Porti ciascuno la sua colpa
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Porti ciascuno la sua colpa

Cronache dalle guerre dei nostri tempi

  1. 240 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Porti ciascuno la sua colpa

Cronache dalle guerre dei nostri tempi

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Informazioni sul libro

«Cosa ne faremo delle migliaia di bambini che vivevano sotto l'Isis?»«Li dovevamo uccidere tutti.»Queste parole raccolte da Francesca Mannocchi durante uno dei suoi reportage di guerra sono l'avvio di una storia che nessuno vuole ascoltare. Una storia commovente e perturbante che per la prima volta dà voce a chi crediamo innocente o colpevole delle violenze della guerra.Un grande romanzo dal vero del nostro tempo.

Abbiamo diviso in modo netto carnefici e vittime, l'Occidente e il caos; abbiamo tranquillizzato la nostra coscienza con racconti semplicistici. Abbiamo tracciato un confine tra umano e disumano. Così l'Isis era un mostro sconosciuto che andava annientato, e le terre su cui ha allignato solo delle terre guaste da lasciare al loro destino segnato. Eppure, se avviciniamo lo sguardo scopriamo quanto di irresistibilmente umano è restato dove abbiamo pensato non ci fosse bisogno di guardare più nulla. Non c'è un solo ritratto in Porti ciascuno la sua colpache non si incida nella nostra mente: le donne vedove di miliziani pronte a essere madri di altri martiri, i bambini dei carnefici dell'Isis accanto ai bambini delle vittime dell'Isis nello stesso campo profughi, i giovanissimi orfani del Califfato che speravano di immolarsi in un attentato e adesso senza una gamba guardano fisso il vuoto, gli adolescenti terroristi che sembrano dei ragazzi di una qualunque periferia del pianeta.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858140062
Argomento
Economia

