1.
Istantanea della famiglia
che siamo diventati
Se un adolescente degli anni Cinquanta, in viaggio nel tempo, si trovasse di colpo
davanti a un suo coetaneo di oggi, gli riuscirebbe difficile capire che genere di
rapporto vive con i suoi familiari. Inciamperebbe in una serie di fraintendimenti
e in qualche shock. Si stupirebbe, prima di tutto, dell’assenza di fratelli e sorelle.
Rimarrebbe di sasso nel vedere genitori e figli vestiti quasi allo stesso modo, con
lo stesso stile. Ma forse il trauma maggiore gli verrebbe dal constatare la mancanza
di formalità nei rapporti tra di loro, dall’osservare una grande complicità su argomenti
– persino quelli che riguardano il sesso – che a lui erano assolutamente vietati,
perché rappresentavano un tabù. Forse si convincerebbe di essere piombato in una famiglia
davvero singolare. Ma sbaglierebbe.
La nostra è una famiglia in cui si sta sempre insieme. Si mangia tutti assieme, si
guarda insieme la tv, i nostri figli ci seguono quando si va fuori con gli amici,
si viaggia con loro fin da quando sono molto piccoli, si parla di tante cose in loro
presenza. A tavola noi genitori discutiamo con una certa libertà tanto di fatti quotidiani,
quanto di problemi di lavoro che ci coinvolgono direttamente. Li facciamo spesso assistere,
addirittura partecipare, ai nostri contrasti coniugali, inducendoli a volte a prendere
posizione a favore dell’uno o dell’altro.
La condivisione del quotidiano sembra essere il tratto distintivo della famiglia d’oggi.
Aspetto, questo, al quale hanno contribuito non poco due elementi: nascono pochi bambini
e l’età in cui si diventa genitori si è molto elevata. Le statistiche ci dicono che
l’indice di natalità è 1,3 per ogni donna cosicché, nella maggior parte dei casi,
il nucleo familiare è composto dai genitori e da un figlio – due al massimo. In media
le donne hanno il primo figlio attorno ai 32 anni, dopo averci riflettuto a lungo.
È sotto gli occhi di tutti il fatto che ci si sposa di meno, si convive di più, e
le unioni si dissolvono con maggiore facilità. E, comunque, la scelta di vivere insieme
avviene molto più tardi rispetto al passato. In media, nel 70% dei casi i nostri figli
vivono con noi fino ai 30 anni. L’indipendenza non rappresenta più il loro obiettivo
primario. Un’indagine Istat mostra che il bisogno di autonomia riguarderebbe solo
il 28% degli intervistati, dato confermato dalla risposta alla domanda «perché continui
a vivere in famiglia»: il 44% dei giovani intervistati risponde che in famiglia «si
sta bene, si ha ugualmente la propria libertà» e, come se non bastasse, il 43% dei
giovani pensa che una buona ragione per staccarsi dalla famiglia è il matrimonio.
Curiosamente, a voler rimanere con i genitori sono soprattutto i giovani di sesso
maschile: il 7% dichiara di «non sentirsela di vivere da solo». Mentre il 47% afferma
che sono le difficoltà economiche a ostacolare la loro fuoriuscita dalla famiglia.
Di questi, il 23% non se ne va da casa perché sta ancora studiando.
Ma c’è di più.
Sembra vacillare anche la veridicità dell’incipit con cui Tolstoj apre il suo grande romanzo Anna Karenina: «Le famiglie felici si rassomigliano tutte. Ogni famiglia infelice, invece, lo è
a modo suo». Pare non sia più così. Non sembra si possa più sostenere che tutte le
famiglie felici si assomigliano fra loro. Da allora le famiglie, felici o no, sono
cambiate molto. E non semplicemente perché la coppia dei genitori non è più quella
tradizionale, col padre capofamiglia e la madre che si occupa dei figli e della casa.
Ma per la geometria variabile che la famiglia può assumere nel tempo: famiglie che
si formano da nuove relazioni dei genitori in cui convivono i figli nati da precedenti
unioni; genitore single – padre o madre; famiglie omoparentali.
E non basta.
Diventiamo genitori quando ormai siamo quasi fuori dell’orizzonte riproduttivo e ci
ritroviamo alla soglia dei cinquant’anni con uno o due figli adolescenti su cui siamo
totalmente concentrati. Non siamo troppo diversi da loro nei modi e nel vestire; sembriamo
macchine infantilizzate di produzione del fonema «sì», che si lasciano interrompere,
strattonare, martirizzare da una prole senza più regola che non sia quella di sentirsi
– e di fatto essere – il centro del mondo e suo primo motore.
2.
