La maschera democratica dell'oligarchia
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La maschera democratica dell'oligarchia

Un dialogo

  1. 144 pagine
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La maschera democratica dell'oligarchia

Un dialogo

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Cosa rimane della democrazia se all'opera ci sono oligarchie molto potenti, molto remote, sempre più decisive? «Oggi viviamo in un tempo in cui la democrazia – come principio, come idea, come forza legittimante il potere – è fuori discussione. Pertanto, se l'oligarchia s'instaura nei nostri regimi, deve farlo in forme democratiche; deve in qualche modo mascherarsi; non può presentarsi apertamente come usurpazione di potere. Quindi, si pone la questione della sua identificazione dietro le apparenze e la necessità di metterne a fuoco la sostanza.»

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122099
Argomento
Economia

I. All’origine dell’oligarchia

Preterossi Questo dialogo nasce da un’inquietudine rispetto a una tendenza che sembra caratterizzare i sistemi politici contemporanei e che potremmo definire post-democratica. Ci chiederemo qui se non siamo in presenza di una strutturale torsione oligarchica degli assetti del potere contemporaneo, non solo in Italia, ma anche in Europa.
Dopo la Costituzione del 1948, per decenni si è parlato di democrazia da completare, da realizzare appieno. Poi, a un certo punto, nell’ultimo ventennio, il tema delle oligarchie è riemerso con forza. Oggi siamo di fronte a una tensione: da un lato, la politica ufficiale (ma in generale la classe dirigente, che non è solo quella politica) appare sempre più chiusa in un bunker, assediata, all’affannosa ricerca di soluzioni, di mediazioni che non arrivano; dall’altro lato, altri soggetti, che si collocano fuori dalla politica tradizionale, mirano a intercettare la rabbia di una massa senza rappresentanza, che non si riconosce nel potere democratico e lo accusa di essere diventato oligarchico.
Di fronte a questa confusione, occorre tornare ai fondamenti per tentare di capire che cosa significa oligarchia, che cosa significa democrazia, e a partire da ciò cercare di individuare le ragioni che hanno portato a mettere in discussione quel che ci sembrava ovvio – e che tuttora nel dibattito pubblico e nel linguaggio dei media si dà spesso per scontato – ma che, proprio perché rischia di diventare una retorica, fa problema, cioè la promessa implicita nella democrazia. Dunque, oggi le oligarchie minacciano la democrazia allo stesso modo di sempre (quindi «niente di nuovo sotto il sole») oppure in un modo nuovo e ancora più allarmante?
Zagrebelsky Cominciamo con un tentativo di definizione elementare, a partire dall’etimo della parola. Oligarchia è il governo dei pochi. Come tale è un sistema di governo che concentra il potere in alcuni (i pochi) e crea una sperequazione rispetto agli altri (i molti). Dal punto di vista dell’ideale democratico, essa si basa su una sottrazione, potremmo dire un furto, da parte di pochi a danno di molti. Ciò, di per sé, crea un cortocircuito rispetto all’idea democratica. Sto parlando di idee, di categorie politiche, non della realtà, la quale mostra sempre la tendenza dei «molti» a ridursi a «pochi», secondo quella che è stata definita la «ferrea legge delle oligarchie».
Quando, oggi, parliamo di oligarchia, lo facciamo partendo – consapevolmente o inconsapevolmente – dal paradigma democratico e quindi la parola assume una valenza negativa perché contraddice il nucleo essenziale di tale paradigma. Ma, di per sé, il «governo dei pochi» sta, nella tipologia delle forme di governo, a mezzo tra il «governo di uno» e il «governo di tutti» o dei molti (Luciano Canfora spiegherà come si configurava la distinzione nell’Atene del V-IV secolo a.C.).
Il valore della parola cambia, quando si passa dal dato puramente quantitativo (non c’è ragione evidente per preferire i tutti, ai pochi o all’uno) a quello qualitativo. In tal caso, oligarchia si contrappone ad aristocrazia, il governo dei migliori: migliori contro peggiori (gli oligarchi), sul presupposto che i migliori siano meno numerosi dei peggiori, ragione per la quale l’aristocrazia è una forma (la migliore) di oligarchia.
Oggi, tuttavia, viviamo in un tempo in cui la democrazia – come principio, come idea, come forza legittimante il potere – è fuori discussione. Pertanto, se l’oligarchia s’instaura nei nostri regimi, deve farlo in forme democratiche; deve in qualche modo mascherarsi; non può presentarsi apertamente come usurpazione di potere. Quindi, si pone la questione della sua identificazione dietro le apparenze e la necessità di metterne a fuoco la sostanza.
