Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale Falso!
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Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale Falso!

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Non ci possiamo più permettere uno Stato sociale Falso!

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Molti si sono convinti che il nostro welfare è un lusso, che mantenendo certe conquiste sociali abbiamo 'vissuto al di sopra dei nostri mezzi', e che è ora di ridimensionarci.Ma siamo sicuri che sia l'unica alternativa possibile?Siamo davvero sicuri che l'Europa è in declino perché statalista e assistenziale?Chi lo ha detto che lo Stato sociale deve essere smantellato? Ascolta l'audio della puntata di Faharenheit su Radio 3 con Federico Rampini (18 settembre 2012) Federico Rampini partecipa a "8 e mezzo" su La 7 (19 settembre 2012) Guarda il video Ascolta l'audio della puntata di 28 minuti Radio 2 con Federico Rampini (20 settembre 2012) Presentazione del libro con Mario Monti e Antonio Martino (20 settembre 2012)

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858105887
Argomento
Economia

1. L’America è un modello “superiore”?

Noi europei siamo stati nel mirino della destra americana durante tutta la campagna elettorale americana. Ho vissuto il “processo all’Europa” in prima persona, avendo seguito Mitt Romney durante la campagna elettorale, anche in volo sul suo aereo insieme a un gruppo di giornalisti americani. Romney non concludeva mai un comizio senza aver lanciato questa accusa – secondo lui infamante – a Barack Obama: «Ci vuole trasformare in uno di quegli Stati fallimentari che vediamo in Europa. Il presidente vuole che l’America diventi una società assistita, dove ciascuno dipende da un aiuto statale, come in Europa». Spesso le bordate diventavano ancora più specifiche. Ecco un’altra frase che ho sentito più volte da Romney: «Se non cacciamo via Obama, farà salire il debito pubblico americano a tali livelli che diventeremo come l’Italia e la Grecia». Per la propria autostima non è il massimo, seguire passo per passo in campagna elettorale un politico che cita il tuo paese come un insulto contro l’avversario. (Per inciso, non c’è limite al peggio: la prima volta in cui sono stato invitato a parlare come ospite in diretta nel telegiornale più seguito degli Stati Uniti, alla Nbc, è stato per spiegare se il comandante Schettino della Costa Concordia sia un archetipo del nostro carattere nazionale oppure no.)
Il fatto che dal novembre 2011 al posto di Silvio Berlusconi sia subentrato Mario Monti, ha cambiato sì la percezione del rischio-paese dentro l’Amministrazione Obama, ma nel discorso pubblico americano “Italia e Grecia” continuano a essere sinonimi di “Stati candidati alla bancarotta”. La mia costernazione la sento non solo da italiano, ma come cittadino europeo. Tutta l’Europa viene associata a un sistema statalista, assistenziale, che deprime l’iniziativa individuale e la creatività, condannandosi a una perpetua stagnazione. E fosse solo la destra americana a pensarla così... Il guaio è che a sinistra pochi ci difendono. Li capisco: l’idea che “Europa uguale declino” è diventata un luogo comune. La forza dei luoghi comuni è irresistibile, guai a mettersi contro. Pensate se Obama avesse risposto a Romney con affermazioni di questo tipo: «Non mi pare che in Europa stiano poi così male: quei poveracci dei francesi hanno una longevità media superiore agli americani; le diseguaglianze sociali in Germania e Danimarca sono un terzo delle nostre; i norvegesi hanno un reddito pro capite superiore agli americani; tutti i pae­si dell’Europa nordica piazzano i loro studenti in cima alle classifiche Ocse-Pisa sulla qualità dell’apprendimento, mentre i licei pubblici americani sono al 27° posto». Se Obama avesse osato dire queste semplici verità, apriti cielo! I suoi avversari avrebbero replicato: «Ecco la conferma che il nostro presidente è un alieno, un esterofilo, un ammiratore del socialismo europeo, quindi un antiamericano».
