La guerra
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La guerra

  1. 96 pagine
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La guerra

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Il volume affronta il problema della rappresentazione della guerra in letteratura, e in particolare nella narrativa. L'lntroduzione esamina in che modo la guerra veniva narrata nella letteratura antica, dalla Bibbia a Omero a Cesare, giungendo sino alia Rivoluzione francese. Il capitolo centrale analizza invece il problema della guerra in alcuni grandi romanzi dell'Ottocento (La certosa di Parma, Guerra e pace e La disfatta di Zola), mettendo in rilievo le forti novità rispetto all'epica e alla memorialistica. I romanzi e i diari relativi alla Prima guerra mondiale sono poi confrontati con le 'ideologie della guerra' di fine Ottocento, delle quali costituiscono una tragica smentita. Particolarmente nuova infine la sezione dedicata alla letteratura che si riferisce alla Seconda guerra mondiale. La bibliografia finale, oltre a indicare un'essenziale ma non esigua serie di saggi critici, suggerisce vari percorsi di lettura, adatti a molti livelli didattici. I riferimenti alla letteratura italiana sono sempre ampi, ma il lavoro si distingue per il taglio comparatistico, assai fecondo e chiarificatore. Frequenti sono infine i riferimenti alla tragica attualità della guerra, e al rapporto tra cinema, televisione e letteratura, che, rispetto agli altri due mezzi di rappresentazione, sembra conservare ancora intatto il proprio particolare valore espressivo.

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858122778
Argomento
Literatur

1.
Guerre vissute, guerre immaginate, guerre inventate

Perché narrare la guerra

Il primo motivo per cui la guerra è un tema fondamentale per la letteratura di ogni tempo va rintracciato nella sua assoluta rilevanza antropologica e culturale. Già le religioni e le filosofie antiche hanno fornito spiegazioni di molti fenomeni sociali e psicologici attraverso la narrazione della lotta divina o metafisica (ad es. quella fra il Bene e il Male, in qualsiasi modo rappresentati) e della lotta umana tra i singoli (ad es. Caino e Abele) e quindi tra i popoli: proprio quest’ultimo aspetto ha poi costituito la base per i primi racconti di tipo epico, esaltazione dello spirito guerriero delle varie etnie.
Oggi ci si oppone alla guerra a causa della sua irrazionalità e della sua capacità di distruzione totale, ma spesso il dominio dei mezzi audiovisivi fa sì che la nostra percezione risulti solo virtuale ed eventualmente emotiva: le immagini recenti della guerra del Golfo (1991), la prima ripresa in diretta televisiva, e poi quelle delle guerre nella ex Jugoslavia hanno fatto credere a molti di capire ciò che stava accadendo alle popolazioni coinvolte, pur senza compiere una reale esperienza. In questo contesto la letteratura può forse ancora riuscire a proporre un’interpretazione più profonda degli avvenimenti, indagando il loro versante nascosto, non riducibile all’esteriorità visibile. Parlare di letteratura e guerra non è dunque nemmeno adesso una sorta di divagazione, dal momento che i soli aspetti politici e militari non sono in grado di esaurire la conoscenza di quanto veramente accade, anche là dove le televisioni di tutto il mondo filmano e trasmettono ininterrottamente (ma oltretutto esistono le guerre dimenticate, perché poco interessanti per i Paesi non coinvolti).
Ho sentito necessaria questa premessa per non iniziare il mio discorso con un’asettica catalogazione: credo davvero che si possa capire molto delle guerre storiche ripercorrendo quelle raccontate dalla letteratura, persino se immaginate o inventate, grazie alla complessità e varietà della rappresentazione del reale che le grandi opere narrative riescono a raggiungere. Ciò non toglie ovviamente che lo studio filosofico, storico e giuridico della guerra sia indispensabile per la sua definizione, e per fortuna posso rinviare ad un recente saggio (La guerra) di Luigi Bonanate (n. 1943), che esamina con esemplare chiarezza questi aspetti. Peraltro, lo stesso Bonanate fa notare quanto poco ancora siamo in grado di dire con esattezza del fenomeno ‘guerra’, specie riguardo alle sue cause, che possono dipendere da tendenze molto differenti, come la violenza ancestrale, la passionalità, il calcolo razionale delle potenze in campo. Molte forme di lotta tra i popoli – o meglio, dopo la Rivoluzione francese (1789), le nazioni – sono state esaminate già dal più importante teorico della guerra, il prussiano Karl von Clausewitz (1780-1831), che ha fra l’altro impostato il problema della rilevanza politica di ogni azione bellica: i nazionalismi all’interno degli Stati costituiscono tuttora, assieme ai fondamentalismi religiosi, una delle ragioni più forti per lo scatenamento delle guerre o quanto meno delle lotte interetniche o addirittura civili.
Ma se vogliamo davvero comprendere le cause di queste situazioni dobbiamo cercare di analizzare i motivi consci e inconsci che muovono gli esseri umani a tentare di distruggere i loro simili sentiti come nemici. In particolare, fra l’Ottocento e il Novecento Friedrich Nietzsche (1844-1900) ha invocato il principio della ‘volontà di potenza’ per capovolgere l’andamento storico e annientare le forze che si oppongono alla realizzazione del ‘superuomo’ (ed è purtroppo inutile ricordare quali influssi, magari impropri, questa e altre filosofie vitalistiche ebbero sulle ideologie belliciste del Novecento). Dal canto suo Sigmund Freud (1856-1939) nelle opere scritte dopo la I guerra mondiale ha individuato due pulsioni psichiche fondamentali, Eros e Thànatos (‘Amore’ e ‘Morte’ in greco), le quali si evidenziano soprattutto nei periodi bellici.
È importante notare che di frequente le spiegazioni di tipo filosofico esulano dall’àmbito strettamente scientifico e ricorrono a racconti, magari a sfondo allegorico. Il fatto è che la narrazione della guerra non appare sostituibile da schematizzazioni strategiche o da descrizioni statistiche: la guerra è molto più che un insieme di vicende militari e politiche. Ciò spiega perché sono i racconti bellici a interessarci e a rimanere impressi nell’immaginario collettivo. Naturalmente, possiamo individuare molti tipi di racconti, dai resoconti dei testimoni, ai pezzi giornalistici o cronachistici, ai testi dalla più evidente valenza artistico-letteraria, ossia caratterizzati da una forma elaborata, che spesso è collocabile all’interno di un genere specifico.
Io cercherò di concentrarmi sulle forme di narrazione lunga, proponendo però riferimenti alla lirica di guerra, alla storiografia (anche a carattere cronachistico o giornalistico), e talvolta ad altre arti, come la pittura, la musica o il teatro. Molto significativo sarà poi, soprattutto in sede di conclusioni, il confronto con il cinema e la televisione, che hanno fortemente inciso sul modo di narrare gli avvenimenti bellici.

