Miraggi alimentari
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Miraggi alimentari

99 idee sbagliate su cosa e come mangiamo

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Miraggi alimentari

99 idee sbagliate su cosa e come mangiamo

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Informazioni sul libro

Usando un linguaggio semplice e rigoroso, Marcello Ticca sfata i falsi miti che influenzano negativamente le nostre scelte a tavola e che demonizzano piaceri innocenti come un buon pane fragrante, magari di farina bianca, o un piatto di spaghetti a cena.

Un libro prezioso e di piacevole lettura anche per chi pensa di non essere stato influenzato dalle mode alimentari più recenti.Elisabetta Moro, "Il Mattino"

Solo un ricercatore che ha dedicato la sua vita a studiare gli alimenti, gli effetti di questi sull'organismo e le diete corrette per perdere peso poteva raccogliere tutti i luoghi comuni sull'alimentazione. Un libro che rivoluziona l'argomento, evidenze scientifiche alla mano, e ci accompagna senza imposizioni, obblighi o divieti.Carla Massi, "Il Messaggero"

A fine lettura vivremo più serenamente il rapporto con quel che mettiamo nel piatto.Marino Niola, "Il Venerdì di Repubblica"

Siamo sicuri che mangiare la pasta di sera faccia ingrassare, che la cioccolata provochi l'acne e l'ananas e il pompelmo aiutino a dimagrire? Siamo prigionieri di tanti luoghi comuni sul cibo... da sfatare per riappropriarci di uno stile alimentare più equilibrato e consapevole.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858139332

1.
A colazione

Il latte a lunga conservazione è molto meno nutriente di quello fresco

Si tratta di una convinzione diffusa quanto esagerata.
Diamo per scontati tutti i vantaggi pratici legati al fatto di assicurare al latte una conservazione molto lunga anche a temperatura ambiente. Tale conservazione si ottiene perché il trattamento chiamato uht (“ultra high temperature”, a circa 140 °C per pochissimi secondi), oltre a distruggere i batteri patogeni, come accade anche nella più blanda “pastorizzazione” (riscaldamento a 72 °C per circa 15 secondi e possibilità di conservazione in frigorifero per non più di 6 giorni) distrugge anche le spore termoresistenti e tutti i microrganismi responsabili della alterazione del latte stesso. Risultato: possibilità di conservare il prodotto per circa 3-6 mesi a temperatura ambiente.
Dal punto di vista del valore nutritivo si hanno le seguenti conseguenze: una perdita insignificante del valore biologico delle proteine (circa il 6%); nessuna influenza sui grassi presenti; qualche variazione nel contenuto in vitamina D e soprattutto in vitamina A, aspetto non trascurabile perché il latte è una buona fonte di queste vitamine; perdite fino al 30% della vitamina B1 e della B12, mentre la B2 e la niacina, che sono termostabili, sono conservate; diminuzione della vitamina C fino al 50% delle quantità iniziali, il che ha poca importanza perché il latte non è una fonte rilevante di questa vitamina. Nessuna variazione per quanto riguarda i minerali, con particolare riferimento al calcio, del quale il latte è fonte preziosa per l’alimentazione umana.
Nel complesso, quindi, il latte a lunga conservazione perde ben poco del suo valore nutritivo rispetto al prodotto fresco, e le ridotte perdite sono ampiamente compensate dalla sua maggiore disponibilità e dalla possibilità di poterlo agevolmente distribuire e conservare senza l’impegnativo vincolo della catena del freddo.

Il latte cura l’ulcera

È un modo di dire quanto meno improprio. Infatti, se è vero che il latte, nel momento in cui arriva nello stomaco, svolge effettivamente una certa azione di neutralizzazione nei confronti di una eventuale eccessiva acidità, è anche vero che il suo effetto a lungo termine è quasi opposto, nel senso che nelle fasi successive del processo digestivo finisce con lo stimolare la produzione di acidi.
E poi, in ogni caso, non di una cura per l’ulcera si tratterebbe, ma soltanto di una attenuazione dei disturbi derivanti dalla iperacidità, o, nel migliore dei casi, di una blanda prevenzione. In sostanza, questa attività protettiva nei confronti della mucosa gastrica, collegata per un certo periodo ad un elevato potere tampone che veniva attribuito al latte, è negata da molti e deve essere ampiamente ridimensionata.