Ora, che l’oligarchia assuma le forme della democrazia non è senza significato. Che ci si trovi in una democrazia oligarchica o in un’oligarchia democratica, al netto della contraddizione sostanziale, significa pur sempre qualche cosa. Non dobbiamo pensare che si tratti di un puro inganno: l’oligarchia che per affermarsi ha bisogno di forme democratiche quanto meno non può adottare strumenti di violenza esplicita per supplire al deficit di consenso, e deve mantenere ferme le procedure democratiche, sebbene cerchi di svuotarle di senso dall’interno. E se le procedure restano ferme, c’è sempre la possibilità di rianimarle, di ridare al guscio il suo contenuto. È comunque significativo che, parlando delle oligarchie nel nostro tempo e nel nostro paese, si possa e si debba aggiungere «oligarchie in forma democratica» (non direi oligarchie democratiche, perché questo creerebbe una contraddizione).
Passando all’oligarchia come concentrazione del potere, chiediamoci che cosa è oggetto del potere oggi. Qual è la materia della politica oligarchica nel nostro tempo. A mio parere, la materia della politica oligarchica è costituita dal denaro e dal potere, e dal loro reciproco collegamento: il denaro alimenta il potere e il potere alimenta il denaro. L’uno è strumento di conquista, di garanzia e di accrescimento dell’altro. Vorrei richiamare l’attenzione su questo punto, che secondo me è il segno più caratteristico dell’epoca in cui viviamo. In altri tempi, si poteva dire che potere e denaro fossero mezzi, non fini. La politica serviva ad altre cose, per esempio a rovesciare i rapporti di classe o a equilibrarli, a promuovere la cultura, ad alleanze e guerre di espansione, alla conquista di altri paesi e alla «civilizzazione» del proprio o di altri popoli. Il denaro, a sua volta, veniva considerato uno strumento, per cose buone o per cose cattive, ma in ogni caso era finalizzato a qualcos’altro; gli Stati drenavano denaro con il prelievo tributario per fare guerre, per espandere i confini, per la gloria delle case regnanti, per alimentare lo splendore delle corti regie, e così via. Il denaro che produce denaro, come accade tipicamente nell’usura, è stato nei secoli oggetto di condanna o, almeno, di sospetto. Ma con la finanziarizzazione dell’economia, per di più in dimensione mondiale, il meccanismo del denaro che produce se stesso, il denaro investito al fine di produrre altro denaro, come nell’albero degli zecchini di Collodi, ha finito d’essere un mezzo ed è diventato un fine. Siamo in pieno in un circolo vizioso. Viviamo stretti da un serpente che si morde la coda, l’uroboro del mito che, per sopravvivere, fa terra bruciata attorno a sé.
Se volessimo cercare una definizione di nichilismo, cioè di assenza di valori e fini nella vita collettiva, potremmo dire così: il nichilismo si ha quando ciò che è mezzo diventa anche fine. Allora, l’obiettivo ultimo è la garanzia dell’alleanza tra un mezzo e un fine che è anche il mezzo: potere per il denaro e denaro per il potere. Tutto ciò dà luogo alla concentrazione del potere e della ricchezza in gruppi ristretti, autoreferenziali, insicuri di sé, assediati dal mondo degli esclusi, rinchiusi in ghetti esclusivi, dorati forse, ma certamente artificiali, talora perfino militarizzati. La tendenza delle oligarchie del nostro tempo è un progressivo chiudersi su se medesime. La loro sopravvivenza è legata alla chiusura dei suoi confini, con le conseguenze che vediamo nelle nostre società: impoverimento generale, emarginazione sociale, riduzione dei diritti dei più, scomparsa del lavoro o sua dislocazione dove costa poco o nulla. Una volta, gli imprenditori – i «capitani d’impresa» che si ispiravano a una seria etica imprenditoriale, all’etica calvinista – investivano la ricchezza accumulata nelle proprie imprese, per renderle competitive sul mercato, per creare lavoro e sviluppo. Avevano i loro scopi da imprenditori.
Un’ultima considerazione in questa prima rassegna dei caratteri dell’oligarchia, rispetto alla democrazia. La democrazia è il regime dell’uguaglianza, dell’isonomia, della legge uguale per tutti; l’oligarchia è il regime del privilegio, della legge diversa per coloro che appartengono alla cerchia del potere. È per questo che l’oligarchia del nostro tempo, non potendosi dichiarare per quello che effettivamente è, deve mimetizzarsi, rendersi invisibile, nascondere la sua faccia. Deve vivere nell’illegalità perché, per sopravvivere, non può piegarsi alle regole generali che valgono per tutti. Se vi si piegasse, non sarebbe più oligarchia. Da qui le violazioni e le elusioni della legge e, talora, quando non se ne può fare a meno, anche l’illegalità legalizzata, cioè la creazione di leggi ad hoc per gruppi, persone, interessi particolari. In ogni caso si tratta di illegalità, anche se l’illegalità – cosa massimamente scandalosa – viene sancita in legge. L’illecito, il delitto legalizzati non sono legalità, ma perversione della legalità, nel senso che essa deve avere in democrazia.
Preterossi Queste tendenze, questi rischi che Gustavo Zagrebelsky mette in evidenza sono solo di oggi, oppure vengono da lontano, rappresentano una storia di lunga durata, visto che già Aristotele sosteneva che la democrazia è il regime in cui governano i poveri? In fondo, questa apertura della democrazia ha sempre fatto problema: ci sono state delle parentesi storiche nelle quali si è riusciti a dare spazio ai poveri o agli esclusi (o meglio se lo sono preso), però fondamentalmente c’è una lunga durata dell’oligarchia.