La guerra nella narrativa antica:
epica e memorialistica

Nell’antichità possiamo riconoscere due grandi tipi di narrazione letteraria della guerra, l’epica e la memorialistica (non mi soffermo invece sulla lirica, che meriterebbe un discorso a parte). La memorialistica aveva però una forma piuttosto diversa da quella moderna, essendo molto più legata ad alcuni modelli storiografici, come vedremo meglio.
Riguardo al rapporto tra l’epica e la guerra va innanzitutto ricordato quanto dice Georg W.F. Hegel (1770-1831). Nella sua Estetica (Aesthetik, lezioni pubblicate postume nel 1832) il filosofo tedesco sostiene che l’epica deve rappresentare una totalità unitaria, capace di dar conto da un lato dello sfondo universale, dall’altro dell’avvenimento individuale, ossia dell’impresa compiuta dall’eroe. Date queste premesse, uno degli argomenti più adatti all’epos è il conflitto bellico, perché esso coinvolge le nazioni straniere (non adatte all’epica ma al dramma sono le lotte civili), e insieme consente di mettere in luce il coraggio dei singoli combattenti. Hegel traccia anche una storia dell’epopea (solo per aspetti secondari coincidente con la periodizzazione ricavabile dalla Scienza nuova di Giambattista Vico, 1668-1744), partendo da quelle orientali, passando attraverso quella greco-latina, per giungere a quella cristiana nelle sue varie fasi; spesso le analisi delle opere risultano tuttora assai pertinenti, sebbene non manchino sopravvalutazioni romantiche dei caratteri più spontanei e popolari (ad es. di Omero) di contro a quelli raffinati e aristocratici (ad es. di Virgilio). Il punto qui essenziale è la chiara indicazione dello stato di conflitto come tipico dell’epica: ciò rientrava perfettamente nella concezione hegeliana della storia, ma corrisponde di fatto a quanto possiamo ricavare dai racconti epici conservatici. L’epopea sancisce la coesione e la forza di un popolo a partire da un’azione di guerra e dalle imprese dell’eroe che più di ogni altro ha simboleggiato il valore della sua gente. Su questa base comune le connotazioni della narrazione epica possono essere assai diverse, a seconda dello ‘spirito del popolo’ cui appartengono.
Nella Bibbia la guerra del popolo d’Israele è prima di tutto santa, ossia fatta secondo il volere dell’unico Dio, che non può tollerare la presenza di altri culti all’interno della sua gente, e che ordina la distruzione degli dèi stranieri. Questo fece sì che le lotte degli ebrei contro gli egiziani o le popolazioni della regione palestinese prima, e poi, a distanza di secoli (dal XIII a.C. fino al I d.C.), contro le grandi potenze come Babilonia o Roma fossero accomunate dal carattere religioso, ovvero dalla fedeltà o meno alla legge di Jahvè. La narrazione di queste battaglie viene scritta in tempi molto diversi, e secondo stili assai lontani l’uno dall’altro; tuttavia, le vicende di Israele sono collocate in una dimensione unitaria, la storia intesa come insieme di avvenimenti che devono avere un fine, ossia la salvezza, attraverso la realizzazione delle promesse del Signore. Ecco dunque che l’epica biblica appare innanzitutto la narrazione di vicende spiegabili perché corrispondenti al volere divino. I singoli eroi potevano però agire scostandosi da quella volontà, e in questo caso l’intero popolo incorreva nel castigo, come accadde all’epoca della distruzione di Gerusalemme (586 a.C.) e dell’umiliante cattività babilonese: un esempio è quello di Saul, re che doveva accettare di essere sostituito da Davide, il più grande sovrano dato da Dio al suo popolo, e che invece preferì combattere anche contro di lui, finendo sconfitto e mettendo a repentaglio Israele, poi