Come siamo cambiati
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Come siamo cambiati

Gli italiani e la crisi

  1. 176 pagine
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Come siamo cambiati

Gli italiani e la crisi

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La crisi economica che abbiamo attraversato è stata la più lunga e la più dura della storia d'Italia. E non è finita del tutto e per tutti. Le cicatrici che ci lascia segnano ogni abitudine, ogni momento della nostra vita sociale: facciamo meno figli, ci curiamo di meno e peggio, consumiamo meno ma a volte meglio, stiamo abbandonando l'università, conviviamo con l'incertezza. Mutamenti profondi, non reversibili al primo rialzo del Pil.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858123171

1.
Meno figli per tutte

1. Purché incinte

«Qualsiasi donna, ricca o povera, patrizia o plebea, indigena o straniera, purché incinta, bussi e le sarà aperto». Questa frase, scolpita su marmo, è della fondatrice dell’ospedale degli Incurabili di Napoli, la monaca spagnola Maria Lorenza Longo. Sta lì da qualche centinaio d’anni, ma poche delle donne incinte che entrano in quello che è mezzo monumento nazionale e mezzo ospedale pubblico, in perenne ristrutturazione come gran parte dei monumenti e degli ospedali, hanno modo e tempo di fermarsi a leggerla. Il chiostro che ospita la lapide e i lavori di restauro in corso resta deserto, come i suoi vialetti con le belle piante medicinali munite di cartellino. Le future mamme passano svelte, vanno verso l’ala nuova del policlinico vecchio, c’è un corso pre-parto e non vogliono perderlo. Sono più o meno «ricche o povere», mediamente istruite, d’età ben sopra i trenta, tendente ai quaranta. Sono una rappresentanza della sempre minore pattuglia delle «purché incinte», che incontriamo nel polo pubblico per la maternità del centro storico di Napoli, nel cuore della regione che era il serbatoio dei bambini in Italia e adesso guida la classifica della denatalità.
Gli stereotipi del Sud e della napoletanità restano fuori, come quei panni stesi ad asciugare da qualche appartamento chissà perché occupato sopra le solenni scalinate della farmacia settecentesca. Le donne che vengono a partorire qui hanno speranze, intenzioni e storie non tanto diverse da quelle che racconterebbero le future madri di Milano, o Roma, o Bari. Forse è solo più forte il contrasto con le loro mamme, che le hanno accompagnate a una lezione aperta a tutta la famiglia. Un corso che diventa anche occasione per vedere due generazioni di madri napoletane a confronto. Qui si può vedere il passaggio rapidissimo – e ripidissimo – da una società che faceva tanti figli e presto, a un’altra che ne fa pochi e tardi.
Cinzia è in compagnia della suocera: la signora Antonietta, 66 anni, casalinga, cinque figli tutti maschi. I suoi figli Antonietta li ha fatti dai 19 ai 28 anni; Cinzia invece di anni ne ha 35, è alla prima gravidanza, si è laureata da poco e racconta di aver deciso di fare questo figlio subito, prima di mettersi a cercare lavoro. «Sennò poi non lo facevo più». Antonietta e Cinzia confermano le statistiche: mettendo vicine le loro famiglie si può vedere plasticamente la piramide dell’età che cambia forma e diventa un barattolo, e poi man mano si gonfia verso l’alto e si assottiglia verso il basso, come un cono rovesciato. E si può intuire anche tutta la differenza che corre tra due donne che anagraficamente sono separate solo da un trentennio: la prima a 28 anni aveva già scelto tutto, impostato la sua vita e completato la sua «carriera riproduttiva»; la seconda a 35 anni si affaccia: alla vita di coppia, alla maternità e al lavoro. O almeno, in questo caso, alla sua ricerca.
E Cinzia è a suo modo un’eccezione, nella scelta di cercare il figlio prima del lavoro. Altre donne, che si apprestano qui in ospedale a sentire una lezione un po’ ansiogena su come intervenire se il bambino si caccia in gola un corpo estraneo, hanno fatto l’opposto. Come Paola, brillante magistrata di 36 anni, che ha aspettato non solo il concorso e la toga, ma anche il trasferimento in sede adatta. E Anna, quarantenne, laureata in economia e collaboratrice in uno studio notarile: «Se non lavoravo non lo facevo». «A quarant’anni sai cosa vuoi, e soprattutto sai cosa non vuoi», le fa eco Renata, che per amore si è trasferita da Parma a Napoli e per l’arrivo del primo figlio pianifica di far spostare temporaneamente anche la madre, che annuisce al suo fianco con convinzione, mentre suo marito – il futuro nonno – si esercita nelle simulazioni di salvataggio-bebé.
