I napoletani
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I napoletani

  1. 280 pagine
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I napoletani

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La Repubblica partenopea del 1799, la Napoli borbonica e quella della belle époque sospesa tra café chantant e teatri, la funicolare celebrata dai futuristi, il rigore intellettuale di De Sanctis e Croce, le produzioni cinematografiche della Titanus, Totò, Eduardo De Filippo, gli artisti, i poeti, gli scrittori, i giornalisti, i filosofi, il genio di Renato Caccioppoli, i cineasti e le soubrettes. Ma anche le guerre, la povertà, le epidemie, le violenze, i misteri. Il comandante Achille Lauro e la politica del dopoguerra, il qualunquismo, la delinquenza, gli scugnizzi del vicolo, i bambini proletari e i ragazzi di Scampia. Una guida d'autore ai napoletani di ieri e di oggi.

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Informazioni

Anno
2014
ISBN
9788858118610

Città di mare con narratori

«Passeggiata alla riva di Chiaia, Castel dell’Ovo, Maschio Angioino, Castel Sant’Elmo, Rettifilo. Napoli mi sembra una città piena di esaltazione ch’esalta. Partenza per Capri. Il Vesuvio sembra un grosso pennacchio. Fantastico. Penisola Sorrentina e Sorrento? Tutto questo paesaggio sarà magnifico e fantastico quanto si vuole, ma, purtroppo, la fantasia non vi trova tempo per lavorare. Il lavoro è già compiuto e non c’è niente da dire». Incertezze toponomastiche a parte, il capitolo del racconto di Napoli si potrebbe aprire e chiudere qui, sulle parole di resa che il versiliano di Modena Antonio Delfini affida al suo diario del 1930 riferendosi alla giornata dell’8 luglio. Ne verrebbe l’immagine di una città che con il suo abbaglio di realtà invade lo sguardo dell’osservatore, rischia di prosciugarne l’immaginazione, non lascia margini all’elaborazione creativa. Impressione decisamente non lontana dal vero, perché Napoli è certamente convinta di essere già narrata in sé e di potersi quindi autorappresentare, autodescrivere, autogiudicare. Tutto da sola. Pare non sentire alcun bisogno di essere raccontata da altri: il lavoro è già compiuto e non c’è niente da dire.
Salvo poi scoprire che non c’è luogo al mondo con maggiore capacità di generare tante divergenti e diverse narrazioni. «Napoli ha la struttura di un romanzo. Le strade sono piene di storie che chiedono di essere trascritte», ebbe a dire Tahar Ben Jelloun evidentemente suggestionato dal primo impatto avuto con la città. La faceva facile, probabilmente non teneva nel giusto conto la potente forza prevaricatrice che Napoli esercita, finendo spesso per impossessarsi della mano dell’autore, guidandone il percorso, addirittura sovrapponendosi. E allora l’impresa di raccontare una città del genere non può ridursi al gesto automatico e immediato di consegnarsi all’abbraccio della sua realtà, se non si voglia essere pietrificati dall’inesorabile Medusa della lezione americana di Italo Calvino. Conviene invece dotarsi di qualche precauzione, alla maniera di Eugenia, la bambina protagonista del racconto Un paio di occhiali di Anna Maria Ortese nel Mare non bagna Napoli. Eugenia, miopie e povera, un giorno ebbe in regalo da zi’ Nunzia, la signora del vicolo, un paio d’occhiali per poter distinguere finalmente con nitidezza le cose del mondo, però lei ne soffrì, stette male, svenne fino a che non le tolsero dal viso quelle lenti pericolose. «Figlia mia, il mondo è meglio non vederlo che vederlo», aveva avvertito Nunzia. Per potersi confrontare c’è bisogno di schermi protettivi. Efficace metafora che conviene ricordare.
A Napoli è la geografia metropolitana a costituire un’eccezionale occasione narrativa, suscitando una fertilissima opportunità di produrre racconto. La pianta urbana si impone immediatamente come spazio letterario. È quella «molto vincolante ritmica della comunità» di cui parla Walter Benjamin; è l’«antica mappa minuziosamente disegnata» che l’ufficiale inglese, al termine del suo viaggio nel dramma della città, ammira dalla terrazza di San Martino in Napoli ’44 di Norman Lewis; è il paesaggio di case, cupole, campanili e golfo che spinse Riccardo Ricciardi ad osservare – ancora da San Martino e in compagnia di Guido Piovene, in città per il suo Viaggio in Italia del 1957 –: «Bello, ma io non posso fare a meno di pensare quante preoccupazioni, dolori sono là dentro». Attraversando le sue strade, i suoi vicoli, le sue piazze si ha l’impressione di riuscire a introdursi nella sostanza della porosità napoletana descritta da Benjamin nella pagina del 1924:
Edifici e azioni si trasformano gli uni nelle altre in cortili, arcate, scalinate. A tutto si lascia lo spazio per diventare teatro di nuove costellazioni mai viste prima. Si evita il definitivo, il codificato. Nessuna situazione, così com’è, sembra pensata per sempre, nessuna forma impone: «Così e non altrimenti».
Se Bertrando Spaventa diceva non senza ironia che «A Napoli si nasce filosofi e la filosofia è la cosa più facile di questo mondo», altrettanto si potrebbe ben ribadire dei narratori. Stabilire quanto siano essi riusciti a offrire il Romanzo della Città, cioè quello in grado di cogliere i tratti significativi della sua identità e di catturarne il senso dandogli uno statuto letterario, è altro discorso, probabilmente ascrivibile alla caratteristica precipua dei napoletani di maturare visioni diverse, opposte, addirittura contraddittorie su quanto osservano. Napoli, in fondo, altro non è che la somma – non la sintesi – delle tante Napoli che ognuno intende rappresentare.