salvato dallo stesso Davide. Le guerre degli ebrei sono perciò innanzitutto prova della loro fedeltà, tanto è vero che, contrariamente alla prassi di tutti gli altri popoli antichi, il bottino di guerra non era conservato, ma offerto in sacrificio a Jahvè, il quale, come si ricava ad es. da molti passi dell’Esodo o del libro di Giosuè, era rappresentato come un comandante-guerriero. D’altro canto, la necessità della lotta violenta non è riconducibile direttamente a Dio: è nell’uomo segnato dal peccato che può sorgere l’odio fratricida di Caino, mentre la terra promessa di Canaan è essenzialmente luogo di pace. La guerra è inevitabile contro coloro che vogliono il male, specie se idolatri, ma progressivamente aumenta la propensione alla pace, che trova corrispondenza nell’immagine di un Dio che non vuole la morte del suo popolo e nemmeno dei suoi nemici: nei versi raccolti nel libro di Isaia (scritto in più tempi, prima e dopo l’esilio babilonese) si staglia una figura pacificatrice, l’Emmanuele, il messia che sarà donato a Israele, e che i cristiani identificano con Gesù. La prospettiva dell’avvento di un regno di pace contrasta però con la necessità di una guerra finale contro Satana e i demòni, ancora presente nel libro conclusivo della Bibbia cristiana, l’Apocalisse, che costituisce l’esempio più alto di una forma letteraria dall’accentuato e oscuro carattere simbolico, su cui avrò modo di tornare.
Nell’epopea più canonica del mondo occidentale, l’Iliade (Iliàs) di Omero (VIII sec. a.C.?), si racchiudono invece i significati essenziali della cultura greca riguardo alla guerra. La scelta di narrare la lunga storia dell’assedio di Troia (circa XIII sec. a.C.) attraverso un solo episodio, l’ira di Achille con tutte le sue conseguenze, appare dovuta non solo a motivazioni letterarie, che saranno in parte indagate da Aristotele (384-322 a.C.) nella Poetica, ma anche etiche e comportamentali. È infatti la menis (termine che viene tradotto, semplificando, con ‘ira’) che spinge alla lotta gli dèi e che segnerà il conflitto attraverso le azioni del semidio Achille. La sua menis è all’inizio conseguenza della perdita dell’onore: Agamennone, pur essendo capo della spedizione greca, non aveva diritto di sottrarre la bella Briseide al più valoroso dei suoi. Questo aspetto è fondamentale per l’epica greca, perché indica che, al di là delle leggi e delle gerarchie, solo il grande eroe può combattere e vincere, in primo luogo appunto per il suo onore. Neanche quando i Troiani saranno ormai a un passo dalla vittoria Achille accetterà compensi che sminuirebbero il suo giusto sdegno, e ritornerà a combattere solo quando lo spingerà il desiderio di vendicarsi contro il troiano Ettore, assassino del suo amico fraterno Patroclo. In questo caso è l’eros nobile tra combattenti a essere infranto, e l’ira di Achille diventa furibonda, portandolo a compiere stragi sino allo scontro con l’eroe nemico (libro XXII), al cui cadavere non verrà risparmiato alcun oltraggio: solo dopo un incontro con Priamo, re di Troia e padre di Ettore, il corpo viene restituito, e la vendetta abbandonata, perché così impongono gli dèi. Il poema si chiude (libro XXIV) con i funerali di Ettore, ma i lettori (o, quando l’epos era ancora orale, gli ascoltatori) sanno che il Destino vorrà la fine di Troia e anche la morte di Achille. La guerra omerica è dunque scontro di eroi e divinità, ma gli uni e le altre compiono azioni che paiono soggette a una forza più grande, l’Anànke (la ‘Necessità’), s...

Indice dei contenuti

  1. 1. Guerre vissute, guerre immaginate, guerre inventate
  2. 2. «Guerra è sempre» (Primo Levi)
  3. 3. Bibliografia
  4. L’autore