Canfora Sì, questo è abbastanza acclarato. Il mio compito, spesso, è quello di dire: «succedeva già molto tempo fa», e quindi mi piego volentieri a fare da indicatore di una lunga tendenza, che viene nobilitata nel momento stesso in cui si dice che risale a un tempo remoto. Ma farei una precisazione lessicale, innanzitutto. È giusto parlare di oligarchie, ma è una definizione sostanziale, de facto, perché le oligarchie non si autodefiniscono così. Tentano, anzi, di dare di sé una definizione più accettabile, per esempio si autogratificano come aristocrazie. Il concetto di aristoi, i migliori, i più bravi, i più competenti, i più preparati, dovrebbe avallare il fatto che essi detengano il potere. Ovviamente chi non ci sta addita quel tipo di potere come oligarchia.
Nella realtà arcaicissima, remota, della città greca – che è molto piccola, anche quando si tratta di città di varie migliaia di cittadini –, chi comanda e detiene il potere, escludendo una parte della cittadinanza, riducendola a una posizione di cittadinanza incompleta, non si definisce oligarca, ma al contrario dice: provvediamo a tutti perché siamo i più competenti. Questo meccanismo è elementare, e facilmente contestabile: la storia di secoli e secoli sin dall’antichità più remota è caratterizzata dallo scontro sanguinoso intorno a questa dominanza, cui reagisce di solito un gruppo sociale, abbastanza esteso numericamente, che nel mondo antico si chiamava demos, popolo, e che a sua volta però escludeva tantissimi, i «non uomini», sterminate masse di schiavi dal cui lavoro dipendeva anche il benessere dei cosiddetti poveri.
Si diceva, nell’antica Atene, che non c’è un uomo così povero che non abbia almeno uno schiavo e talora più d’uno, quindi la stessa nozione di povertà in quel caso era da storicizzare. Aristotele afferma, in un passo famoso della Politica, che la democrazia è il governo dei poveri, dei non possidenti, anche quando essi sono numericamente di meno dei ricchi, e l’oligarchia è il governo dei ricchi, anche quando essi sono maggioranza. Poi aggiunge che solitamente i poveri sono più numerosi. Sembra una battuta di spirito, ma ha un senso nella città antica, che si fonda sullo schiavismo, perché effettivamente i numeri – tra non possidenti, piccoli proprietari, grandi proprietari – determinavano un equilibrio tutt’altro che certo. Quel linguaggio aristotelico è il fondamento di tutti i linguaggi politici successivi; la sostanza però si trasforma. Il tempo nostro, nei paesi che si rassomigliano più o meno l’uno all’altro per affinità di struttura, di composizione sociale, di cultura ecc., vede una singolare distribuzione delle forze. Va da sé che il meccanismo della cittadinanza diffusa è dato per assodato, anche se ormai arrivano i non cittadini dai mondi esterni, i quali ci creano anche un problema delicatissimo che assomiglia a quello degli antichi ateniesi alle prese con i loro schiavi. In questa accettazione di una cittadinanza diffusa, e quindi apparentemente di un potere diffuso, si colloca la realtà, non visibile immediatamente ma operante, di una serie di oligarchie legate al denaro, al potere, a posizioni che non sono immediatamente di vantaggio economico, ma sono comunque di vantaggio sociale. Queste varie oligarchie dirigono, per così dire, la cosa pubblica in posizione retroscenica, e da ultimo, nella realtà a noi più vicina, si dislocano anche geograficamente lontano, in maniera da non essere direttamente attingibili, da una diretta contestazione, caratteristica invece dei conflitti negli Stati nazionali. Dunque, una situazione molto difficile, in quanto i due piani si incontrano soltanto nell’analisi: il conflitto politico visibile è tra forze che sanno di dipendere da chi davvero detiene il potere. La consapevolezza di ciò è già importante, è un passo avanti rispetto alla inconsapevole sudditanza.
Queste oligarchie, in passato, hanno anche vantato una particolarità, quella di essere detentori del potere economico ma anche di competenze specifiche alle quali si deve la loro prevalenza. Nel momento in cui dal capitano d’industria si è passati al potere bancario globale, anche questo tocco di nobiltà è venuto meno. Quindi la domanda che si pone drammaticamente è perché il sistema debba ruotare intorno al benessere di un potere essenzialmente fondato sulla speculazione e sulla contemplazione della ricchezza. Una tale situazione pone alla politica problemi nuovi, compreso quello di stracciare il velo di una tale situazione, anziché assecondarla, e credo che nel nostro presente, nella vita concreta che noi conduciamo, il conflitto in atto sia proprio questo: battersi affinché il suddito ridivenga cittadino.
Zagrebelsky Parli di «forze retrosceniche». Che la politica «sulla scena» delle istituzioni sia una messinscena ...

Indice dei contenuti

  1. Nota dell’Editore
  2. I. All’origine dell’oligarchia
  3. II. L’Europa dei tecnocrati
  4. III. Oligarchie italiane
  5. IV. Tutta colpa del populismo?