Essere adultescenti
Ricordo la prima volta che entrò nel mio studio la famiglia di Antonella, una adolescente
di 16 anni afflitta da seri problemi alimentari. La ragazza indossava dei fuseaux
neri e una minigonna. Il padre portava una felpa, azzurra come gli occhiali. La madre,
sui cinquant’anni, aveva un aspetto giovanile, sportivo, e indossava una t-shirt bianca
con una scritta nera: «te lo juro mi amor, el mecanico es solo un amigo».
Sottolineo questi particolari perché la curiosa conformità tra genitori e figli nel
modo di abbigliarsi è uno degli indizi più immediati e significativi della percezione
che gli uomini e le donne hanno di sé stessi. A osservarli, è come se l’adolescenza
non fosse più semplicemente una fase della vita, una fase misurabile con strumenti
cronologici, che apre la strada al mondo adulto. E in effetti non è più così. L’adolescenza,
in alcuni casi, può essere anche una mentalità, un modo di atteggiarsi, e non solo
di pensare, che può permanere a lungo, anche dopo la fine della giovinezza. Si tratta
di una maniera per cristallizzare il tempo che scorre. Un sintomo di chi non ha alcuna
intenzione di invecchiare, di chi vuole rimanere giovane ad ogni costo. L’adolescenza
come ossessione permanente di chi, terrorizzato dalle rughe o dai fianchi appesantiti,
combatte l’invecchiamento fisico, rimodellando continuamente il proprio corpo. Gli
adulti che non vogliono crescere, d’altronde, rappresentano una tipologia sempre più
frequente nelle ultime generazioni. Tanto che l’Oxford Dictionary ha coniato il neologismo «adultescente», ovvero «una persona di mezza età i cui vestiti,
interessi e attività sono tipicamente associati alla cultura giovanile».
Quando si tratta di single o di coppie che hanno rinunciato ad avere figli la cosa
non ci stupisce. In questi casi ci sembra che l’eventuale desiderio di trovare un
compagno o semplicemente la mancanza di responsabilità possano giustificare il desiderio
di eternare la giovinezza, di spingerla oltre i limiti della natura. Ma che cosa succede
quando sono i genitori a travestirsi da Peter Pan? Quali conseguenze si producono
nel rapporto con i figli? Non si tratta di un’abdicazione alle proprie responsabilità
nei loro confronti. Al contrario. Ciò che sembra accomunare tante famiglie di oggi
è proprio la cura dei figli. Spasmodica. Dove corre quel cinquantenne che, sul motorino,
fende il traffico come un ragazzino? Nuoto, danza, musica, inglese: dove sta accompagnando
suo figlio?
L’idea di «famiglia adolescente» nasce dall’esigenza di fotografare la mutazione antropologica
che ha trasformato le nostre famiglie dall’interno. Ragazzi e adulti sembrano insensibili
alle differenze che finora li avevano sempre caratterizzati. Tutti ugualmente impegnati
ad inseguire i propri desideri, a comunicarli e a immortalarli sui social network.
E così i genitori accompagnano i loro figli dalla nascita fin quasi alla soglia dei
trent’anni, attraversando insieme le varie tappe della vita, ma rimanendo tutti invischiati
in una sola e identica fase: l’adolescenza.
3.
Come fossimo un sol corpo
L’unica mia consolazione quando salivo a coricarmi, era che la mamma sarebbe venuta a darmi un bacio quando sarei stato a letto. Ma durava tanto poco questa buonanotte, e lei discendeva tanto presto! Il momento in cui la sentivo salire, e poi nel corridoio udivo passare il fruscio leggero della sua vestaglia di mussolina blu ornata con treccioline di paglia pendenti, finiva con l’essere per me un momento doloroso: annunciava il momento successivo, in cui, ridiscendendo, mi avrebbe lasciato. Di modo che questa buonanotte tanto amata, arrivavo ad augurarmi che giungesse il più tardi possibile, perché quella dilazione che avevo, quando la mamma non era ancora venuta, potesse prolungarsi. A volte, quando, dopo avermi baciato, apriva la porta per andarsene, avrei voluto richiamarla, dirle ‘baciami ancora una volta’, ma sapevo che il suo viso avrebbe assunto un’espressione di dispiacere. Mio padre, che trovava questi riti assurdi, s’irritava alla concessione ch’ella faceva alla mia tristezza ed alla mia agitazione salendo a portarmi quel bacio di pace3.
