i Robinson / Letture
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i Robinson / Letture

  1. 192 pagine
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i Robinson / Letture

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All'inizio di ogni storia c'è una pianta.

Dalla vita su questo pianeta alla voce di un violino, dal futuro delle città alla risoluzione di crimini efferati, all'inizio di ogni storia c'è sempre una pianta.

Della maggior parte di esse si è persa memoria. Altre storie, invece, hanno avuto un destino diverso perché legate a persone o avvenimenti che hanno colpito l'immaginazione umana. Questo libro ne racconta alcune.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858142950

II La pianta della città

A differenza delle città ideali rappresentate nei quadri rinascimentali, completamente edificate e senza la benché minima presenza di un singolo filo d’erba, le città del futuro dovranno essere completamente ricoperte dalle piante.
A differenza delle città ideali rappresentate nei quadri rinascimentali, completamente edificate e senza la benché minima presenza di un singolo filo d’erba, le città del futuro dovranno essere completamente ricoperte dalle piante.
La storia degli alberi della libertà che un tempo punteggiavano il panorama di molte città, grandi e piccole, mi torna in mente ogni volta che incappo in uno dei tre magnifici dipinti rinascimentali conosciuti comeLa città ideale nei quali, al contrario, di piante non si vede neanche l’ombra. Sono conservati presso la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, presso il Walters Art Museum di Baltimora e presso la Gemäldegalerie di Berlino. Si tratta di tre quadri famosissimi, tutti di autore ignoto ma di provenienza indubitabilmente italiana, e rappresentano l’idea­le della città perfetta. Se li osservate con attenzione, vi accorgerete che in nessuno dei tre dipinti c’è traccia di vegetazione, se si escludono poche sparute piante utilizzate come elementi di decoro nel dipinto di Urbino. Prendiamo proprio quest’ultimo quadro ad esempio. Attribuito da molti a Leon Battista Alberti – padre dell’architettura rinascimentale e autore del De re aedificatoria, il trattato architettonico fondamentale della cultura umanistica – il quadro rappresenta una piazza vista in prospettiva centrale nel cui mezzo è situata una magnifica chiesa. La piazza, molto ampia, ha una lastricatura geometrica che la trasforma in una enorme scacchiera in cui gli edifici, come pezzi del gioco, sono posti a distanze regolari. La chiesa circolare, figura perfetta e conclusa, i due pozzi simmetrici ottagonali, i rapporti fra le dimensioni degli edifici: tutto in questa città sembra essere pura manifestazione del pensiero umano. Ora, si potrebbe obiettare che trattandosi soltanto di dipinti e non di città reali siano soltanto delle rappresentazioni. È vero. Ma, anche se non realizzate, sono, comunque, il manifesto di come immaginiamo debba essere una città.
Allora chiediamoci: cosa ha più influenza sulla costruzione delle nostre città? Ciò che crediamo debba essere una città o ciò a cui deve servire? Nonostante l’inevitabile risposta sia che ambedue gli aspetti sono rilevanti, credo che l’eredità culturale, inclusa in un certo senso anche la memoria evolutiva riguardo come debba essere costituita la nostra casa, giochi un ruolo prevalente. Molta di questa memoria ancestrale riguarda la necessità di difendersi. Dal momento in cui il primo uomo ha sentito la necessità di costruire una capanna per insediarsi stabilmente in un luogo, l’inevitabile conseguenza di questa decisione è stata di tracciare una separazione fra il suo rifugio e la natura circostante. La difesa dai predatori, siano essi animali o uomini, è sempre stata un aspetto essenziale di cui tenere conto nella costruzione dei nostri insediamenti. La separazione fra l’esterno della città in cui la natura regna sovrana e il suo interno, da cui, al contrario, la natura è completamente rimossa, è un retaggio ancestrale di quei tempi lontani.