C’è una determinazione forte, in questa catena di generazioni che si stringe in vista di una nascita. La sicurezza della scelta è visibile, la soddisfazione per essere alla vigilia del parto pure, soprattutto tra le donne più mature. Le più giovani, quelle che stanno sotto o poco sopra i 30 anni, si mostrano un po’ più fragili e incerte. In molti casi non lavorano, ma mai si definiscono «casalinghe». Vorrebbero lavorare, o hanno lavorato. Come Luisa, che ha 33 anni ed è al secondo figlio: anche lei saldamente affiancata dalla madre poco più che cinquantenne, racconta che prima lavorava in un negozio, poi, dopo il primo figlio, ha dovuto lasciare. Non spiega perché. E Nunzia, la più giovane: 26 anni, aspetta il primo figlio ma non lavora più da un po’, da quando la piccola boutique dove faceva la commessa ha chiuso. Rispetto alle altre donne incinte presenti al corso, sono delle giovincelle. Ma anche loro stanno spostando in avanti l’età della maternità rispetto alle proprie mamme, che hanno partorito il primo figlio attorno ai vent’anni.
Cinzia, Paola, Renata, Luisa, Nunzia... tra qualche anno saranno anche loro puntini nelle statistiche demografiche, che ci dicono cos’è cambiato rispetto al passato e che possiamo leggere anche come un sismografo delle intenzioni di un paese rispetto al futuro. Le lancette di questo sismografo, da quando c’è la crisi, hanno cominciato a oscillare all’impazzata. C’è una curva, che usano i demografi, che dà una rappresentazione efficace su quel che è successo passando da una generazione all’altra. Prende gli anni fertili delle donne di ogni generazione e ne registra la fecondità anno per anno: in sostanza, ci dice non solo quanti figli hanno fatto (in media) le donne nate negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta; ma anche quando li hanno fatti. L’altezza della curva indica la quantità di bambini, la sua forma dipende dall’età delle donne al parto (v. Figura 1).
Confrontando le varie generazioni di donne – le coorti, in demografia – si vede questa curva cambiare forma e spostarsi. Per quelle del ’55, il picco più alto era tutto spostato nella parte sinistra del grafico (nell’età giovane, attorno ai 20-22 anni), poi si è abbassato e piazzato verso il centro, ma adesso sta velocemente andando a schiacciarsi in basso e verso destra, ossia verso l’età più matura.
Quello che impressiona è la velocità dello spostamento negli ultimi anni, dovuto all’impatto duplice della crisi economica e della nuova condizione del lavoro su tendenze demografiche e familiari che erano già all’opera da decenni.
La riduzione delle nascite in Italia non è certo un fenomeno che nasce con la Grande Recessione. La crisi economica è piombata su una tendenza storica ben più lunga. Ma l’impatto c’è stato, ed è paragonabile a quello di un meteorite su un pianeta già un po’ dissestato. A partire dal 2008, si è gelata quella timida ripresa della natalità che era in atto da qualche anno; gradino dopo gradino, si è scesi dai circa 570.000 nati del 2008 ai 509.000 del 2014; tra tutti i paesi europei investiti dal fenomeno, l’Italia è diventata il caso più evidente di baby recession – la relazione tra Pil in calo e culle vuote.
2. La Palestina e le sue divisioni (da Goodman, 2009).
Figura 1. Generazioni di madri a confronto. Tassi di fecondità specifici per età delle donne residenti in Italia.
Fonte: Istat, Tavole di fecondità regionali e iscritti in anagrafe per nascita.
In questo capitolo racconteremo quel che emerge dai numeri e dalle storie della nostra «recessione in culla», nella consapevolezza che l’accostamento tra economia e procreazione, tra il vissuto esteriore delle condizioni materiali e quello profondissimo di scelte come la maternità e la paternità, ci espone di continuo a vari rischi: determinismo, banalizzazione, semplificazione. Ma anche nella consapevolezza che l’impatto della crisi economica su questa sfera della vita individuale e sociale è dei più delicati e importanti per il futuro, personale e collettivo. Non solo perché, come spesso sentiamo dire, non sappiamo «chi ci pagherà le pensioni». Ma perché potrebbe esserci, in questo cambiamento, un passaggio involontario, non auspicabile, e forse reversibile, ma solo a patto di avviare delle contromisure.
Un passaggio che sembra un po’ un ritorno all’indietro: la crisi economica (soprattutto a causa della sua lunga durata) sembra averci riportati a un tempo passato, nel quale le decisioni sulla formazione della famiglia e sulla sua riproduzione appartenevano al regno della necessità e della tradizione, e non alla sfera della libertà e del desiderio. Ora la tradizione è andata, con i vecchi modelli culturali; e libertà e desiderio non sembrano essere in discussione, nella determinazione delle donne; tuttavia, la necessità li condiziona fortemente, laddove non li annulla, li contrasta, li costringe. Se la prima rivoluzione demografica era figlia, essenzialmente, della rivoluzione femminile e dei cambiamenti sociali e culturali che ne sono derivati, la seconda è determinata dall’imperio delle condizioni materiali, da un’età dell’incertezza che si allunga e si dilata, fino a rubare tutto il tempo utile allo scopo. Con effetti che probabilmente saranno chiari, in tutta la loro portata, solo tra qualche tempo: quando sarà evidente il lascito degli anni vuoti della «lost generation», della generazione perduta, non solo sulle vite lavorative, sulle prospettive dei consumi e dell’economia, ma anche sulla generazione del futuro.