Il latte magro contiene meno calcio

Non si capisce bene da dove origini questa idea, che però è piuttosto diffusa.
Sappiamo che il latte, con i suoi derivati, costituisce una importante fonte di calcio facilmente assorbibile, grazie anche alla azione favorente della caseina, la principale proteina del latte, e del lattosio. Fatto sta che nella alimentazione media italiana il calcio apportato dal latte e dai suoi derivati assicura più del 55% della assunzione totale di questo minerale, ad onor del vero soprattutto per merito dei formaggi (media di consumo di ben 57 grammi al giorno pro capite, praticamente da 4 a 8 porzioni-standard a settimana!)
Consumare il latte è una ottima abitudine, ma va segnalato che il latte intero (che in 100 grammi contiene ben 87 grammi di acqua, appena 3,6 grammi di grasso e 4,9 di zuccheri, oltre che 3,3 grammi di proteine, 34 milligrammi di colesterolo e apporta solo 65 chilocalorie) viene stranamente vissuto come “alimento grasso”. Un equivoco che spesso induce tante persone a rinunciare a consumare il latte e ad orientarsi, ingannate forse anche dal nome e spinte da un fatto di moda, verso “latti” vegetali (di soia, di riso, di mandorle, ecc.) che in realtà non meritano di essere definiti tali, come finalmente nel 2017 ha decretato una sentenza della Corte di Giustizia della ue.
Ora è chiaro che “latte” può essere denominato soltanto il prodotto della secrezione delle ghiandole mammarie, e che quei prodotti vegetali, pur possedendo una buona dignità nutritiva, non devono essere confuse con il latte di mucca o di capra o di qualunque altro mammifero. Va anche detto che la errata visione del latte come alimento grasso ha spinto molte persone a preferire le varietà di latte parzialmente scremato (1,5 grammi di grasso, 45 chilocalorie e 7 milligrammi di colesterolo per 100 grammi) o totalmente scremato (0,2 grammi di grasso, 36 chilocalorie e solo 2 milligrammi di colesterolo per 100 grammi). Di per sé si tratta di scelte apprezzabili, ma il fatto strano è che parecchi consumatori sono trattenuti dal compierle (per poi magari orientarsi verso i prodotti alternativi citati prima) dalla bizzarra convinzione che il latte scremato abbia perso, insieme alla maggior parte del suo contenuto in grassi, anche una parte di quello in calcio.
Non è assolutamente così. Il calcio, uno dei nutrienti più importanti apportati dal latte, è presente nella misura di circa 119 milligrammi ogni 100 grammi di latte intero (il fabbisogno quotidiano indicato per gli adulti oscilla intorno ai 1000 milligrammi). Ebbene, le tabelle di composizione degli alimenti ci dicono che nel latte parzialmente scremato troviamo 120 milligrammi di calcio ogni 100 grammi, e in quello totalmente scremato una quota anche maggiore: 125 milligrammi, il che è logico considerato che se sottraiamo una parte di un certo componente (in questo caso il grasso) è inevitabile che la concentrazione dei restanti componenti aumenti, sia pure limitatamente (l’acqua sale al 90,5%, gli zuccheri allo 5,3%, ecc.).
Quindi, nessun timore di perdere parte dell’apporto in calcio se si scelgono le varietà di latte più magre reperibili ovunque in commercio.
E per completare il discorso sui “non-latti” vegetali va detto che quello di soia (chiamarlo “bevanda a base di soia” è più corretto) apporta 40-50 chilocalorie per 100 grammi, unitamente a 1,8 grammi di grassi, ovviamente vegetali, e a 3-3,5 grammi di proteine. La eventuale aggiunta di calcio (160 milligrammi per 100 grammi) consente a questo buon prodotto di imitare ancor più, in un certo senso, lo spettro nutritivo del latte animale. Qualche limitazione, ma non così importante, esiste nella qualità proteica: la soia è una leguminosa, e le sue proteine vantano un buon valore nutritivo, peraltro leggermente inferiore a quello delle proteine animali e quindi anche a quello delle proteine del latte. Per essere più precisi, l’“indice di qualità delle proteine” (che si basa sul punteggio attribuito agli aminoacidi presenti, corretto per la digeribilità delle proteine) assegna il valore massimo (superiore a 1) alle proteine del latte, delle uova, della carne e in genere a quelle dei prodotti animali, mentre l’indice delle proteine della soia è 0,95 (comunque buono) e quello dei legumi 0,70-0,75.

