L'economia spiegata a un figlio
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L'economia spiegata a un figlio

  1. 240 pagine
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L'economia spiegata a un figlio

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Un libro avvincente. Galimberti conduce per mano il lettore e lo guida a osservare la realtà attraverso una miriade di esempi, di riflessioni, di spunti tra cronaca e storia, che riescono a dare dell'economia una non rituale dimensione dal volto umano.Gianfranco Fabi, "Il Sole 24 Ore"

La costruzione del libro, il suo linguaggio, gli esempi fatti, la mescolanza con romanzi, favole, musiche, fanno sì che la 'spiegazione a un figlio' sia una vera spiegazione, non uno sfoggio di erudizione. In questo 'libro per ragazzi' c'è una scelta di valori di base.Roberta Carlini, "il manifesto"

Per un economista ci sono tre sfide: la prima è parlare di economia ai propri pari; la seconda è parlare di economia al grande pubblico; la terza, e la più difficile, è parlare di economia ai propri figli.

Un libro prezioso che porta all'attenzione dei più giovani la rilevanza dell'economia, dai concetti fondamentali all'attualissimo tema delle disuguaglianze.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858140475
Argomento
Economics

Poveri e ricchi

Le ragioni di questo nuovo capitolo le ho esposte, cari figli, nella Prefazione, quando ho detto che ogni tanto l’economia cambia pelle, come quei serpenti che fanno la muta.
Ci sono due modi di cambiare. Il primo è quello che vede la scienza economica progredire nella quiete della meditazione dei sapienti. Nel capitolo sulle Quattro rivoluzioni ho citato quel passo dell’Ecclesiaste: «La sapienza dello scriba cresce nella quiete e nel riposo, e chi è libero da faccende diventa savio. Come può acquistar la sapienza chi regge l’aratro, e si gloria di maneggiare il pungolo e guida i buoi, è intento ai loro lavori e non parla che di vitelli?». Insomma, lasciate che la gente pensi e mediti su come funziona l’economia, e ne usciranno nuove intuizioni, nuove teorie, nuovi paradigmi: potremmo illustrare questo modo di progresso della scienza con la famosa immagine di quella statua di Auguste Rodin, Le penseur. Chiamiamo questa la «muta da pensatoio».
C’è un altro pungolo per il progresso della scienza. E la parola «pungolo» è un eufemismo che sottostima la realtà. Un economista del secolo scorso, Jacob Marschak, in un articolo del 1945, passò in rassegna la situazione della scienza economica, la progressiva comprensione di che cosa muova i cicli dell’economia, e fece un confronto con quel che muove i progressi delle altre scienze. Scrisse che nella sismologia, per esempio, i progressi «sono dovuti a migliori strumenti di rilevazione, a più affinate teorie e a più frequenti esami dei terremoti». Nel caso dell’economia, concludeva Marschak, «è tutto dovuto ai terremoti». Fuor di metafora, l’economia si decide a «cambiar pelle» quando nel mondo reale, in quanto differente dalle rappresentazioni che ne fanno i modelli economici, succede qualcosa di imprevisto. Chiamiamo questa la «muta da terremoto».
E questo «imprevisto» è di solito talmente grosso che costringe gli economisti a tornare alla lavagna e a inventarsi altre spiegazioni sugli alti e bassi del sistema economico. Ne abbiamo già avuto un sentore quando abbiamo parlato della crisi del 1929. Già allora avevo scritto: «I progressi della scienza economica sono stati sempre innescati da crisi, da realtà che rifiutano di piegarsi a previsioni e teorie e gettano nel piatto fatti e andamenti non conformi ai dettami degli esperti». La convinzione degli economisti classici che l’offerta crea la domanda si scontrò con la terribile realtà di una crisi epocale (vedi il capitolo sulla Grande Depressione). Ma perché ci vogliono milioni di disoccupati e cadute verticali della produzione e degli scambi per costringere gli economisti a cambiare idea? Forse perché gli economisti sono come noi tutti: ci diamo delle spiegazioni su come funziona il mondo, e finché l’esperienza le conferma non ci curiamo di cambiarle. Finché, un giorno...
Ma torniamo alla «muta», o, per meglio dire, alle «mute». Negli ultimi tre lustri sono cambiate, nella scienza economica, due grosse cose; anzi, tre, perché la seconda può essere scissa in due. La prima sta negli studi sull’economia «comportamentale». La seconda sta nei rapporti fra finanza ed economia. La terza sta nell’emergere di crescenti diseguaglianze. La prima, l’economia comportamentale, fu una «muta da pensatoio». La seconda e la terza furono «mute da terremoto».

