Sentieri nella natura
Non di solo trekking
A camminare si impara camminando. Non c’è modo migliore per farlo che uscire di casa e mettere un passo dietro l’altro. Con calma, senza la fretta di fare subito molti chilometri. Del resto questa è tra le attività – o capacità – che più immediatamente distinguono gli esseri umani dagli altri animali. Da piccoli, dopo aver gattonato per alcuni mesi, una delle prime cose che aneliamo è proprio alzarci in piedi e camminare. Un piccolo passo per un bambino, un grande passo per l’umanità.
L’escursionismo è un modo per scoprire lentamente il territorio. Si differenzia dalle altre attività legate al camminare per la tipologia di luoghi che permette di attraversare: in genere si tratta di montagna o comunque di ambienti naturali. Gli itinerari escursionistici ricalcano spesso antiche mulattiere, carrarecce dismesse o tratturi, oppure sono progettati ex novo, pensati appositamente per portare chi li percorre fuori dai centri abitati.
Solo di recente, cioè nell’ultimo secolo, l’uomo ha scoperto che camminare può essere un modo per riappropriarsi del contesto in cui è vissuto per milioni di anni: la natura. Risale alla fine dell’Ottocento, coi primi camminatori americani, la scoperta – o forse dovremmo dire l’invenzione – del cammino come azione ricreativa. È del 1892 infatti la nascita del Sierra Club, la più antica organizzazione al mondo dedicata alla montagna e alle attività all’aria aperta. Fu fondata da John Muir, uno dei primi escursionisti in assoluto e tra i primi a battersi per la tutela della Yosemite Valley e di altre aree naturali degli Stati Uniti.
In Italia la data simbolo è il 1863, anno della fondazione a Torino del CAI. Da allora nacquero progressivamente sezioni in tutta Italia, soprattutto al Nord dove si trovavano le cime alpine rese famose già dalle imprese del secolo precedente. Nel 1786 infatti Balmat e Paccard avevano raggiunto per la prima volta la vetta del Monte Bianco (4.810 m), suggellando la nascita dell’alpinismo, che cominciò ad andare di moda e a incuriosire anche chi della montagna conosceva poco o nulla. Per questa ragione le prime sezioni del CAI raccolsero soprattutto alpinisti, ma fin dall’inizio ospitarono anche appassionati di camminate in montagna. Si configurarono subito come il ritrovo naturale di chi amava andare a piedi in altura.
In realtà la nascita dell’escursionismo come pratica di piacere è ancora di un po’ precedente: già nel periodo del Grand Tour, quando era divenuto di moda visitare i luoghi d’arte, d’archeologia e i paesaggi dell’Italia, chi poteva permettersi quei viaggi si dilettava anche in lunghe passeggiate a piedi.
Oggi l’idea di un itinerario escursionistico non sorprende più nessuno, ma all’epoca sentieri e mulattiere esistevano soltanto per far spostare merci e persone, non per svago. Questi percorsi venivano utilizzati esclusivamente da chi li aveva prodotti, quindi soprattutto da pastori, da transumanti e da mercanti, che per spostarsi da un paese all’altro utilizzavano quotidianamente tragitti minori, spesso attraverso i campi, varcando colline, montagne e valichi.
Andare a camminare in quei luoghi ci riavvicina a una dimensione dalla quale i mezzi di trasporto ci hanno allontanati. Anche questo, quindi, si deve alla pratica del camminare: la nascita della coscienza ambientale e l’inizio delle battaglie ambientaliste.
Chi cammina in montagna fa della lentezza il proprio mantra. Passo lento, respiro tranquillo, scarponi con protezione per la caviglia. E zaino. Con dentro tutto il necessario per affrontare uno o più giorni di boschi, prati e rocce. Il camminatore è inevitabilmente un trasportatore di zaino. Il termine inglese backpacking si riferisce non al semplice atto di trasportare un carico sulle spalle, ma al viaggiare con lo zaino. Backpacker è perciò quasi sinonimo di camminatore.