I dolci fanno venire il diabete

Nella mentalità comune la comparsa del diabete dell’adulto è stata in passato sempre associata ad un elevato consumo di zucchero e di dolci.
Il diabete mellito è una malattia molto diffusa, caratterizzata da una alterazione del metabolismo del glucosio che si riflette sul metabolismo delle proteine e su quello dei grassi: interessa quindi tutti gli aspetti metabolici dell’organismo e coinvolge con le sue complicanze vari organi e apparati quali il sistema cardiaco, quello vascolare, quello renale e in particolare i vasi retinici: la retinopatia diabetica è la causa più frequente di cecità.
La classificazione delle varie forme di diabete è molto complessa. Schematizzando si può parlare di diabete mellito di tipo 1 (detto anche diabete giovanile o insulino-dipendente) e di diabete mellito di tipo 2 (detto anche dell’adulto o insulino-resistente).
Il diabete di tipo 1 è il più insidioso, esordisce bruscamente e le sue cause sono riassumibili in una combinazione di fattori genetici, ambientali e immunologici. Si tratta di una malattia autoimmunitaria che per lo più si manifesta durante l’infanzia o l’adolescenza ed è caratterizzata da carenza prima relativa e poi assoluta di insulina (ormone prodotto dal pancreas endocrino) con conseguenti elevati valori di glucosio nel sangue a digiuno (iperglicemia) e nelle urine (glicosuria), acidosi, ecc.
Il diabete di tipo 2 rappresenta circa il 90% dei casi di diabete, è molto diffuso fra i pazienti obesi ed è la forma di diabete più frequente che si sviluppa in età adulta, oltre ad essere quella più diffusa in assoluto nella popolazione e in forte crescita negli ultimi anni. Consiste in una malattia metabolica caratterizzata anch’essa da glicemia elevata, e si manifesta quando il pancreas produce una corretta quantità di insulina che però non riesce a svolgere la sua funzione a causa della resistenza delle cellule-bersaglio (recettori): ciò porta, nelle fasi iniziali della patologia, ad una iperproduzione compensatoria di insulina da parte del pancreas (al contrario di ciò che accade nel diabete di tipo 1), produzione che però poi, nelle fasi successive della malattia, tende cronicamente a diminuire.
Nel provocare il diabete di tipo 2, o nel facilitarne la comparsa, la dieta ha quasi sempre responsabilità ben precise. Infatti l’obesità è considerata la causa principale della sua insorgenza nei soggetti che sono geneticamente predisposti. Questa forma di diabete è legata a uno stile di vita scorretto, caratterizzato da un’alimentazione non equilibrata e/o eccessiva e da una scarsa attività fisica. Ha anche una forte caratterizzazione genetica, per cui tende ad essere ereditaria: chi ha genitori o parenti diabetici ha maggiori probabilità di sviluppare la patologia. E dato che il diabete di tipo 2 deriva molto spesso da abitudini non equilibrate, la correzione dello stile di vita (normalizzazione del peso e contrasto alla vita sedentaria con svolgimento costante di esercizio fisico aerobico) è il primo presidio terapeutico da adottare. Nel caso ciò non fosse sufficiente a tenere sotto controllo la glicemia – il che accade in molte persone anche se lo stile di vita è perfetto – occorre intervenire con i farmaci.