L’immagine chiusa

La questione del racconto di Napoli diventa allora quella delle idee che i napoletani maturano di sé e manifestano attraverso la pratica letteraria. Un’attendibile data d’inizio può essere il 1860: punto di partenza peraltro già autorevolmente segnalato da Francesco De Sanctis e Benedetto Croce, che costituisce un momento di svolta per il destino della città e quindi anche per la sua rappresentazione. Osservando proprio la vita che si svolge all’interno dell’impianto urbano dopo l’unità, ci si accorge che non regge più l’immagine edulcorata ed elegiaca consegnata dalle incantate pagine dei viaggiatori del Grand Tour: l’inquietante e fascinoso ossimoro del paradiso abitato da diavoli conferma soltanto il lato infernale di una città preda di sottosviluppo sociale e di degrado morale pressoché unici in Europa. Chi visita Napoli ne riporta testimonianze di degrado e sottosviluppo estremi, alla maniera dell’inglese Jessie White Mario nella Miseria di Napoli e del toscano Renato Fucini con Napoli a occhio nudo, libri entrambi usciti nel 1877. È Matilde Serao, come già s’è visto, a proporsi precisamente di ribaltare «la retorichetta a base di golfo e di colline fiorite» e Francesco Mastriani diventa l’interprete della città stracciona e sottoproletaria che mette in scena tra assassini, prostitute, figli della colpa e lazzari la commedia umana dei bassifondi. Napoli, da antica capitale del Regno delle Due Sicilie, diventa metropoli meridionale nell’Italia unita, per giunta piemontesizzata nelle sue attività politiche e istituzionali. La depressione provocata dalla decadenza identitaria si aggiunge alle arretratezze economiche e sociali che il regime dei Borbone aveva paternalisticamente gestito e mai strutturalmente risolto. Napoli è rubricata come un’ingombrante questione nazionale.
Di Mastriani nel 1863 esce I vermi e tra il 1869 e il 1870 I misteri di Napoli. Di lui scrive Jessie White Mario: «Chi vuole apprezzare i lavori di Mastriani deve prima veder Napoli e poi leggerli; se no, chiuderà i suoi libri dicendo che sono esagerazioni da romanziere, ma dopo aver visto con i suoi occhi esclamerà: purtroppo egli ha scritto la verità». Nel 1884 Matilde Serao pubblica Il ventre di Napoli, romanzo-denuncia che nasce dai giorni del colera. Il realismo popolare, socialisteggiante per Mastriani e ammiccante alla piccola-borghesia per la Serao, si contrappone ai reazionari feuilleton di marca borbonica.
Contro tali esemplari letterari, in verità, appare decisamente più sovversiva la scrittura di Vittorio Imbriani, discepolo desanctisiano in Svizzera e quindi almeno culturalmente distante dalle suggestioni realistiche della città, il quale preferisce guardare a Giambattista Basile, che studia, e cimentarsi in invenzioni linguistiche e sperimentazioni parodiche protogaddiane, artifici immaginifici e recuperi eruditi di una tradizione pirotecnica e grottesca. Però, ed evidentemente a causa della sua particolarità, la fiaba Mastr’Impicca del 1874, il romanzo Dio ce ne scampi dagli Orsenigo del 1876, i Ghiribizzi del 1877, le sue novelle e i suoi saggi non riescono a etichettarlo come narratore di Napoli, facendone semplicemente il più italiano degli scrittori napoletani di secondo Ottocento, felice eccezione in un panorama letterario di pochezza e povertà, come lo giudicò Croce, soprattutto se messo al confronto con la ricchezza qualitativa della filosofia. Per ritrovarne l’orma bisognerà attendere circa la metà del secolo successivo.