2. La «baby recession»

Non è scontato che quando le cose vanno male si facciano meno figli. Anzi, i demografi sono tutt’altro che concordi in materia, e la loro letteratura riporta esempi del passato di segno opposto. Molto dipende da variabili che assumono aspetti diversi da paese a paese, di epoca in epoca: quanto vanno male le cose? e per chi? quali sono i meccanismi di tutela, reazione, protezione? quando si pensa che finirà, la fase negativa? Premesso tutto ciò, va detto che in Italia la coincidenza tra ciclo economico e nascite sta assumendo contorni impressionanti. Le tendenze della produzione economica e delle nascite, negli ultimi anni, sono quasi da fotocopia. Con corrispondenze persino troppo perfette, sulle quali è bene indagare per togliere qualche effetto di illusione ottica e concentrarsi sulla sostanza di quel che sta succedendo: c’è una generazione che sta rinviando maternità e paternità. E questo rinvio generalizzato in molti casi rischia di diventare una rinuncia non rimediabile.
La riduzione della fertilità in Italia è iniziata da tempo, ma, al contrario di quel che comunemente si pensa, non si tratta di una tendenza ininterrotta e lineare. Siamo entrati in fase calante subito dopo il baby boom – che ha avuto il suo apice nel 1964, quando nacquero in Italia 1.016.120 bambini; ma questa lenta e continua riduzione del numero dei nati si è interrotta nel 1995 (quando si era arrivati a dimezzare il picco del baby boom: 525.609 nati, e si pensava fosse il minimo storico). Da allora le nascite totali hanno preso a risalire, piano piano, ma costantemente; anno dopo anno, fino al 2008 (quando sono arrivate a 569.366). Il 2008, primo anno di crisi conclamata dell’economia reale, è stato anche l’anno della svolta demografica. Da allora, il trend si è invertito. Nel 2009 sono nati circa 5.000 bambini in meno. L’anno successivo 8.000 in meno. L’anno dopo ancora si è scesi di 16.000. E via via all’ingiù, fino ad annullare completamente l’aumento delle nascite che si era avuto dal 1995 al 2008. E fino a segnare un nuovo minimo storico: i 509.000 neonati del 2014. «Il livello minimo dall’Unità d’Italia», segnala l’Istat.
Prima di entrare un po’ più nel dettaglio di quel che è successo nella fase ascendente e in quella calante, riepiloghiamo il trend: si sale per una dozzina d’anni, poi in sei anni si perde tutto quel che si era guadagnato. La stessa dinamica, nello stesso periodo, si è verificata per il benessere economico delle famiglie. «Dal 2007 al 2013 la contrazione del reddito disponibile è stata di ampiezza pari all’espansione registrata tra il 1995 e il 2007», scrive l’Istat nel Rapporto annuale 2014. Negli stessi anni in cui svuotavano i reparti maternità, le famiglie italiane perdevano il 10,7% di potere d’acquisto: non sarà una prova logica né fattuale del nesso tra recessione e nascite, ma almeno un indizio ce lo possiamo vedere.
Ma c’è un effetto di illusione ottica, in questo indizio, che è bene svelare subito. Il numero dei nati dipende, ovviamente, anche dal numero delle donne in età fertile. E dunque potrebbero nascere meno bambini non solo (o non tanto) perché le donne hanno deciso di fare meno figli, ma anche perché ci sono meno potenziali mamme. Nel primo caso, le scelte soggettive e le previsioni sulle proprie condizioni economiche e materiali possono avere un peso, e anche forte; nel secondo, invece, c’è una riduzione strutturale della natalità, che prescinde da valutazioni oggettive o soggettive di benessere. Nella tendenza italiana recente ci sono tutti e due i fenomeni. Le donne del baby boom escono dall’età fertile e sono rimpiazzate da coorti via via più piccole. Ma, oltre al numero delle donne, si riduce anche la loro propensione a essere madri: e su quest’ultimo indicatore – il numero medio di figli per donna, o tasso di fecondità totale – qualcosa in più si può sapere, e dire, per capire cosa è cambiato nei comportamenti riproduttivi, e quanto di questo cambiamento è destinato a restare. Dal 2008 al 2014, infatti, non è sceso solo il numero totale dei nati, ma anche il tasso di fecondità, che si è ridotto da 1,45 figli per donna a 1,39. Anche in questo caso, il minimo storico si è toccato nel 1995, quando il tasso di fecondità arrivò a 1,19 figli per donna.