Ma da che pulpito ci vengono queste prediche? In che stato si trova l’America, dopo l’inizio della Grande Contrazione economica? Quello che vedo nella nazione più ricca del pianeta è un paesaggio sociale con tinte drammatiche: l’impoverimento dei lavoratori e del ceto medio, l’arretramento del tenore di vita e del potere d’acquisto. Le aspettative di intere generazioni si sono ridimensionate di colpo: non solo in Europa, anche negli Stati Uniti. Mentre scrivo, gli ultimi dati relativi al 2010 rilevano 56,2 milioni di americani che vivono sotto la soglia della povertà, fissata al livello di 22.000 dollari di reddito annuo per un nucleo familiare di quattro persone. Non tutto l’impoverimento va attribui­to agli effetti della recessione. Il reddito annuo medio per un maschio adulto che lavora a tempo pieno è regredito ai livelli del 1973. È la retrocessione della middle class, l’avvento della “società a clessidra” divisa tra un vertice di privilegiati e una base sempre più ampia di cittadini il cui potere d’acquisto perde terreno.
I dati sulla mobilità sociale sono una tremenda delusione, per chi è rimasto fermo all’iconografia dell’American Dream di una volta. Non sono solo i movimenti radicali come Occupy Wall Street o gli studiosi progressisti a denunciare il regresso della mobilità sociale verso l’alto. Perfino «The National Review», una delle riviste più autorevoli della destra, ammette che «alcuni pae­si europei o anglofoni [Scandinavia, Australia, Nuova Zelanda, Canada, ndr] ci hanno superati nella mobilità sociale». Isabel Sawhill, economista della Brookings Institution (un think tank autorevole e bipartisan) afferma che tra gli esperti «è ormai un dato di fatto accertato e condiviso: gli Stati Uniti hanno una mobilità sociale inferiore a molti altri paesi sviluppati». Una ricerca condotta dall’economista svedese Markus Jantti rivela che il 42% degli americani che nascono nel 20% della popolazione più povera, vi rimangono anche da adulti. Questa immobilità sociale è significativamente peggiore rispetto alla Danimarca, dove solo il 25% non riesce a uscire dal livello di povertà in cui è nato, ed è perfino peggiore rispetto alla “classista” Inghilterra dove solo il 30% resta bloccato nel quintile della popolazione a cui apparteneva alla nascita. «Nonostante si continui a descrivere l’America come una società senza classi – sostiene lo studioso Jason De Parle – il 65% della popolazione che nasce nel quintile (20%) più povero, rimane per tutta la vita all’interno dei due quintiles più bassi. Lo stesso vale per i privilegiati: se nasci nel 20% dei più ricchi, hai una probabilità molto elevata di rimanerci per sempre».
Il mito americano comincia a essere scosso da questa scoperta. La potenza dei numeri fa vacillare anche gli ideologi conservatori. John Bridgeland, che fu consigliere del presidente George W. Bush per le politiche sociali, oggi ammette che «le vie di accesso all’American Dream si sono ristrette». Perfino l’ex candidato presidenziale ultraconservatore Rick Santorum è arrivato a riconoscere che «ci sono paesi europei dove si accede più facilmente al ceto medio che da noi». Come si spiega che i paesi scandinavi e il Canada oggi offrano opportunità superiori, per chi parte dal basso della piramide sociale? Una causa è l’avarizia del Welfare State americano, deperito da decenni di attacchi conservatori: senza una rete minima di aiuti pubblici è più difficile sollevarsi dalla povertà. Una seconda ragione è la debolezza dei sindacati, che si traduce in livelli salariali molto bassi per i lavori più umili.
Reihan Salam sulla «National Review» sostiene che non bisogna focalizzarsi troppo sulla “mobilità relativa”, misurata rispetto agli altri gruppi sociali. Nell’esperienza di ciascuno, la mobilità assoluta conta di più: il fatto cioè che i figli degli immigrati guadagnano, regolarmente, molto più dei genitori. Un censimento del Pew Research lo conferma: l’81% degli americani ha redditi nettamente superiori ai genitori. Ma questo non basta per uscire dalla trappola della povertà.