Da parte loro, Mastriani e Serao descrivono una Napoli dominata da camorra e sfruttamento, precarietà del lavoro e della vita, straziata dal colera e in attesa di un intervento dei massimi livelli del potere istituzionale o della provvidenza divina, comunque di un risolutivo miracolo. Dipingono – e questa è la prima novità formale di lunga durata che nasce in quegli anni – il ritratto della città che si estende come un immenso interno, uno spazio chiuso articolato in fondaci, bassi, vicoli, piazzette, budelli che non sembrano mai toccati dalla luce e sono mille miglia lontani dal golfo leggendario. È la Napoli dell’epos popolare metropolitano, dove la luce del sole si è spenta, soffocata dall’oscurità, popolata da gente sconfitta dalla vita, sprofondata negli inferi di una condizione di povertà che si contrappone alla rappresentazione borbonica che la voleva aperta al cielo e affacciata sul mare.
L’immagine chiusa della città (la definizione è di Emma Giammattei) diventa una misura costante nella letteratura di secondo Ottocento e conferisce al racconto di Napoli una cifra che rimarrà a lungo impressa nel suo tessuto. Da Mastriani e Serao passa a Salvatore Di Giacomo, che nel 1883 inaugura il suo repertorio di versi e novelle con Minuetto settecentesco, e a Ferdinando Russo, che nel 1887 pubblica Sunettiate. Il primo avvolge la realtà napoletana in un sentimentalismo lirico che Pier Paolo Pasolini chiamerà petrarchismo, fa sfebbrare la tensione drammatica, alleggerisce il peso tragico degli eventi, aggiunge pietà umana all’invettiva sociale. Il secondo dà parola e gesto al più variegato proletariato da marciapiede, ai guappi e ai camorristi che interpretano la vita alla maniera di una quotidiana sceneggiata, al popolo minuto che sente di essere la vera anima della città. Agli opposti stilistici, Di Giacomo e Russo si muovono negli stessi luoghi urbani e nei medesimi intensi ambienti sociali, il quartiere, i vicoletti, il marciapiede, la taverna, il cortile, i fondaci e raccontano la varia umanità dolente che questi luoghi popola. E insieme concorrono a scrivere quell’extra-testo della realtà cittadina che è la napoletanità: ingannevole sistema di segni e immagini che spruzzando macchie di colore locale e allegria della vita sulla città del malaffare e della violenza opera una sorta di risarcimento in moneta oleografica della decadenza in cui Napoli è piombata. Per struttura portante ha la struggente nostalgia per la città di una volta, arcadia lontana probabilmente mai davvero esistita, felicità perduta che la Natura aveva donato e che la Storia ha distrutto: «Napoli nobilissima», la rivista che nel 1893 Di Giacomo fonda con Benedetto Croce, e ’Nparavise, il poemetto di Russo del 1891.

