Postfazione
di Laura Leonardi
Come sarà il mondo dopo la crisi? Ralf Dahrendorf ci lascia con questo interrogativo, non senza averci dato prima molti elementi per vedere le cose in modo non scontato, e suggerendoci dove andare a cercare i segnali di nuovi inizi: forse, addirittura, di «una nuova epoca». Quest’ultimo scritto arriva quanto mai opportuno mentre si è immersi, rimanendone anche un po’ frastornati, nel dibattito attuale, che oscilla tra le tesi pessimiste che decretano l’imminenza della crisi, ormai irreversibile, del capitalismo e quelle, più possibiliste, che si chiedono perché le politiche neoliberali continuino a godere di popolarità, dopo aver dato prova di tanti insuccessi nel prevenire e nel far fonte ai problemi finanziari ed economici; si stenta, ovunque, a vedere elementi tali da innescare un cambio di rotta.
Innanzi tutto, Dahrendorf ci riporta al centro della carreggiata: nell’affrontare il fenomeno della crisi, è importante adottare una particolare attitudine e consapevolezza, evitando di prefigurarne gli esiti in modo tale da chiudere gli orizzonti del cambiamento invece di lasciarli aperti. Anche se, come egli afferma, «l’analisi comporta sempre un primo momento che è spietato [...] un’analisi costruita in modo tale che i suoi esiti finali non possano suonare che nefasti, costituisce un’artificiosa limitazione per la comprensione esattamente allo stesso modo che il tenersi sconsideratamente attaccati all’auspicabile».
L’analisi di Dahrendorf si caratterizza per la ricerca costante dei legami tra le trasformazioni economiche in atto e le loro basi sociali, nel tentativo incessante di «diagnosticare» la direzione del cambiamento. Questo implica non ridurre a pochi, singoli fattori, il complesso delle cause che concorrono a spiegare gli eventi, e a non cedere alla tentazione di stabilire rapporti di causa ed effetto secondo una logica lineare.
Così, per capire i fenomeni di crisi nell’ambito economico, non si limita a considerare i condizionamenti e le pressioni che derivano dai meccanismi astratti che regolano il funzionamento del mercato, né ritiene sufficiente soffermarsi sulle responsabilità di chi ricopre posizioni di potere economico e politico, ed è in grado di fare scelte che condizionano pesantemente le chances di vita degli altri. Trova parte della spiegazione nei comportamenti diffusi e generalizzati, a livello sociale più ampio, che contribuiscono a produrre la crisi, assecondandola oppure tentando di resistere e reagire. Per questo, Dahrendorf si sofferma sulle culture egemoniche, le «culture prevalenti» – come le chiama in questo saggio – che danno forma e motivazione alle azioni individuali e collettive, e sono, allo stesso tempo, riconducibili a solide strutture di relazioni sociali e di potere.
Non è la prima volta che Dahrendorf affronta il tema della crisi; quest’ultimo scritto è dedicato a quella finanziaria del 2008, ma costituisce un punto d’arrivo di un’analisi condotta nell’arco di molti anni. Infatti, egli stesso rimanda a come aveva affrontato la questione più di «un quarto di secolo fa»; lo aveva fatto, già allora, mettendo al centro le profonde trasformazioni del capitalismo e della democrazia, ricercando il loro radicamento nei mutamenti sociali e culturali cui si accompagnavano.
Che cosa hanno in comune la crisi attuale e quelle precedenti? Dahrendorf ha tracciato un filo rosso che vale la pena di seguire. All’inizio degli anni Ottanta, egli guarda alla crisi come fenomeno che apre opportunità di cambiamento. Anche allora, egli prende le distanze dalle spiegazioni troppo riduttive della complessità circa le cause e le caratteristiche della crisi. Si tratta di interpretazioni, come egli sottolinea, filtrate dalla lente dell’economicismo, che avallano soluzioni politiche non adatte ad affrontare i problemi alla radice e non ne vedono le conseguenze in termini di costi sociali.
Il primo momento «spietato» dell’analisi della crisi, negli anni Ottanta, lo porta ad affermare che «un nuovo clima socio-economico ostacolerà la crescita per molto tempo». Un passaggio epocale segna la fine del «secolo socialdemocratico», che ha portato i paesi occidentali a livelli di benessere e di ampliamento delle chances di vita mai conosciuti prima, grazie alla capacità di conciliare crescita economica e uguaglianza dei diritti civili, per il tramite delle politiche di sicurezza e protezione sociale. In questo modo si è costruita «una base per l’edificio della società». Ma, dopo un periodo di crescita ininterrotta, nei venticinque anni del secondo dopoguerra, la crisi «mette di fronte ad un’esperienza umana fondamentale [...] da una parte, la crescita rapida e costante ha in sé anche qualcosa di pesante per l’uomo, anzi di spaventoso; dall’altra, le attitudini degli uomini mostrano una maggiore disponibilità al cambiamento che non le strutture delle istituzioni». Dahrendorf afferma che «paghiamo oggi il prezzo dell’espansione e dei ritmi della crescita stessa», i cui effetti sono ambivalenti, spesso negativi: per esempio, lo sfruttamento senza limiti delle risorse naturali, l’inquinamento ambientale, la minaccia nucleare. Egli estende il concetto di crisi al mondo sociale centrato sulla crescita economica, con tutte le sue istituzioni, prima fra tutte il lavoro: che cosa succede, si chiede, se alla società del lavoro «il lavoro stesso viene meno?». È questo uno degli aspetti più sign...