La coscienza
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La coscienza

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Il contributo della scienza della mente allo studio della dimensione soggettiva e privata dell'esperienza.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122624

Le teorie della coscienza

1. Coscienza fenomenica e coscienza cognitiva

Macchine e misteri Nel corso della prima parte abbiamo visto come le scienze del cervello e della cognizione abbiano per la prima volta creato una metodologia per spiegare la mente, intesa come sistema in senso lato rappresentazionale1, che promette di inserire i fenomeni che governano la nostra vita interiore nell’alveo delle scienze naturali. Lo sviluppo della scienza moderna ci ha resi sempre più edotti sul modo in cui funziona la ‘macchina del pensiero’: tanto sul piano della ricerca neurobiologica quanto su quello della psicologia, dell’intelligenza artificiale e della scienza cognitiva in genere, i meccanismi della percezione, del ragionamento, del linguaggio, dell’emozione, dell’azione ci sono sempre più noti. In un senso, quindi, la domanda «come può la materia pensare?» ha trovato una parziale risposta – sia essa ottenuta attraverso l’esame del funzionamento del cervello o l’identificazione tra attività cognitiva e processi computazionali.
D’altra parte, in una diversa prospettiva, la nostra questione di fondo rimane inevasa: come è possibile che i processi fisico-chimici dell’attività neurale e/o l’architettura funzionale esibita da un certo processo computazionale possano produrre quel tipo di sensazioni qualitative in cui consiste la nostra coscienza vissuta? Come possono le esperienze di caldo, freddo, gioia, dolore, la percezione intima e soggettiva dei colori, dei suoni, dei sapori, degli odori, così come i sentimenti più complessi dell’amore, del dubbio, del desiderio, della vergogna, della comprensione essere causati da – o addirittura essere identificati con – stati o eventi cerebrali o computazionali? Con le parole di Thomas Huxley (1825-1895):
Come avvenga che qualcosa di così notevole come uno stato di coscienza sia il risultato della stimolazione del tessuto nervoso è tanto inspiegabile quanto la comparsa del Genio nella favola, quando Aladino strofina la lampada2.
La coscienza dunque è misteriosa per quello che non sappiamo. Ma questo mistero sembra oggi più fitto che mai proprio a causa di quello che sappiamo. Da un lato, ci è sempre più facile immaginare in che modo un organo naturale come il cervello, e anche un artefatto come un computer (un parente del mulino di Leibniz), possa essere dotato di capacità cognitive che lo mettono in grado di dar vita a prestazioni intelligenti, esibendo la capacità di interpretare ed elaborare gli input percettivi che provengono dall’ambiente per utilizzarli come base per una guida razionale dell’azione; ma dall’altro, in questa comprensione della cognizione, la coscienza ‘qualitativa’ sembra avere un ruolo marginale o nullo. Dopo tutto un missile cruise non è certo cosciente nel senso in cui noi lo siamo quando ci diciamo soggetti di esperienza; eppure esso ‘percepisce’ il profilo orografico della regione che attraversa e lo ‘confronta’ con ‘l’immagine’ di esso che ha stivato nella propria ‘memoria’ per meglio ‘dirigersi’ verso ‘l’obiettivo’. Ognuna delle espressioni mentalistiche che abbiamo messo tra virgolette sembra trovare la propria definizione nel contesto di una scienza della mente che ignora volutamente la dimensione soggettiva dell’esperienza vissuta e definisce i propri termini sulla base di proprietà oggettive, descrivibili in terza persona: ma allora che cosa fa uscire il genio dalla lampada? E quale è il suo scopo?
Se uno studio della mente che ignora l’esperienza soggettiva sembra simile a una rappresentazione dell’Amleto senza il principe di Danimarca, ancora più frustrante è forse la dichiarazione comune a molti autorevoli studiosi di come al progresso nella conoscenza delle basi neurobiologiche e allo sviluppo dei modelli cognitivi della coscienza non corrisponda alcun progresso della questione centrale della spiegazione del perché ‘faccia un certo effetto’ essere coscienti. Per quanto questa tesi sia spesso citata con esasperazione dai filosofi di impostazione scientifica nei confronti dei propri scettici colleghi, le considerazioni che abbiamo appena presentato spiegano bene in che senso possa essere diffusa l’idea che esista un «vuoto esplicativo» (l’espressione è di Levine, 1983, ma il senso è quello già espresso da Leibniz), un vuoto nella comprensione che non sembra essere colmato dalla stessa conoscenza dei meccanismi obiettivi e in terza persona della coscienza umana, che pure ha recentemente compiuto passi da gigante.