Il colore locale

Occorrerà attendere il teatro della strada di Raffaele Viviani – Il vicolo è del 1917 – per recuperare un contatto autentico e non bozzettistico con la realtà napoletana. E sarà un colto flâneur crociano a parlare di due letture della città. Gino Doria, nella sua preziosa raccolta Il colore locale del 1930 e poi nelle Strade di Napoli del 1943 e nel Napoletano che cammina e altri scritti sul colore locale del 1957, sceglie di muoversi ancora all’interno della topografia urbana, ma per rivelare la pericolosa ambiguità che essa nasconde. Attraversandola, richiama nomi, storie, leggende e distingue così tra l’immagine costruita a consumo degli stranieri, che mostra «gli ostentati cenci multicolori, i maccheroni mangiati con le mani, il falso scugnizzo, il falso guappo, tutte le mille falsità della vita napoletana», e l’altra, in cui «sono migliaia di ricordi ammucchiati in un punto, sono abitudini millenarie localizzate in un altro, sono tutte le gioie e tutti i dolori di un popolo che hanno lasciato la loro traccia in quella piazza, in quel vicolo, in quella casa». Della prima si augura che finisca «nel baratro dell’oblio» per farci respirare «con maggior sollievo», sulla seconda commenta: «Di quel colore locale, in questo senso inteso, è fatta tutta la poesia napoletana, quella vera, tutta la pittura napoletana, quella vera».
L’intenzione di Doria è di affrancare la città dall’intero apparato elegiaco in cui è stata collocata. Nelle sue considerazioni emerge una rinnovata esigenza realistica nata per reazione all’immagine di Napoli che il fascismo coltiva: di una città che, isolata dalla cultura ufficiale italiana – e, in quanto italiana, europea –, ripristina e rinvigorisce l’armamentario mitologico più stereotipato e si proietta, sull’onda delle parole d’ordine avventuristiche del tempo, verso le grandi masse e gli orizzonti dalle vaste proporzioni. Di contrasto, lo spazio chiuso finisce per diventare un luogo eversivo, che acquista la profondità della coscienza umana e dove vanno in scena drammi, inquietudini, tensioni che agitano un mondo soltanto apparentemente pacificato. È il teatro della stanza di Natale in casa Cupiello di Eduardo De Filippo del 1931, è la Napoli uggiosa e plumbea dei Tre operai di Carlo Bernari nel 1934.
Lì si svolgono due tipi di ribellione alla convenzionale messa in scena della città. Se nell’opera di Eduardo De Filippo il simbolo da abbattere è il presepe di Luca Cupiello, ignaro di quanto gli succede intorno e legato alla cerimonia della tradizione come a una estrema possibilità di sopravvivenza, nel romanzo di Bernari l’innovazione destabilizzante è data dalla configurazione di una terza Napoli rispetto a quelle del vicolo plebeo e della collina borghese: una città industriale, che si estende verso gli altiforni di Bagnoli, decentrata, annerita dal fumo delle fabbriche e bagnata dalla pioggia. Carlo Bernari – vero nome Bernard, ma dopo la censura espressamente decretata da Benito Mussolini proprio a causa del comunisteggiante suo libro d’esordio deve modificarlo su suggerimento di Corrado Alvaro – intende «alterare i contrassegni tipici, che fanno della mia città quella tale città che tutti chiamano Napoli». I tre operai esce da Rizzoli nella collana «I giovani», diretta da Cesare Zavattini e durata lo spazio di quella pubblicazione. Bernari vi racconta la storia di Teodoro, Anna e Marco. Spiegherà nella nota alla riedizione del 1965:
La Napoli che qui fa da sfondo non è il paese dell’anima, ma un punto dell’universo, somigliante a un qualunque altro punto geografico, da rintracciare nella stessa mappa storico-politica. Quelli fra i miei critici che conoscevano in quel tempo una Napoli crociana, da archivio storico per intenderci, o una Napoli digiacomiana, nei suoi riflessi lirici o drammatici (Russo o Viviani), rimasero sconcertati nel veder spuntare dai miei prati grigi, dai miei mari bituminosi ciminiere e fumo; e si domandavano da quali ripostigli letterari del Nord Europa avessi tratto quei fondali brumosi di officine, se appena pochi decenni avanti il nostro sindaco duca di Campolattaro aveva enumerato case e case, ma non una ciminiera, per chiedersi donde traesse lavoro una tale moltitudine, ridotta a plebe.
Seguendo l’indicazione che subito fornisce Piovene, si potrebbe affermare che Bernari sostituisca la gouache illuminata dalla luce del sole con la tela di Mario Sironi di cupa e piovosa atmosfera urbana industriale. L’accostamento a Sironi non rende felice Bernari, gli suona un affronto il vedersi accanto all’autore dei manifesti celebrativi del fascismo. Ma poi comprende e, sempre nella nota del 1965, ammette: «I muri screpolati di Sironi, le sue tragiche rocce, quei tenebrosi calanchi, che respingono ogni fisica identificazione col reale e si dispiegano come specchi a riflettere il furore degli uomini, la loro stanchezza di vivere, le loro paure, erano anch’esse visioni congruenti al cinema di quel periodo, ai film di Dupont, di Vidor, Sternberg, Murnau, Dreyer, Pabst, Dovženko, Ejzenštejn, Pudovkin; senza contare Buñuel del Chien andalou, il breve film surrealista del 1928 che feci in tempo a vedere a Parigi insieme ad altri esperimenti d’avanguardia, come il sovietico Tre in un sottosuolo, L’étoile de mer di Man Ray, La marche des machines di Deslaw».