La città antica necessitava di mura e di altri meccanismi di difesa che mantenessero l’interno della città separato e difeso da un esterno minaccioso. La presenza di questo perimetro invalicabile, a sua volta, comportava che le dimensioni urbane non potessero essere molto ampie e che le attività produttive estensive, come ad esempio quelle agricole, non trovando spazio all’interno delle mura cittadine dovessero essere destinate all’esterno del centro abitato. Quello che accomuna le città di ogni tipo e di ogni tempo, secondo Toynbee, uno storico inglese dell’inizio del secolo scorso, è che gli abitanti di una città non sono in grado di produrre, entro i confini della città stessa, gli alimenti di cui necessitano per sopravvivere1. Una città è, quindi, necessariamente separata dal contesto naturale che la ospita. È qualcosa di molto diverso dalla natura stessa: è il luogo degli uomini. Un luogo crea­to da noi e in cui la natura non è ammessa.
Ma la forma di città come l’abbiamo conosciuta è l’unica possibile? Non possiamo immaginare quella che è ormai da considerare la casa della nostra specie in maniera diversa? Finora abbiamo lasciato questo esercizio immaginativo esclusivamente agli architetti mentre credo sia fondamentale che diventi una palestra di pensiero per tutti noi. Da come immagineremo le nostre città nei prossimi anni, infatti, dipenderà una parte consistente delle nostre possibilità di sopravvivenza. Alla forma, ai materiali e alla funzionalità delle città sarà, per fare solo un esempio, collegata la possibilità di vincere la sfida contro il riscaldamento globale.
Per capirci qualcosa, tuttavia, dobbiamo prendere questa storia un po’ alla larga.
L’uomo è sempre meno un abitante globale di questo pianeta. Lo è stato nel corso della sua storia anche recente, quando popolazioni umane si potevano trovare in ogni angolo remoto della Terra. Ma non ai nostri giorni. Oggi, l’uomo occupa soltanto una minuscola parte della superficie del pianeta: quella coperta dalle città. Nel 2050, il 70% della popolazione umana – che sarà vicina ai dieci miliardi di persone – vivrà addensata all’interno di centri urbani, molti dei quali ospiteranno diverse decine di milioni di abitanti.
È un fenomeno della cui strabiliante velocità non ci rendiamo conto: nel 1950, più di due terzi (70%) delle persone in tutto il mondo viveva ancora in insediamenti rurali. Nel 2007, per la prima volta nella storia, la popolazione urbana globale superava la popolazione rurale globale e, da allora, la velocità del fenomeno non ha fatto che aumentare. Nel 2030, dicono le previsioni, il 60% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane e nel 2050 la percentuale salirà al 70%, capovolgendo in un solo secolo (1950-2050) la distribuzione globale della popolazione rurale-urbana2. Ovviamente con differenze importanti nelle diverse aree del mondo: a un estremo l’Africa, che continua a avere una popolazione diffusa e rurale, all’altro il continente americano (Nord e Sud America), in cui oltre l’80% della popolazione vive, già oggi, in città. In Italia la percentuale di abitanti delle aree urbane è pari al 71%, in Germania è intorno al 75%, mentre in Francia, Spagna e Gran Bretagna supera ampiamente l’80%.
Ciò che colpisce di questa rapidissima accelerazione verso l’inurbamento è il fatto che sia in totale controtendenza con il resto delle nostre attività. Comunicazione, commercio, alimentazione, industria, cultura, e qualunque altra forma di manifestazione umana possa venirci in mente, tendono ad assumere nei tempi moderni un carattere universale e diffuso mentre, al contrario, la scelta del luogo in cui vivere si riduce, sempre di più, a una porzione del tutto trascurabile della superficie terrestre. Escludendo dal calcolo l’Antartide, le città, tutte insieme, coprono una superficie che ammonta al 2,7%3 delle terre emerse del pianeta. La loro irresistibile attrazione sta portando da un lato allo spopolamento di enormi superfici un tempo abitate dall’uomo e dall’altro alla concentrazione della popolazione in luoghi ad altissima densità di abitanti.
