1.
Cronologica, biologica, percepita...
tanti tipi di età
Soon I’ll be sixty years old, my daddy got sixty-one
Remember life and then your life becomes a better
[one
I made a man so happy when I wrote a letter once
I hope my children come and visit, once or twice
[a month
Soon I’ll be sixty years old, will I think the world
[is cold
Or will I have a lot of children who can warm me
Soon I’ll be sixty years old
Soon I’ll be sixty years old, will I think the world
[is cold
Or will I have a lot of children who can hold me
Soon I’ll be sixty years old
Lukas Graham, 7 years
L’invecchiamento è un processo biologico, ineluttabile e terribilmente democratico: riguarda tutti, nessuno è escluso. Si invecchia da subito e da subito bisogna imparare a venire a patti con il proprio corpo. Stare dentro il proprio “involucro” richiede fin da piccoli una buona dose di pazienza, capacità di accettazione, una certa autostima, innata per i più fortunati, o realizzata a costo anche di parecchia fatica.
Pure chi non condivide il sogno di un corpo statuario e di un fascino da attori o attrici hollywoodiani deve accettare spesso a fatica di convivere con le trasformazioni che avvengono dentro il proprio “baccello fisico ed esistenziale”.
La vita è un paradosso. Da un lato, c’è la continua immutata certezza del proprio essere così come ci specchiamo ogni giorno, noi, sempre gli stessi; dall’altro, c’è l’altrettanto certa successione di piccole variazioni che accadono in noi.
Abbiamo un’identità che riteniamo solida, ma vivere è cambiamento: cambiamento psicologico, cambiamento nei comportamenti e nelle attitudini. Ma, prima di tutto, cambiamento fisico. Ognuno di noi si trova mille difetti e vorrebbe poter regalare mille variazioni al proprio corpo. Il mix per cui siamo debitori a madre natura, o se vogliamo essere più precisi agli incroci genici dei nostri genitori e dei nostri antenati, ci dovrà accompagnare per tutta la vita. Anche il modo in cui invecchieremo ha molto a che fare con quanto abbiamo ereditato.
Possiamo condizionare qualcosa degli aspetti estetici che non ci piacciono o provare anche a rivoluzionare la realtà che non accettiamo attraverso la chirurgia, o attraverso estenuanti fatiche dietetiche e inenarrabili sacrifici sportivi. I risultati potranno esserci: dal potenziamento muscolare alla perdita di peso, all’addolcimento degli zigomi. Tuttavia, non tutto di noi si può contrattare con tecniche o modalità di esercizio. Pensiamo, ad esempio, all’altezza: tranne alcuni casi limite, che possono prevedere il trattamento chirurgico con tecniche di allungamento degli arti (dal successo discutibile), si tratta di un dato non modificabile.
Bisogna semplicemente imparare ad accettarsi: da questo punto di vista siamo ostaggi del fato (della natura, dei geni). Con quello che siamo, dobbiamo e dovremo fare i conti. Se questo vale in ogni fase della vita, è nei momenti di cambiamento che questo processo di accettazione può risultare più faticoso. Pensiamo all’adolescenza, e alle sofferenze che spesso comporta il riconoscersi in un corpo che cambia e che non è quello sognato.
Un altro momento delicatissimo è quello in cui si prende atto di non essere più nel fiore degli anni. L’invecchiamento fa paura, mette di fronte ai propri limiti, impone cambiamenti di abitudini e di possibilità. Si fa strada la consapevolezza di un oggettivo peggioramento del sé, talora difficilmente progettabile oltre che accettabile. La paura di invecchiare è anche legata alla preoccupazione di un deterioramento della vita di relazione: gli altri cambieranno atteggiamento nei miei confronti ora che sto diventando vecchio?
Simone de Beauvoir, in un celebre saggio pubblicato nel 1970 (La vieillesse, tradotto in italiano da Einaudi con il titolo La terza età), esprimeva uno sguardo sconfortato sul modo in cui gli anziani sono considerati nell’Occidente contemporaneo: “I vecchi sono degli esseri umani? A giudicare dal modo con cui sono trattati nella nostra società, è lecito dubitarne. Per questa società, essi non hanno le stesse esigenze e gli stessi diritti degli altri membri della collettività: a loro si rifiuta anche il minimo necessario. Gli anziani vengono deliberatamente condannati alla miseria, ai tuguri, alle malattie, alla disperazione”.
Senza nulla togliere alla grandezza dell’autrice, voglio subito dire che – pur condividendo molte riflessioni espresse in quel saggio, e ritenendo legittima la preoccupazione sulla possibile marginalizzazione degli anziani – non penso che quella descritta sia la condizione diffusa della terza età. Per fortuna vedo – perlomeno oggi, in Italia – un quadro diverso, più vario e più ricco.
Ma in ogni caso: quando si diventa vecchi? C’è un’età precisa per tutti? E che cosa intendiamo esattamente per “età”? È necessario fare innanzitutto un po’ di chiarezza con le parole.