Non è però del tutto corretto pensare che il consumo di dolci (in quanto tali) abbia necessariamente responsabilità dirette nel provocare o agevolare la malattia. Infatti, i dolci sono anch’essi implicati nella comparsa del diabete di tipo 2 soltanto qualora costituiscano una fonte di calorie in eccesso rispetto ai reali fabbisogni, esattamente come può accadere per qualunque altro alimento ad alta densità calorica. Ed è un dato di fatto che il diabete di tipo 2 compaia quasi sempre in associazione con un sovrappeso o una obesità, che sono presenti nel 70% dei pazienti. A questo quadro, e quindi alla comparsa della malattia, contribuisce il sovraccarico metabolico legato agli eccessi alimentari, in particolare quelli relativi a cibi ad alto indice glicemico (indice che, in parole povere, rappresenta la capacità che una certa dose di un alimento ha di aumentare la glicemia) e ad elevato apporto in calorie.
Un aspetto, quest’ultimo, che nei dolci in genere è molto spesso favorito più dalla abbondanza di grassi che da quella di zuccheri. Molti studi di popolazione hanno smentito la credenza popolare che sia principalmente il consumo di grandi quantità di zuccheri a portare al diabete e hanno invece suggerito che il maggior contributo alla insorgenza della malattia spetti al consumo eccessivo di grassi, in particolare di quelli “saturi”, ossia di quelli presenti in maggiore misura nei prodotti animali. In sostanza le responsabilità dei dolci non sarebbero specifiche ma sarebbero legate al fatto che troppo spesso vengono consumati in dosi elevate e soprattutto in aggiunta ai normali pasti, contribuendo così ad aumentare oltre misura la quota calorica quotidiana e a facilitare quell’aumento del peso che crea i presupposti per l’insorgenza della malattia.
Va comunque ribadito che qualunque sia la forma di diabete, la dieta rappresenta uno dei cardini della terapia. La strategia dietetica da attuare, raccomandata da tutte le Associazioni nazionali ed internazionali di Diabetologia, è quella di una razione alimentare dal carico glicemico controllato, ben distribuita nella giornata, ricca in carboidrati complessi (amidi e fibra), moderata come apporto calorico e povera in grassi saturi e in zuccheri semplici. Questo allo scopo di tenere sotto controllo sia il peso corporeo che i livelli nel sangue di grassi, glucosio e insulina.
Sul piano pratico ne deriva che il rispetto di queste raccomandazioni non comporta necessariamente la drastica eliminazione dalla nostra vita di quei prodotti dolci per i quali tanta gente nutre una vera passione. È più che sufficiente sceglierli e dosarli con oculatezza, possibilmente consumandoli di preferenza nel contesto di un pasto, eventualmente avvicendandoli con altri prodotti dal valore nutritivo più o meno simile ed evitando con cura di alterare gli equilibri fra energia assunta con i cibi ed energia impiegata nelle attività quotidiane.
In poche parole, la prima regola per evitare il diabete dell’adulto è quella di non aumentare di peso, e quindi sia di essere più attivi fisicamente che di non mangiare troppo in generale, di qualunque tipologia di alimenti si tratti.

Estratti e centrifughe sostituiscono la frutta

Quella degli estratti e dei succhi è una moda, spesso spinta dalla falsa convinzione che la nostra dieta attuale sia sempre e comunque incapace di soddisfare le nostre necessità in vitamine e minerali.
Naturalmente non c’è niente di male nel concedersi, a casa o al bar, un succo derivante da frutta od ortaggi, ottenuto con un estrattore a freddo o con una più banale centrifuga. Anzi, se questo consumo prende il posto dell’ennesimo caffè o di un aperitivo alcolico, ...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. A colazione
  3. 2. Pausa caffè
  4. 3. A pranzo e a cena
  5. 4. Crudo e cotto
  6. 5. In un bicchiere
  7. 6. Sportivi e salutisti
  8. 7. A dieta
  9. 8. Cibo e salute
  10. 9. La fobia del bianco
  11. 10. Frutti miracolosi