Se da questa formula togliamo lo zaino, alleggeriamo le calzature e aumentiamo il ritmo, ecco che viene fuori un personaggio che si incontra sempre più di frequente sui sentieri di montagna: il trail runner. E già intuisco cosa state pensando: orrore e raccapriccio. Correre in montagna? Nel luogo dove ogni cosa scorre lenta? Ebbene sì. L’ho pensato anch’io, prima di capirne un po’ di più. Ora non è che io sia un corridore, per carità; mi sono limitato a intervistare qualche trail runner e, sì, me ne sono fatto una ragione. Ho capito che la filosofia di chi corre in montagna non è poi così distante da chi in montagna ci va a camminare. Anzi, spesso i corridori sono anche escursionisti appassionati di natura, di tranquillità e tutto il resto. Hanno però scoperto che in montagna si può andare più leggeri: meno coperti e soprattutto meno carichi. E che così il contatto con l’ambiente naturale può essere persino più intimo.
In altre parole: la corsa, anche quella in montagna, è banalmente un camminare più veloce. Prendendoci una libertà interpretativa, possiamo dire perciò che il trail running è una forma di escursionismo accelerato?
Del resto il legame del termine trail con la natura è stretto. La parola fu usata per la prima volta un paio di secoli fa per definire le piste, le tracce che venivano aperte nei territori inesplorati del nuovo continente. Trail furono poi anche i lunghi percorsi attraverso le grandi montagne degli Stati Uniti, cioè sentieri che in più giorni consentivano di attraversare vasti territori, facendo quello che oggi chiamiamo trekking, come vedremo tra poco. E fu proprio su uno di questi grandi sentieri, il Western States Trail, che alla fine degli anni ’70 fu organizzata una delle prime gare di trail running: lunga oltre centocinquanta chilometri, andava da Salt Lake City nello Utah, attraverso tutto il Nevada, fino a Sacramento in California.
Il termine trail accomuna quindi le lunghe corse e le lunghissime camminate. E così scopriamo che la distanza tra le due discipline non è abissale come credevamo.
Ma torniamo all’escursionismo propriamente detto. In inglese viene indicato col termine hiking, che vuol dire genericamente camminare. Nel caso di percorsi di più giorni, che siano cammini o traversate in montagna, si parla invece di trekking.
L’escursionismo è spesso alla base di altre attività legate alla frequentazione degli ambienti naturali, come l’osservazione degli uccelli (birdwatching), delle piante o del paesaggio e delle sue morfologie, o la visita di monumenti, borghi e altri siti di interesse culturale. L’escursionismo ha ormai molte declinazioni, anche fantasiose o talvolta distanti dalla natura in senso stretto. In questo capitolo ci interessano però soprattutto le camminate in montagna e negli spazi aperti.
Veniamo quindi alla questione: in un’Italia che ha superato i sessanta milioni di abitanti, dove il senso comune vuole che sia impossibile percorrere un solo chilometro senza incontrare case, strade o altri segni dell’uomo, in un Paese così esistono ancora spazi naturali? La risposta è sì. Ed è una risposta convinta, perché l’elevata densità abitativa di alcune aree del Paese lascia pressoché spopolate altre aree anche molto vaste. Regioni come la Campania e la Lombardia hanno una densità di oltre quattrocentoventi abitanti per chilometro quadrato, e le aree di pianura o di collina sono spesso sovrasature. Qui a partire dal dopoguerra si sono formate conurbazioni impressionanti fatte di edifici costruiti uno sull’altro, stabilimenti industriali, grovigli di strade, svincoli e viadotti, e lo spazio a disposizione si riduce sempre più man mano che tempo e cemento avanzano.