Il numero di immigrati che tornano a casa, “votando con i piedi”, indica che la disillusione verso il Sogno è arrivata fino a loro. I più tenaci nell’alimentare la leggenda della “società di tutte le opportunità” sono sempre stati loro: gli immigrati. Ma ora qualcosa si è spezzato anche nella loro fede. La Terra promessa attira meno di una volta. I flussi di ritorno sono in aumento. I dati li fornisce il Department of Homeland Security, il superministero dell’Interno creato dopo l’11 settembre. E i controlli sempre più severi dopo l’attacco terroristico c’entrano qualcosa con il rallentamento dell’immigrazione, ma non spiegano tutto. Ecco le cifre: dal 2000 al 2004 erano entrati 3,3 milioni di illegali; invece dal 2005 al 2010 il flusso dei clandestini si è ridotto a meno della metà: 1,5 milioni. Fatta 100 la cifra totale di ingressi dal 1980 al 2010 (11,5 milioni), quelli dal 2000 al 2004 incidono per il 29%, quelli fino al 2010 del 14%: anche misurandoli così il calo è di oltre il 50%. Se passiamo dai clandestini al mondo dell’immigrazione legale, i segnali vanno nella stessa direzione. Gli immigrati legali – con visto temporaneo o Green Card a tempo indeterminato – negli Usa erano 25 milioni nel 2005 e 25,7 nel 2010. Nella rilevazione del gennaio 2012 sono scesi a 20,2 milioni. Dei 5,5 milioni che mancano all’appello, il 70% sono ri-emigrati dagli Usa. Probabilmente la maggioranza è tornata a casa.
L’America resta una società multietnica unica al mondo: con il 12% della propria popolazione che è nata all’estero (senza calcolare tutti gli stranieri ormai naturalizzati), per decenni questo paese ha irradiato una capacità di attrazione senza eguali. Ora però qualcosa si è incrinato. Il mito di un paese dove si parte dal basso e si può avere un successo straordinario scalando le gerarchie sociali, è uno dei valori fondamentali su cui è costruita questa società. Le “icone” della mobilità sociale americana si chiamarono nel tempo Benjamin Franklin, Henry Ford. Più di recente Steve Jobs: il fondatore di Apple fu abbandonato dai suoi genitori biologici (tra cui il padre siriano) che lo diedero in adozione, e allevato da una coppia del ceto medio-basso che dovette fare sacrifici per pagargli gli studi. I casi come il suo restano fantastici e quasi impossibili in Europa. La novità vera è che stanno diventando un’eccezione anche qui negli Stati Uniti.
Il crac dei fondi pensione privati tradisce un’intera generazione. Sono i baby-boomers, nati fra il 1945 e il 1965: in America i più anziani di loro arrivano adesso all’età della pensione. E scoprono di non potersela permettere. Molti dovranno lavorare fino a 70 anni, almeno a part-time, per integrare una rendita previdenziale del tutto insufficiente. Lo rivelano i dati della banca centrale, la Federal Reserve, elaborati dal Center for Retirement Research del Boston College e pubblicati sul «Wall Street Journal». Un vero disastro incombe sulla “generazione 401k”: questa sigla indica la categoria più diffusa di fondi pensione ad accumulazione. È lo strumento in voga fin dagli anni Ottanta negli Stati Uniti – e al quale si sono poi parzialmente ispirate alcune riforme europee – per integrare una pensione pubblica sempre più magra. Ma ora arriva lo choc: il complemento di reddito fornito dai fondi pensione è troppo modesto. «La famiglia media – conclude lo studio basato sui dati della Fed – con un capofamiglia tra i 60 e i 62 anni di età, oggi sul suo fondo pensione ha a malapena il 25% di quanto occorre per mantenere lo stesso tenore di vita dopo la fine del lavoro». Per i baby-boomers l’impatto è traumatico e s’impongono scelte drastiche: «Rinviare l’andata in pensione; traslocare in un’abitazione meno cara; spendere meno per l’alimentazione; rinunciare alle vacanze; una lunga serie di sacrifici a cui nessuno era preparato». È un dramma di massa, perché il 60% degli americani che si avvicinano all’età pensionabile hanno dei fondi 401k. Si tratta di strumenti che godono di un’agevolazione fiscale, ma funzionano come normali fondi d’investimento: quindi il loro valore non è stabilito per legge (come nel caso delle pensioni di Stato), bensì dipende da quanto risparmio vi è stato versato, e quali rendimenti ha fruttato. I conti sono stati sbagliati fin da principio, su tutti e due i fronti. In epoche di diffuso ottimismo, i baby-boomers si sono illusi che funzionasse la magica formula del “6+3”, ovvero “versare sul fondo il 6% del proprio stipendio, con l’integrazione del 3% versato dal datore di lavoro”. Un’ingenuità, fondata su visioni del tutto irrealistiche dei rendimenti sia azionari sia obbligazionari. Uno dei maggiori gestori di fondi, il Vanguard Group, oggi ha rifatto tutti i calcoli: «Per arrivare alla pensione con una rendita sufficiente bisogna avere accantonato per tutta la propria vita lavorativa il 15% del proprio reddito». Uno choc, una scoperta tardiva. Perfino i baby-boomers più giovani, quelli che hanno tra i 45 e i 59 anni di età, si accorgono che è troppo tardi per ricostituire il mancato risparmio previdenziale «e il 40% di loro si rassegna al fatto che dovrà lavorare molto più a lungo», rivela la ricerca. I conti sono spietati. Per una famiglia americana dal reddito medio, pari a 87.700 dollari annui del 2009, una vita decorosa richiede una pensione di 74.545 dollari lordi all’anno. La Social Security, cioè la pensione di Stato, garantisce un magro 40% dell’ultimo reddito da lavoro. Il resto doveva essere integrato dai fondi privati. Ma due crolli di Borsa, nel 2000-2002 e soprattutto nel 2007-2009, hanno falcidiato il valore di quei risparmi. «Solo l’8% delle famiglie americane – conclude lo studio – hanno sui loro fondi pensione i 640.000 dollari che sarebbero necessari». Per tutte le altre, l’età pensionabile diventa una chimera.