L’economia comportamentale

L’economia? Una scienza triste, si dice, che ha un pallottoliere al posto del cuore, dove tutto viene calcolato e ci si preoccupa solo di avere il massimo risultato col minimo dispendio di mezzi. Dietro tutto questo vi è un’ipotesi che sta alla base dell’economia tradizionale. L’ipotesi, cioè, che l’uomo sia un animale razionale, che l’Homo sapiens sia un Homo oeconomicus, che le decisioni siano prese dopo aver attentamente soppesato il dare e l’avere, con il bilancino del farmacista e la cura di un ragioniere.
Ma l’uomo è veramente un animale razionale? Certamente sì, altrimenti l’umanità non avrebbe posato degli astronauti sulla luna e non avrebbe mandato dei robot a esplorare la superficie di Marte. Ma questo non vuol dire che tutte le decisioni (parliamo evidentemente di decisioni economiche, non di innamoramenti e dintorni) siano razionali. Abbiamo parlato più volte di Adam Smith, il padre fondatore della scienza economica. Era, abbiamo detto, un professore di filosofia morale, e la sua visione dell’economia si allargava a tanti aspetti non economici dell’agire umano. Ma poi l’economia si restrinse, divenne sempre più tecnica, si fece sempre più uso della matematica... Ha detto un premio Nobel dell’economia, Amartya Sen: «È proprio il restringimento di ottica rispetto all’ampia visione smithiana degli esseri umani a poter venir visto come una delle principali carenze della teoria economica contemporanea».
La storia economica ci offre tanti esempi di eventi in cui domina l’irrazionalità, specie per quel che riguarda la finanza: dalle crisi del Seicento e Settecento (tulipani, Mari del Sud, Mississippi...), giù fino alla crisi del 1929, alle bolle della Borsa nella cosiddetta «crisi dot.com» del 2000, e ancora fino alle recenti allucinanti pazzie che hanno portato alla Grande Recessione (ne parleremo fra poco).
Fino a non molto tempo fa gli economisti non si erano preoccupati troppo di questi episodi di irrazionalità: la grande maggioranza li considerava delle aberrazioni, delle eccezioni alla regola. Ma poi le cose cambiarono. Oggi c’è una branca dell’economia, chiamata «economia – o finanza – comportamentale», che riconosce come l’uomo sia un animale più complesso di quel che si credeva, e l’Homo oeconomicus sia in fondo un’astrazione: utile per semplificare le cose, ma insufficiente a spiegare il comportamento concreto degli esseri umani. In effetti questi studi cominciarono molti anni fa, ma è nell’ultimo decennio che hanno preso sostanza e vigore, fino ad attribuire premi Nobel ai loro maggiori esponenti (Daniel Kahneman nel 2002, Robert Shiller nel 2013 e Richard Thaler nel 2017).
Se avete letto fin qui vi chiederete: ma è possibile avere qualche esempio di queste «eccezioni alla regola» (che in fondo eccezioni non sono)?
Ne avevo già parlato in un altro libro, Economia e pazzia, e attingo agli esempi dati allora. Pensiamo a un gruppo di 25 persone, per esempio alla propria classe. Che probabilità ci sono – è la domanda – che due componenti di quella classe abbiano la stessa data di nascita? La stragrande maggioranza delle persone pensa che la probabilità sia molto bassa. Dopotutto, non sareste forse stati sorpresi a scoprire che qualcuno nella vostra classe è nato il vostro stesso giorno? La risposta giusta, però, non è quella intuitiva. La risposta giusta è che in effetti vi è una probabilità maggiore del 50% – per l’esattezza, il 57% – che nella classe vi siano due persone nate nello stesso giorno. Perché l’intuizione dà la risposta sbagliata? Probabilmente perché siamo centrati su un rapporto a due. Pensiamo: quanto è probabile che io e quell’altra persona del gruppo abbiamo la stessa data di nascita? (Quella probabilità è molto bassa: una su 365, o lo 0,27%.) Oppure pensiamo: quanto è probabile che una o più persone del gruppo abbiano la stessa data di nascita di un particolare membro del gruppo? (Quella probabilità è meno di una su dieci, o minore del 10%.) Nel nostro modo di ragionare non sembra ci sia posto per il gran numero di confronti «a due a due» che bisogna fare, incrociando ogni membro del gruppo con ogni altro, per rispondere correttamente alla domanda.