Fuori da queste aree però esistono ancora ampie porzioni di territorio in cui la densità abitativa è bassa o bassissima. In regioni come la Sardegna e il Molise la densità è di circa un sesto rispetto alle regioni più affollate della penisola. Ma in generale tutte le aree interne sono poco abitate e in quelle montane non vive ormai quasi nessuno. Qui ci sono ancora ampi spazi naturali liberi da modificazioni o segni antropici. Certo non siamo in Groenlandia, il posto meno densamente popolato del pianeta, e neppure in un paese scandinavo, dove è possibile camminare per giorni senza vedere alcuna traccia umana; tuttavia anche in Italia non mancano i luoghi dove sperimentare la cosiddetta wilderness.
Termine inglese difficilmente traducibile con una parola sola (selvaggità, ha suggerito qualcuno), la wilderness è la misura in cui un luogo è selvaggio, ma anche il luogo stesso. Parliamo della natura allo stato selvaggio e al tempo stesso di uno stato d’animo, l’esperienza di chi in questa natura totalizzante si immerge. Con questo termine si indicano le porzioni di spazio incontaminato di un territorio: a voler essere scrupolosi, in questo senso la wilderness italiana non esiste perché non ci sono aree del Paese del tutto prive di interventi antropici. Tuttavia, come racconta bene Valentina Scaglia nel suo libro Wilderness in Italia, esistono parentesi felici in cui l’intervento dell’uomo è lontano dalla vista o comunque non incide sulla natura in modo significativo. Sono in genere le cime, i versanti scoscesi, le pareti e i valloni ripidi delle montagne, luoghi dove nessuno va mai, neppure i pastori, perché troppo scomodi e tutto sommato improduttivi. Sono le parti più remote dei grandi boschi alpini o appenninici, le falesie e le calette rocciose di alcuni tratti della costa sarda, calabrese o cilentana in Campania, angoli raggiungibili soltanto a piedi o dal mare.
Le aree italiane in cui si può fare esperienza di wilderness si trovano quindi nei luoghi scomodi da raggiungere perché non serviti da strade, o troppo lontani anche per arrivarci con un sentiero. Non è la wilderness americana né quella asiatica, non è l’outback australiano o il cuore dell’Africa. Parliamo di ritagli di selvaggità, fazzoletti di terra grandi quel tanto che basta a dare l’idea della solitudine e dello smarrimento. Camminare in questi luoghi è il modo migliore per staccare completamente dalle apprensioni del quotidiano e, come avrebbe detto Thoreau, assaggiare la vita ridotta ai termini più semplici.
Aspromonte
Alcune montagne sono avvolte da un alone di mistero che le tiene un po’ al margine della scena, per così dire. La scena dell’alpinismo sicuramente, ma anche quella dell’appenninismo e dell’escursionismo in generale. Sono montagne percepite come distanti, desolate, prive di interesse quando non addirittura sconosciute. Una di queste è il gruppo dell’Aspromonte. La sua posizione, nell’estremo sud della Calabria, ha contribuito a tenerlo lontano dalle rotte dei camminatori di montagna. E la sua cattiva fama, legata alla drammatica stagione dei sequestri ’ndranghetisti, certo non ha aiutato. Insomma pure chi ne ha sentito parlare e sa collocarla con sicurezza sulla carta geografica spesso su questa montagna non ci è mai stato. E ovviamente ha fatto male, visto che è un posto magnifico. Non soltanto perché i tempi dei sequestri appartengono ormai al passato, ma proprio perché si tratta di un luogo bello, uno degli ultimi angoli d’Italia dove trovare la tanto anelata wilderness.
L’Aspromonte è un nervo di roccia che dalle Serre Calabre si allunga verso sud. Il suo limite settentrionale è il passo della Limina, dal latino limen, che vuol dire appunto limite, confine. Da lì in giù è tutto un susseguirsi di bastioni rocciosi fatti perlopiù di gneiss, una roccia antichissima. In questa parte di Calabria l’Aspromonte termina quasi di colpo, centocinquanta chilometri più a sud, e si getta nel mare tra lo Ionio e lo stretto di Messina.