Ecco che, guardando bene dentro i numeri, ci avviciniamo di più alle ansie, preoccupazioni e determinazioni che abbiamo visto nelle donne degli Incurabili e che si possono raccontare in ogni dove. La lettura degli andamenti demografici si allarga, a fisarmonica, e investe i comportamenti delle generazioni, non solo la fotografia puntuale di anno in anno. Ci aiuta Sabrina Prati, che si occupa di questo settore delle statistiche Istat e legge da anni gli andamenti demografici del nostro paese. Ci consiglia: «Non sottovalutiamo la tendenza generale, l’onda lunga della fine del boom demografico. Le figlie del baby boom vanno per i cinquanta, di qui a quindici anni la popolazione femminile in età fertile si dimezzerà». Questo vuol dire che siamo ormai strutturalmente un paese a bassa natalità.
Ma proprio la nascita, prima, e il comportamento riproduttivo, poi, delle baby boomers ci dicono quanto il momento storico, il clima sulle aspettative per il futuro, e anche il ciclo economico, siano potenti nel cambiare i ritmi delle generazioni, e le loro decisioni sulla riproduzione. Sabrina Prati risale a quel che è successo negli anni in cui l’Italia, insieme a gran parte del mondo industrializzato, ha avuto il suo picco di nascite: «Tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta ci sono stati due fenomeni: le donne più mature avevano il secondo o terzo figlio, mentre le generazioni più giovani anticipavano l’esperienza riproduttiva». Insomma, in quegli anni si ebbe un concentrato di nascite, legato a un clima generale che faceva prevedere migliori opportunità per il futuro.
A loro volta, appena arrivate all’età fertile le baby boomers si sono comportate in tutt’altro modo. Hanno potuto e voluto scegliere il momento della loro maternità; hanno fatto meno figli ma soprattutto, in massa, hanno posticipato. «Possiamo fare un bilancio, adesso: le donne nate nel ’65, complessivamente, hanno avuto 1,6 figli ciascuna: alla fine, hanno realizzato una fecondità più alta di quella misurata dagli indicatori di periodo». A loro – e a quelle nate nel decennio immediatamente successivo – si deve una parte dell’aumento della fecondità dopo il minimo storico del ’95, negli anni precedenti la Grande Recessione. Sul quale però ha inciso soprattutto un altro fattore, ossia l’arrivo delle straniere, con i loro altissimi (per noi) tassi di fecondità. Adesso tendiamo a dimenticarcene, ma all’epoca si parlò di un nuovo mini baby boom: molto diverso da quello degli anni Sessanta, per i numeri, per la sua intensità, per la sua pervasività: infatti fu un fenomeno che interessò essenzialmente il Centro-Nord. Ma che ci dice molto su quel che succede adesso, perché influenzato in modo decisivo dalle scelte temporali nell’arco della vita (dunque sul quando fare un figlio, non sul se) e da fattori economici: le prospettive lavorative per le italiane, la capacità attrattiva che una parte del nostro paese ha esercitato sulle famiglie straniere.

3. Gli anni della «ripresina»

Dal 1995 al 2008 il numero medio di figli per donna in Italia è salito da 1,19 a 1,45. In quella media c’è una risalita del tasso di fecondità delle italiane (a quota 1,34) e...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. Meno figli per tutte
  3. 2. La famiglia stretta e fragile
  4. 3. Uomini e donne
  5. 4. Misura e povertà
  6. 5. Il capitale umano
  7. 6. Ricchi e poveri di futuro
  8. Riferimenti bibliografici