Tra gli stereotipi più tenaci, equamente ripartiti in Europa e in America, c’è il seguente: l’americano medio rinuncia ad avere un Welfare generoso come quello europeo, perché in cambio ha una pressione fiscale nettamente inferiore. È il “patto sociale” di una nazione più propensa al rischio, più individualista, più competitiva. Ma quanto è vantaggioso questo patto sociale? Essendo un contribuente degli Stati Uniti dall’anno 2000, ho fatto qualche verifica concreta in proposito. Anzitutto, l’idea che l’America sia una sorta di paradiso fiscale rispetto all’Europa è un’esagerazione. Non mi riferisco solo al fatto che negli Stati Uniti sia bassissima l’evasione, e quindi sono inesistenti quelle aree di “privilegio implicito” che da noi si annidano nell’economia sommersa, in certe aree di piccola impresa, libere professioni, artigiani, ecc. In America pagano tutti, con rare eccezioni, e chi prova a fare il furbo rischia grosso. Ma lasciamo stare l’evasione italiana che è un’anomalia, e facciamo un confronto più generale America-Europa. L’aliquota marginale dell’imposta federale sul reddito arriva al 35% e sta tornando al 36,5% con lo scadere degli “sgravi Bush”. A questa va aggiunta l’aliquota che preleva lo Stato di cui si è residenti: nel caso della California è stata a lungo il 10,3% e si appresta a salire al 13%. Fate la somma e vi accorgete che il prelievo non è poi così tanto inferiore all’Europa. Solo un po’ inferiore. Ma per fare i conti in tasca al “patto fiscale” americano, devo chiedermi: che cosa ottengo, in cambio delle tasse che pago? Ed è qui che il bilancio per il contribuente Usa diventa deprimente. In cambio delle tasse che pago, non ho alcuna assistenza sanitaria. L’assicurazione sanitaria me la devo comprare a parte, ed è costosissima: se spendo “solo” 1000 dollari al mese ho una polizza scadente, con buchi vistosi e ticket altissimi che devo sborsare io. Inoltre vivo nell’incertezza costante perché le compagnie assicurative (tutte private) cambiano tariffe di anno in anno, alzando il “premio” che devo pagare e riducendo le prestazioni a cui ho diritto. Non entro qui nel merito della riforma Obama perché dovrei spiegare nei dettagli una sanità americana che è una vera giungla rispetto alla semplicità di molti sistemi europei, mi limito a constatare che i benefici sono stati molto inferiori alle aspettative. In ogni caso, se proprio devo ammalarmi e finire in ospedale, mi auguro che mi succeda quando sono in viaggio in Europa... Ho avuto anche dei riscontri analoghi tra amici americani, come una coppia di San Francisco che si trovava in vacanza in Veneto quando lui si fratturò una caviglia. Al ritorno negli Stati Uniti, raccontavano di essere stati “miracolati”, cioè curati dal nostro sistema sani...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. L’America è un modello “superiore”?
  3. 2. Il modello europeo più forte che mai
  4. 3. La virtù è esportabile?
  5. 4. Le promesse che l’euro ha tradito (e perché)
  6. 5. In cerca di un nuovo “pensiero” economico
  7. 6. La grande malata