Il punto che trovo più interessante dell’intera vicenda è che l’uomo, in una manciata di anni, sta rivoluzionando i propri atavici comportamenti di specie. La conquista di nuove terre è stata la maggiore occupazione della nostra specie fin dalla sua apparizione. Per centinaia di migliaia di anni, siamo andati alla ricerca di nuovi territori da abitare, spingendoci dall’Africa in ogni altro luogo del pianeta. Poi, in pochi decenni, tutto si è, improvvisamente, bloccato. Prendiamo, ad esempio, la storia dell’esplorazione spaziale: nel 1969 abbiamo messo per la prima volta piede sulla luna... e in pratica non ci siamo più tornati. Il comandante Eugene Cernan, i piloti Harrison Schmitt e Ronald Evans, insieme a cinque topi, rimangono non solo gli ultimi uomini (e topi) ad aver visitato la luna ma, dal dicembre del 1972, addirittura gli ultimi esseri viventi ad aver sorpassato l’orbita terrestre bassa4. La conquista della luna sembra essere stato l’apogeo dell’espansione umana: per la prima volta, un territorio nuovo non è diventato parte del nostro habitat; per la prima volta, non abbiamo avuto dei pionieri; per la prima volta nella storia dell’esplorazione umana, non facciamo ritorno da oltre cinquant’anni in un luogo che abbiamo esplorato. La spinta espansiva si è esaurita. Nessuno sembra avere più interesse a colonizzare nuovi territori, mentre tutti provano un’invincibile attrazione ad ammassarsi nei centri urbani.
Da cosa dipende questo comportamento? L’alternarsi di fasi di espansione e contrazione sono normali nella diffusione geografica di ogni specie vivente, sia essa vegetale o animale. Forse l’uomo sta attraversando una fase di contrazione? Siamo abituati a considerarci al di fuori della natura, ma rispondiamo agli stessi fondamentali fattori che controllano l’espansione delle specie: clima, modifiche dell’ecosistema, interazioni fra specie, fattori abiotici, ecc. È molto semplice: più favorevoli sono le condizioni, maggiore sarà la diffusione di una specie e, quindi, le sue possibilità di sopravvivenza. Questa affermazione non deve sorprendere: immaginiamo che una specie, prima diffusa su tutto il pianeta, limiti per qualche motivo, conosciuto o sconosciuto, la sua presenza soltanto a piccole, delimitate zone della superficie terrestre. È chiaro che per questa specie i rischi aumenteranno5. È molto più facile, infatti, che qualche cambiamento incompatibile con la sua sopravvivenza accada a livello locale, piuttosto che a livello globale.
Ora gli organismi in grado di colonizzare ambienti molto differenti in termini di clima, disponibilità nutritive, presenza di predatori, ecc., sono chiamati ‘generalisti’, mentre gli altri, quelli che necessitano di ambienti particolari per sopravvivere, ‘specialisti’6. Ovviamente le possibilità di sopravvivenza per le specie generaliste sono molto superiori: quando le condizioni ambientali cambiano, riescono ad adattarsi meglio rispetto agli specialisti, i quali, invece, tendono a estinguersi più facilmente7.
Pensiamo, per fare solo un esempio, alla diversa capacità di sopravvivenza che ha un onnivoro, il quale può nutrirsi di svariati alimenti animali o vegetali, rispetto a un monofago come il koala, il cui unico alimento è rappresentato dalle foglie di eucalipto. Attenzione però: non è soltanto per la dieta che una specie è generalista o specialista. Un cactus, adatto a sopravvivere ad alte temperature e in condizioni di scarsa disponibilità idrica, è un esempio di specialista vegetale. Nell’ambito del suo ristretto ambiente, infatti, è molto competitivo con le altre specie, ma al di fuori di questo non è in grado di sopravvivere.
A giudicare dalla parabola della nostra espansione geografica, sembrerebbe che l’uomo da specie generalista, in grado di colonizzare qualunque ambiente, si stia molto velocemente trasformando in un organismo specialista, capace di prosperare solo all’interno di habitat particolari, quali sono le nostre città. Queste, infatti, a prescindere dalla loro storia o collocazione geografica, presentano sempre delle caratteristiche comuni di cui l’ambiente rura...

Indice dei contenuti

  1. Prologo
  2. I — La pianta della libertà
  3. II — La pianta della città
  4. III — La pianta del sottosuolo
  5. IV — La pianta della musica
  6. V — La pianta del tempo
  7. VI — La pianta della conoscenza
  8. VII — La pianta del crimine
  9. VIII — La pianta della luna