Ma esiste «la» coscienza? Forse, si potrebbe pensare, l’errore è nel manico; forse la stessa nozione di coscienza va rigettata. La tentazione eliminativista di liberarsi da quello che Wittgenstein avrebbe chiamato un «crampo mentale» dissolvendone radicalmente la causa è molto forte.
Questo atteggiamento può essere favorito dalla stessa ambiguità del termine «coscienza», che induce a dubitare che esso stia per un campo omogeneo di fenomeni reali. Ancora prima di tematizzare l’eventuale contrasto tra coscienza (fenomenica) nel senso di esperienza soggettiva e coscienza (cognitiva) nel senso di costrutto della scienza della mente, possiamo così notare che questa espressione si applica a cose diverse in circostanze diverse. Per esempio, una persona è detta cosciente quando è sveglia e (più o meno) vigile; quando è «consapevole» di quanto le accade intorno; quando presta attenzione a qualcosa; essa è poi auto-cosciente quando è consapevole di se stessa come un soggetto. Ma anche un atto è detto cosciente, quando è compiuto in modo volontario e consapevole, o quando si è in grado di ricordare di averlo compiuto; mentre uno stato mentale – un contenuto di pensiero – è detto cosciente quando esso è oggetto di introspezione e/o la persona che lo intrattiene è in grado di riferirsi a esso o descriverlo verbalmente.
Nessuna di queste descrizioni pretende di essere particolarmente rigorosa, esse tuttavia spiegano in che senso alcuni studiosi hanno ritenuto la nozione di coscienza come oscura e fuorviante, dato che induce ad accomunare fenomeni in realtà eterogenei che debbono essere distinti3.
Ma se pure «coscienza» si dice in molti modi, ciò rende ancora più urgente tentare di delineare una mappa concettuale adeguata delle forme in cui questo avviene; e nel far ciò sembra difficile evitare di porsi una serie di questioni filosofiche che potranno eventualmente condurre all’abbandono della nostra visione ordinaria, ma che in ogni caso – prima di giungere a un simile esito – da tale visione debbono inevitabilmente partire.
Coscienza fenomenica e coscienza cognitiva (nuovamente) Un punto cruciale che possiamo allora assumere come focus della nostra discussione è il rapporto tra i due sensi di coscienza a cui abbiamo già fatto riferimento. Il primo è la coscienza fenomenica (CF), l’esperienza soggettiva in prima persona del possesso di stati qualitativi, di un punto di vista, di una prospettiva. «Coscienza fenomenica» vorrebbe essere, in questo quadro, il nome di una serie di fenomeni che costituiscono l’esperienza dei soggetti viventi che noi siamo. Si noti che, malgrado i problemi del suo inserimento in una cornice naturalistica, l’esperienza di cui si parla qui non è – in prima battuta almeno – l’esperienza di una mente disincarnata, ma quella di un agente incorporato collocato in un mondo fisico e dotato di scopi e atteggiamenti nei confronti di altri soggetti e altre cose del mondo fisico.
Il secondo senso di coscienza è quello di coscienza cognitiva (CC), cioè la capacità di un sistema di avere accesso ai propri stati interni, ai fini (tra gli altri) di verbalizzazione, organizzazione dell’azione e anche costruzione di modelli di se stessi utilizzabili nell’interazione sociale. Che sia intesa nei termini di pattern di attivazione dell’attività neuronale (Crick), di meccanismi di auto-monitoraggio da parte della mente/cervello (Armstong, Lycan), o magari di una provvisoria coalizione di agenzie cognitive che guadagna il controllo dei centri del linguaggio (Dennett) – tutte ipotesi che esploreremo più avanti –, «coscienza cognitiva» è in ogni senso il nome di un costrutto teorico di una scienza della mente come quella descritta nel capitolo precedente: una scienza che concepisce gli stati mentali come la «base interna del comportamento», ciò che è rilevante per la genesi causale e la spiegazione del comportamento (Chalmers, 1996, p. 11).