I semi dell’Isis

La somiglianza è in sé tradimento; perché incoraggia gli altri a non cercare mai di conoscerci.
E. Jabès, Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato
Il campo profughi di al Jaddah è una distesa di tende color sabbia stese sulla sabbia irachena. L’ocra intorno diventa un’onda, opaca, su una terra dove la gravità viene superata dal calore torrido delle giornate infinite di agosto. Il calore si alza, l’aria calda supera quella fredda e i bambini ai bordi del campo, con le mani dietro la schiena, trascinano carri di legno, carichi di televisioni, lampadine, torce elettriche, vecchie radio. A osservarli da dietro, i carri sembrano trainati da fantasmi, tanto sono piccoli i bambini. A osservarli da lontano sembrano fluire sulla sabbia, senza la fatica viva che traspare dai loro volti. L’ocra copre tutto: le tende, i chilometri di filo spinato che circondano le sei sezioni del campo, i bagni, il gabbiotto dei guardiani che – armati – smistano le entrate e le uscite.
Il campo profughi di al Jaddah è uno e mille. Questo mi dico, avvicinandomi sull’auto che ci porta lì, quaranta chilometri da Mosul. Ho visto più di una decina di campi profughi finora, forse venti.
Ne ho visti così tanti che prima di entrare ho bisogno di raccoglimento. Quando hai visto cinque, dieci, troppi campi profughi, quelle due parole diventano un’unica cosa, un’idea, un concetto normalizzato. Campoprofughi. Osservo al Jaddah, le distanze tra me e le tende si accorciano, e mi chiedo quante tende ci saranno lì, quante famiglie, quante famiglie dell’Isis. Mi ripeto quanto sia importante conoscere i numeri esatti dei fenomeni che si raccontano. Ma prima ho bisogno di raccogliere lo stupore. Devo ricordare che a questo non posso abituare gli occhi. La parola mostro deriva da monstrum, che significa prodigio, stupore, un fenomeno contro natura tra gli uomini e la terra. E quel campo mi sembra un mostro. Per questo devo conservare lo stupore, insieme alla sensazione che sto assistendo a un prodigio e non raccontando la cronaca di un’emergenza umanitaria. Dodicimila persone il cui spazio vitale è delimitato da un filo spinato. Una donna che sviene davanti ai miei occhi con due figli in braccio dopo aver camminato per centinaia e centinaia di metri nel campo sotto il sole. Tutto questo è un prodigio.
Quando scendo dall’automobile la temperatura segna 48 gradi. Nel gabbiotto all’entrata del campo gli uomini sono ammassati a chiedere cibo, le donne poco più in là aspettano il proprio turno per una tanica d’acqua. I bambini sono sporchi. È la prima cosa che vedo. Nei campi profughi la vita diventa sporca, gli abiti puzzano, i bagni sono sei capannini di lamiera con un buco in cemento sul pavimento, spesso intasati di feci. Sulle porte puoi trovare il logo dell’Unicef, o quello dell’Unhcr, celestino più chiaro o più scuro.
Le tendopoli dei campi possono essere di vari tipi: ci sono le tende di tela, simili alle canadesi, le tende temporanee leggere, di solito un semicono. Quando passi accanto ai campi, guidando lungo centinaia, migliaia di tende, dopo un po’ puoi fare la classifica della comodità: questa tenda è spaziosa, quest’altra è troppo bassa. Questa resiste meglio all’acqua, questa resiste meglio al tempo.
Le tende di tela sono leggere, economiche. Sono tende famigliari, grandi sedici, venti metri quadrati: uno spazio pensato per una famiglia di cinque persone. Tende che resistono al caldo, al freddo, si montano facilmente, e c’è anche il kit con le spiegazioni. Così facile che pare Ikea. Però nel kit spiegazioni c’è scritto anche che le tende famigliari “sono progettate per una soluzione di rifugio a breve termine” e che la tenda “non è un sostituto di un rifugio permanente”. Nel campo di Zaatari, in Giordania, ci sono cinque chilometri quadrati di tende per centomila persone, rifugiati siriani che vivono lì dal 2012, nelle tende pensate come rifugi temporanei. Ma il temporaneo è diventato permanente e ormai a Zaatari ci sono i negozi, è una città.
Poi ci sono le tende temporanee leggere, le più diffuse, oltre che le più resistenti, impermeabili. Fatte metà di cotone metà di poliestere. Quattro metri per quattro. Pensate sempre per una famiglia di cinque persone. A volte però dentro ci dormono in dieci.
Quello che passa di mente, osservando le centinaia di migliaia di tende, che sono identiche in Iraq come in Nigeria, come in Bangladesh come in Somalia, è che è vitale ciò che non vedi. Non vedi l’assenza di elettricità, che a cinquanta gradi significa assenza di un banale ventilatore; ma significa anche che il cibo marcisce e i bambini si ammalano; e in un campo profughi di diarrea si può morire. Non vedi l’assenza di ombra. Per interi chilometri quadrati non esiste un fazzoletto di ombra per dire ai propri figli: “Esci dalla tenda, vai a giocare”. Ma giocare poi con che cosa? Non vedi l’acqua. Perché l’acqua non è mai abbastanza. E nelle tende si tiene con la cura delle cose più preziose. Non tanto per lavare i pochi abiti di chi le abita, quanto per bagnarli. Per alleviare i corpi dalle temperature insostenibili dell’estate.
Non vedi i bagni. Che sono sempre troppo pochi. Così pochi e mal ridotti che è difficile dire se sia meglio sperare che la tenda sia lontana da lì, anche se poi devi camminare anche un quarto d’ora per raggiungerli; o vicina, che vuol dire tollerare odori nauseanti.
Soprattutto, quando cala il sole non vedi le donne andare in bagno, perché nella promiscuità dei campi profughi i bagni sono comuni, e diventano luogo di abusi sessuali e molte donne, soprattutto quelle sole, preferiscono trattenersi. Così spesso si ammalano di infezioni alle vie urinarie. I bagni dei campi profughi sono i luoghi della mortificazione, dell’umiliazione. L’impossibilità di fare una doccia, di lavarsi il viso, scegliere se usare l’acqua per mangiare o lavarsi; lavare se stessi o i propri figli; mandare la propria figlia in bagno sola o piuttosto non farla uscire dalla tenda, per proteggerla dal pericolo che qualcuno la molesti.
Quello che devi impegnarti a non fare in un campo profughi è pensare alla vita che hai lasciato. Alla tua casa. Al tuo bagno, alla cucina che volevi pulita e perfetta. Alle tue stoviglie. Agli odori familiari dell’ultimo piatto caldo che hai cucinato.
Non importa cosa hai lasciato, com’era prima la tua vita, con quale passo di normalità e decenza acquistavi il pane alla bottega più vicina a casa, quello che ora conta è arrivare prima del tuo vicino di tenda alla distribuzione del cibo. Avere un pacco di farina in più di scorta nella tenda, avere una coperta in più, anche se non ne hai bisogno, perché della tua vita precedente hai perso tutto, e allora, forse, accumulare anche un oggetto che non serve aiuta a ricostruire uno spazio. Che altrimenti è vuoto.
Quello che conta è avere più acqua del tuo vicino, così puoi lavarti, lavare tuo figlio, lavare i tuoi vestiti; avere un po’ di sapone a ricordarti che non sei un animale.
La quarta sezione del campo di al Jaddah è formata da quattromila tende. Quattromila tende significa dalle dodicimila alle ventimila persone. Le Nazioni Unite utilizzano un moltiplicatore che varia da paese a paese. Nelle tendopoli italiane potrebbe essere 3 a nucleo famigliare, qui in Iraq può arrivare a 10. Ci sono tende in cui nei primi giorni del dopoguerra dormivano, l’una sull’altra, fino a dodici persone.
Nella lunga estate irachena la sabbia si è accumulata e ha coperto tutte le tende. Si è accumulata la sabbia e si sono accumulate le persone, e con loro si è accumulato il risentimento. Il desiderio...

Indice dei contenuti

  1. Haji, 65 anni, padre di Mushtaq, miliziano Isis, campo profughi di Hamam al Alil, primavera 2017
  2. Porti ciascuno la sua colpa
  3. Quella paura è il diavolo
  4. Riconquistare o punire?
  5. La cartellina blu
  6. Vincere la guerra e perdere la pace
  7. Mahmoud, il testimone
  8. I semi dell’Isis
  9. Racconta quello che non cambia
  10. Postilla
  11. Bibliografia essenziale
  12. Ringraziamenti