In primo luogo c’è l’età cronologica. È quella che abbiamo oggettivamente e che deriva dalla nostra data di nascita. L’età cronologica non è contrattabile, non è scelta, ed è assolutamente da accettare, non ci sono alternative percorribili. L’età cronologica è l’equivalente del nostro marchio di fabbrica (per fortuna ci viene risparmiata la data di scadenza!).
Pur essendo un dato oggettivo, anche l’età cronologica, quando avanza, si presta a due ordini di diverse interpretazioni: da un lato, è una sorta di trofeo che prende valore anno dopo anno (quante volte nel corso della vita abbiamo sentito rivendicare, da parte di persone più mature di noi: “Io sono nato prima di te!” oppure “quando avrai la mia età capirai!”). Dall’altro lato, l’età cronologica che avanza può essere un dato di cui ci si vergogna, da tenere nascosto (le abitudini e le regole del galateo cambiano con il tempo, ma ancora oggi ci si sente dire, ad esempio, che non è bene chiedere l’età alle signore!). Inutile dirlo: l’età cronologica si presta anche ad interpretazioni sociali derivanti dall’esperienza più o meno positiva vissuta da ognuno.
In parte differente dall’età anagrafica è l’età biologica. È, potremmo dire, l’età del nostro contenitore, quella dei nostri organi. Dipende certamente anche da quella cronologica, innegabile e incontrovertibile, ma non è completamente sovrapponibile ad essa perché risente già da ragazzi, poi da adulti, e sempre più mano a mano che invecchiamo, dell’uso che abbiamo fatto del nostro corpo. L’età biologica è legata alle nostre abitudini, all’ambiente in cui viviamo, ai nostri stili di vita, oltre che a una certa dose di casualità e – per una percentuale intorno al 25% – alla genetica. Ovvero dalla “scelta” dei nostri genitori, quindi dalla favorevolezza del genotipo che si estrinseca nel fenotipo, si direbbe in termini scientifici. Se l’età cronologica è un destino che ci portiamo dietro, l’età biologica dipende almeno in parte dalle nostre scelte, perché riguarda i comportamenti più o meno virtuosi che assumiamo nel nostro vivere quotidiano: un’alimentazione sbagliata, il consumo di fumo o l’eccesso di alcol, cattive abitudini legate al sonno, la pratica sportiva, insomma lo stile di vita complessivamente inteso può determinare età biologiche diverse tra persone che condividono la medesima età cronologica.
Fin qui i dati di (dura) realtà. C’è poi quello che vediamo, o che vogliamo vedere: l’età percepita rappresenta ciò che noi pensiamo di noi stessi, l’aura che ci sembra di cogliere quando ci specchiamo nelle vetrine o ci ammiriamo in una foto recente, o semplicemente l’età, diciamo valoriale, che ci sentiamo addosso. Tutto ciò ha ovvie implicazioni psicologiche e dipende dall’autostima e dalla considerazione che abbiamo di noi stessi; certo l’età percepita dipende dal nostro aspetto esteriore, dalla fisicità, intesa in senso lato, materiale ed espressa nella nostra corporeità, che sfocia poi anche nei comportamenti. Ma ha a che fare anche con la nostra cultura, con i modelli proposti dal tempo che viviamo. L’età percepita influenza i nostri vissuti e i rapporti con gli altri, anche in termini di affettività. E va spesso considerata nel confronto con quelli che riteniamo i migliori tra i nostri coetanei, quegli evergreen che pur avendo i nostri stessi anni sulle spalle da sempre appaiono più giovani e performanti. Unica consolazione in questi confronti perdenti è comunque l’inesorabilità del passare degli anni... anche per loro!
L’età percepita (gli anni che “sento” di avere) non sempre coincide con quella dimostrata, ovvero con il giudizio che gli altri hanno di noi. L’uomo è un animale sociale, secondo la celeberrima definizione di Aristotele, e non stupisce quindi che per un tratto così importante nella costruzione dell’identità il giudizio degli altri sia importante quanto il proprio.
La grande verità è che il modo in cui percepiamo noi stessi, a prescindere da come ci sentiamo, da come ci vediamo, viene influenzato dall’esterno. Possiamo difatti essere più o meno sensibili al percepito degli altri, ma come animali sociali esistiamo, viviamo, dentro gruppi e quindi risentiamo dei giudizi e dei pregiudizi degli altri. In genere noi facciamo di tutto per essere sempre considerati positivamente. Quando sentiamo che l’interesse nei nostri confronti inizia a scemare, svanisce una parte della nostra essenza vitale. Noi siamo con gli altri ed esistiamo in senso pieno perché ci sono gli altri, le nostre percezioni sono dipendenti da quelle degli altri. Insomma, reale, presunta o percepita che sia, l’età è un marchio indelebile del nostro esistere. E l’età che avanza è un tratto che si cerca di nascondere, di ritardare, di blandire, in molti modi.
Pensiamo ad esempio alle tinture di capelli, alla chirurgia estetica, ai tentativi di combattere la calvizie, alle cure di bellezza... sono tutti tentativi di sfuggire al tempo, di resistere e di mantenere le stesse connotazioni fisiognomiche che avevano fatto di noi quella specifica persona.
Ma al di là dei canoni estetici che prevedono la (presunta) bellezza esteriore associata sempre e comunque alla giovi...