Proprietà intrinseche e proprietà relazionali Per comprendere la principale differenza tra CF e CC si è soliti fare riferimento alla distinzione tra proprietà intrinseche e proprietà relazionali. L’idea è questa: da un punto di vista della coscienza cognitiva ciò che rende un certo stato mentale quello che è, è il ruolo funzionale che esso svolge all’interno dell’economia psichica di un individuo, ovvero le sue relazioni con gli altri stati mentali e con i comportamenti che può innescare. Così un dolore sarà caratterizzato dalle reazioni di avversione, allontanamento dallo stimolo spiacevole, innesco di altri stati mentali come il timore, o la rabbia ecc. Idealmente, dalla trama di queste complesse relazioni emerge la natura del dolore come stato. Se consideriamo, invece, la coscienza fenomenica del dolore, la particolare (e sgradevole) qualità che assume l’esperienza quando proviamo un dolore, essa può essere caratterizzata come intrinseca, nel senso che essa è quella che è (si sostiene) senza alcun riferimento ad altri stati mentali: la dolorosità del dolore (come la piacevolezza del piacere e qualunque altra esperienza qualitativa possedendo la quale si prova qualcosa) è quella che è in se stessa, indipendentemente dal suo ruolo funzionale.
La funzionalizzazione della coscienza In sintesi, mentre è in virtù del possesso di un certo carattere intrinseco e qualitativo che un dato stato è CF-conscio, la natura CC-conscia di un certo stato cognitivo è dipendente dalle relazioni tra il suo contenuto rappresentazionale e gli altri stati dell’organismo. Questo ha conseguenze di grande rilievo; in particolare, in una simile prospettiva la coscienza cognitiva è una nozione suscettibile di analisi funzionale: essa è descrivibile sulla base delle funzioni che svolge nell’economia cognitiva complessiva dell’agente, mentre quella fenomenica non lo è4. Dire che CC è una nozione funzionale significa aprire la strada a una sua definizione nei termini del ruolo (causale) che svolge e ciò spiana la strada alla possibilità di una sua spiegazione riduttiva nei termini di processi di livello ‘inferiore’. Se per esempio la coscienza si lasciasse ridurre alla rappresentazione, come propongono Dretzke (1995) o Tye (1995), o all’auto-monitoraggio cerebrale, come vuole Armstrong (1968, 1980), o a entrambe, secondo la proposta di Lycan (1987, 1996), o a certi pattern di trasmissione dell’attività neuronale, ipotesi esplorata da Churchland (1995), e se avessimo una teoria naturalista della rappresentazione o dell’auto-monitoraggio o della trasmissione neuronale, avremmo ovviamente anche la nostra (agognata) teoria naturalista della coscienza.
Al contrario, insistere sulla natura non funzionale, non relazionale e quindi intrinseca, di CF significa sbarrare la strada a una simile riduzione, o renderla estremamente problematica. Se l’effetto che fa essere in un certo stato mentale è un carattere intrinseco, ultimo e di fatto indefinibile di quello stato, appare difficile sperare di individuare qualche ulteriore proprietà che ne spieghi la natura. Questa è la ragione principale per cui la tesi dell’esistenza di una coscienza qualitativa5 dotata di proprietà intrinseche è diventata un luogo comune (e un punto di forza) delle posizioni anti-riduzioniste. Essa va di pari passo con l’idea che il vero problema, hard problem, sia la spiegazione della coscienza fenomenica.
Il vuoto esplicativo È qui che risiederebbe il vero gap esplicativo, il vuoto che si apre fra le spiegazioni naturaliste e la coscienza fenomenica, cioè l’esperienza soggettiva. Sul piano cognitivo, possiamo contare su una comprensione scientifica relativamente buona del tipo di spiegazioni che potrebbero soddisfare le nostre curiosità teoriche. In effetti si fronteggiano vari programmi di ricerca per lo studio scientifico della cognizione. Prendiamo per esempio la nozione di «coscienza di accesso» discussa da Block in vari lavori: uno stato è A-conscio per lui se esiste una rappresentazione del suo contenuto che è: 1) disponibile come premessa di un ragionamento, 2) utilizzabile ai fini del controllo razionale dell’azione, 3) disponibile per il controllo razionale del linguaggio (Block, 1995, p. 231; 1997, p. 447). Ora, in linea di principio nulla ci impedisce di sperare di giungere a una teoria del ragionamento, dell’azione e del linguaggio che ci permetta una conoscenza dei meccanismi della coscienza sopra descritti. E lo stesso vale per l’individuazione di un modello neurobiologico di ciò che avviene nel cervello quando ci troviamo negli stati definiti «coscienti».
Ma se la comprensione della coscienza cognitiva, per quan- to difficoltosa, appare oggi alla portata dell’indagine scientifica, dei suoi metodi, dei suoi concetti, lo stesso non può dirsi per quella fenomenica. Un...

Indice dei contenuti

  1. Parte prima
  2. Il ‘mistero’ della coscienza
  3. Breve storia della coscienza da Cartesio alle neuroscienze
  4. Parte seconda
  5. Le teorie della coscienza
  6. La coscienza: eliminazione, mistero, o riduzione?
  7. Cos’altro leggere
  8. Bibliografia
  9. L’autore