umane. Su questi temi Bourdieu è grande debitore di Pascal; e a sua volta, Pascal si era rifatto molto a Montaigne. Ci sembra quindi giusto a questo punto dare voce a Montaigne per le sue profonde riflessioni sui temi della naturalizzazione e delle sue conseguenze:
Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine [coustume]; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti intorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione [...]. Ma il principale effetto della sua potenza è che essa [la consuetudine, il costume, dunque la cultura] ci afferra e ci stringe in modo che a malapena possiamo riaverci dalla sua stretta e rientrare in noi stessi per discorrere e ragionare dei suoi comandi. In verità, poiché li succhiamo col latte fin dalla nascita e il volto del mondo si presenta siffatto al nostro primo sguardo, sembra che noi siamo nati a condizione di seguire quel cammino. E le idee comuni che vediamo aver credito intorno a noi e che ci sono infuse nell’anima dal seme dei nostri padri, sembra siano quelle generali e naturali. Per cui accade che quello che è fuori dei cardini della consuetudine [costume, cultura particolare], lo si giudica fuori dei cardini della ragione; Dio sa quanto irragionevolmente, perlopiù (Montaigne 1982: 150).
Un brano di questo genere (e siamo nella seconda metà del Cinquecento, in piena «cris...

Indice dei contenuti

  1. Lettera al Papa (parte prima)
  2. Parte prima. Stabilità
  3. 1. Un’aspirazione condivisa
  4. 2. Il potere dei costumi
  5. 3. Chi si accontenta del relativo...
  6. 4. ...e chi vuole l’assoluto
  7. 5. In nome della naturalità
  8. Parte seconda. Forme di famiglia
  9. 6. Avrai un’unica famiglia
  10. 7. Tante famiglie, ma una soprattutto
  11. 8. Somiglianze di famiglia
  12. 9. Quanti coniugi?
  13. 10. Ma la famiglia dov’è?
  14. Parte terza. Chi contro natura?
  15. 11. Una saggezza perduta
  16. 12. Un’altra natura
  17. 13. Al di là della natura e della cultura
  18. Lettera al Papa (parte seconda)
  19. Riferimenti bibliografici