Una pagina come questa, oggi, sarebbe impensabile. Perché nessuno, o quasi, fa esperienza quotidiana delle sensazioni appena descritte. Gli scrittori di oggi sarebbero costretti a inventarla di sana pianta. Non era così per Marcel Proust, l’autore del passo appena citato. Proust, da grande scrittore qual era, riesce a restituire in poche righe il legame tra genitori e figli, tutto giocato un tempo sulla distinzione tra due mondi. Una distinzione che spesso poteva diventare distanza, separazione e incomunicabilità. Ma ciò che conta qui è il fatto che fino a cinquant’anni fa sarebbe stato impensabile unificare il mondo dei genitori e il mondo dei figli. Questi erano due universi paralleli, che mai e poi mai avrebbero potuto o dovuto confondersi.
E se tra genitori e figli la distanza era così netta, era naturale che tra loro non si creasse alcuna intimità. Un tempo era inimmaginabile, per i ragazzi, confessare ai genitori i loro sentimenti, le loro esperienze più personali. Erano faccende troppo private e tra genitori e figli si stabiliva un tacito ma convinto accordo ad evitarle. Questa condizione aveva molti limiti, certo: la rigidità dei genitori causava conflitti talvolta molto duri, spesso interiorizzati; tuttavia, aveva anche qualche pregio, per esempio quello di favorire i figli nella costruzione di una propria autonomia. I figli individuavano i propri obiettivi forse anche nella fatica per raggiungerli, non di rado per imporli contro le resistenze della famiglia. Il distacco dai genitori poteva essere più o meno traumatico, ma restava in qualche modo naturale, spontaneo.
Nelle famiglie con più figli, inoltre, il mondo a parte era plasmato dalla complicità tra fratelli e sorelle. Loro, i figli, condividevano esperienze e cementavano un’amicizia lontana dalla presenza e dal controllo degli adulti, nella consapevolezza di un’irriducibile diversità dai propri genitori. Se non ci fosse stato questo mondo a parte, questa condivisione tra fratelli e sorelle, una bella fetta della letteratura per l’infanzia non sarebbe stata neanche immaginata: pensiamo, per fare solo due esempi, a Peter Pan e Wendy di Barrie o alle Cronache di Narnia di Lewis.
Ma i mondi a parte erano possibili perché si costruivano nella vita di tutti i giorni. Quando il padre tornava a casa, il tempo per stare insieme non era mai troppo lungo. La sera si mangiava insieme e magari si trascorreva un breve dopocena. Con l’introduzione della tv, alla fine degli anni Cinquanta, era la fine di Carosello a far scattare l’allarme. Sulla sigla conclusiva, bastava uno sguardo di nostro padre per mettere fine a ogni rimostranza. E non c’erano margini di trattativa: i piccoli dovevano andare a letto. Da quel momento in poi cominciava il tempo dei grandi.
Oggi non è più così. Viviamo continuamente spalla a spalla. Non è infrequente che uno dei genitori si stenda sul letto accanto al figlio e si addormenti con lui, oppure che il figlio vada a dormire nel letto dei genitori e che a un certo punto della notte il padre o la madre cerchi un altro giaciglio. La condivisione è talmente ampia che i genitori parlano con i figli liberamente, di qualunque argomento passi loro per la testa. E spesso, come accennavamo, facciamo persino assistere i nostri figli ai contrasti coniugali. Talvolta capita addirittura che chiediamo loro di partecipare e giudicare, inducendoli a prendere posizione a favore dell’uno o dell’altro. Insomma, genitori e figli sempre insieme, foss’anche abbarbicati su un motorino o in sella alla bicicletta.
La condivisione dei luoghi, delle abitudini, degli argomenti ha reso le distinzioni tra genitori e figli molto più sfumate di una volta. Per non dire confuse. È come se le fasi della vita, che una volta erano nettamente distinte, si siano mescolate. Nel 1950, nel suo Infanzia e società, lo psicoanalista statunitense Erik Erikson descriveva il ciclo vitale distinguendo molto nettamente gli stadi dello sviluppo psico-sociale. Questi erano perfettamente riconoscibili, persino visivamente. Esistevano dei riti di passaggio legati, per esempio, all’abbigliamento. I ragazzi indossavano i calzoni corti, e il permesso di indossare i pantaloni lunghi era il segno tangibile dell’ingresso nell’età adulta. C’era un modello, un percorso segnato che, probabilmente, rassicurava entrambi, genitori e figli.
Il processo che ci ha portati alla condizione attuale è iniziato dopo la seconda guerra mondiale, quando i giovani divennero «uno strato sociale separato», per dirla con le parole dello storico inglese Eric Hobsbawm4. I rapporti con la famiglia persero di centralità e lo spazio sociale più significativo, il terreno di incontro tra ragazzi e ragazze, divenne il gruppo dei coetanei. Il ba...