Il tempo bloccato

Pur motivata in senso introspettivo, l’inedita geografia urbana disegnata da Bernari non sfugge alla claustrofilia. Lo spazio dei Tre operai rimane angusto e chiuso e, nonostante l’autore tenti di riscattarlo attraverso un albero genealogico culturale di ampio respiro europeo, l’ambito che viene delineato appare ancora estraneo all’incedere della Storia. È come se Bernari, preoccupato di sfrondare l’espressionismo del cliché napoletano e di giungere all’essenziale riducendo Napoli a un luogo ordinario del mondo, giunga ad aderire totalmente alla realtà che intende rappresentare, ora circoscritta in un interno operaio dopo che per altri era stata in uno popolare, plebeo, proletario o piccolo-borghese.
Nelle stanze di casa Cupiello e di Teodoro, Anna e Marco si ricava quindi la sensazione di una ferma immobilità. C’è una immagine di Napoli che torna particolarmente utile a rendere l’idea della città dello spazio chiuso. La fornisce l’architetto Francesco Venezia. «Napoli ha la sorte di avere un orizzonte sempre impegnato da un interlocutore», spiega Venezia mettendo a confronto il rapporto che con il mare hanno Cadice e Napoli, per specificare che in Spagna il contatto è «con un mondo di cui non si vede mai la fine». «A Napoli questo non l’abbiamo; abbiamo sempre dei dirimpettai, a 10 o a 30 miglia marine, ma sempre preva...

Indice dei contenuti

  1. La città dei destini mancati
  2. La porta chiusa
  3. I re
  4. Poeti, filosofi, soubrette e cineasti
  5. Gli uomini qualunque
  6. Il Comandante
  7. I ragazzi di Monte di Dio
  8. Il genio e i comunisti
  9. Scugnizzi
  10. Città di mare con narratori
  11. Bibliografia
  12. Ringraziamenti