Nella sua porzione meridionale la Calabria è praticamente fatta solo di Aspromonte: da una parte e dall’altra i versanti della montagna si precipitano ripidi e c’è subito la costa. I corsi d’acqua non hanno lo spazio, e neppure il tempo, per diventare fiumi. Sono fiumare, torrentoni che si fanno vorticosi durante le piene ma che per gran parte dell’anno restano aridi letti di ciottoli, serpentoni chiari poggiati su un paesaggio solitamente brullo e scuro. Nella stretta fascia tra la montagna e il mare, le fiumare portano il messaggio di un entroterra selvaggio e solitario, poco conosciuto persino agli stessi calabresi.
► Il sentiero del Brigante
Questa montagna dimenticata è però ben nota ai pastori, che ne conoscono le valli, i boschi e soprattutto le radure erbose che utilizzano come pascoli. Ed è nota ai camminatori, che da sempre la amano e da qualche decennio hanno scommesso sul suo valore per così dire sentieristico.
Alla fine degli anni ’80 il Gruppo escursionisti d’Aspromonte cominciò a lavorare a un progetto di recupero dei sentieri e ha tracciato un lungo itinerario che percorre tutto il massiccio seguendone il lungo crinale, da sud a nord, cioè da Gambarie fino all’affaccio sulle Serre Calabre. Il percorso è lungo più di centoquaranta chilometri e attraversa alcuni luoghi tra i più selvaggi di questa montagna, toccando anche località significative per la storia d’Italia.
L’itinerario è stato chiamato sentiero del Brigante, per via dei personaggi controversi che spesso hanno frequentato questa e altre montagne dell’Italia meridionale. A partire da Spartaco, il gladiatore ribelle che nel I secolo a.C. capeggiò la più grande rivolta di schiavi della storia romana. La morte di Spartaco è avvolta da un’aura di leggenda e non esistono notizie certe circa le sorti del suo corpo, ma la sua ultima battaglia, quella contro il console Marco Licinio Crasso, potrebbe essersi svolta nella regione all’epoca chiamata Bruzio, cioè proprio nel sud della Calabria. Migliaia di rivoltosi furono catturati e crocifissi, e i pochi scampati alla morte fuggirono sulle montagne. L’Aspromonte avrebbe quindi offerto riparo ai superstiti della famosa rivolta di Spartaco, sicché ancora oggi nelle vene di qualche calabrese potrebbe scorrere un po’ del sangue di quei rivoltosi.
Venendo a tempi più recenti, la vera star di queste montagne è forse Nino Martino detto Cacciadiavoli, un pecoraro vissuto nel Cinquecento e quasi venerato dai calabresi per la sua irruente ribellione verso il padrone. Condannato a morte, riuscì abilmente a evitare l’esecuzione e le sue imprese divennero leggendarie. Da molti fu addirittura ritenuto un santo capace di fare miracoli. Le sue gesta sono ricordate in una celebre canzone popolare calabrese:
Nd’èbbiru alligrìzza chiddu jornu
quandu i giurati cundannatu m’hannu.
Ma si per casu a lu paìsi tornu
chidd’occhi chi arridìru ciangirànnu.
Erano allegri quel giorno / quando i giurati condannato m’hanno. / Ma se per caso al mio paese torno / quegli occhi che risero piangeranno.
L’ultimo brigante dell’Aspromonte è stato Giuseppe Musolino, detto ’U re ’i l’Asprumunti. Attivo a cavallo tra Ottocento e Novecento, è diventato un simbolo della lotta contro le ingiustizie, i soprusi e il malgoverno della Calabria post-unitaria. Nel 1973 il cantautore folk Otello Profazio gli ha intitolato un intero album e nel 1976 Mino Reitano gli ha dedicato la canzone ’U Briganti Musulinu:
Vi cantu li prodizzi e l’operatu
di nu gran personaggiu di ’sta terra,
chi fudi ’ngiustamenti cundannatu
e chi si mise cu lu statu ’n guerra.
Vi canto le prodezze e l’operato / di un grande personag...