Prendiamo un altro test: il test del «falso-positivo». Ci vengono date le seguenti informazioni: 1) sulla base di test casuali, si scopre che sei affetto da una malattia; 2) questo test ha un 5% di casi «falso-positivi», cioè risulta positivo anche se il soggetto in realtà non ha la malattia; 3) l’incidenza di questa malattia nella popolazione è dell’1‰. Date queste informazioni, che probabilità avete di aver effettivamente contratto quella malattia? Quasi tutti fanno il seguente ragionamento. Al test io sono risultato positivo, cioè malato. L’unica consolazione è che questo test ha un 5% di casi falso-positivi. Quindi io spero di essere uno di quel 5%. Ma in ogni caso la mia probabilità di essere davvero malato è del 95%. Ebbene, non è vero. La mia probabilità di essere davvero malato non è del 95% ma solo del 2%. Perché? Perché l’informazione n. 3, quella che dice che l’incidenza della malattia nella popolazione è dell’1‰, è un’informazione cruciale. Spieghiamo. Poniamo che ci sia una popolazione di mille persone, delle quali, in media, solo una ha la malattia. Se tutta la popolazione fosse sottoposta al test, questo test porterebbe a scoprire quell’uno malato, ma porterebbe anche, abbiamo detto, al 5% dei casi (cinquanta persone) di falso-positivi. In tutto, 51 casi risulterebbero positivi. Se tu sei risultato positivo al test, sei uno dei 51. Ma di questi 51 solo uno è davvero malato. Quindi la tua probabilità di essere affetto dalla malattia è di una su 51, circa il 2%.
Quest’ultima «prova» sottolinea il fatto – rilevante anche per i comportamenti nelle crisi finanziarie – che la gente esagera le probabilità di eventi che in realtà hanno poche probabilità di manifestarsi. Da queste distorte percezioni delle probabilità nascono i violenti alti e bassi delle crisi, quando volta a volta le possibilità di guadagni e di perdite vengono guardate con lenti d’ingrandimento, portando a impennate dei prezzi, quando ci si affolla per entrare nel mercato, e a cadute precipitose, quando c’è la ressa per uscire.
Insomma, l’economia, come abbiamo detto già in passato, non è una scienza esatta: è una «scienza dell’uomo». E l’uomo è un impasto: di angelo e demone, di calcoli e impulsi, di affetti e avversioni...
Un altro esempio: in Israele è stato condotto uno studio su quanto spesso i giudici concedono la libertà condizionata ai prigionieri. In media lo fanno nel 35% dei casi, eccetto quando devono decidere su un caso nell’ora prima del pranzo: in quei casi la percentuale sale al 65%.
Ancora: la gente in un supermercato compra molte più lattine di minestra se, per quell’articolo, c’è un cartello che dice: «Limite: 12 per cliente». Kahneman ha anche dimostrato che è più minaccioso dire che una certa malattia uccide «1286 persone ogni 10mila infetti», che dire che uccide il «24,14% della popolazione», anche se la seconda formulazione è letale il doppio della prima. Un linguaggio vivido spesso oscura la semplice aritmetica.
E ancora: altre peculiarità nel comportamento dell’Homo sapiens costellano il sentiero delle crisi finanziarie e mettono in discussione il postulato di razionalità che ancora sottende tanta parte della teoria economica. La prima peculiarità è una «irrazionale» avversione al rischio. Supponiamo che ci venga offerta la seguente possibilità: lanciamo in aria una moneta e se viene testa vinciamo 11 euro, se viene croce ne perdiamo 10. Si tratta, a differenza dei giochi di qualsiasi casinò, di una proposta conveniente: il rendimento atteso è positivo, di mezzo euro (50% della vincita di 11 meno 50% della perdita di 10). Eppure, da ricerche sul campo risulta che moltissimi non accetterebbero questa proposta. La ragione sta nel fatto che sono avversi alle perdite: cioè sentono più «disutilità» da una perdita di 10 euro di quanto non avvertano l’utilità di 11 euro vinti. L’altra ragione sta in quel che viene chiamato il «ragionamento isolato». Cosa vuol dire? La gente razionale dovrebbe valutare, nella scommessa appena descritta, la possibilità di perdere 10 euro in relazione alla propria situazione finanziaria complessiva. Tale valutazione dovrebbe favorire l’accettazione della scommessa, dato che 10 euro normalmente sono una piccolissima frazione della propria ricchezza. Ma la gente tende a giudicare la convenienza di quella scommessa isolatamente dalla valutazione della propria ricchezza: è la possibilità di perdita in sé che viene considerata, staccata da valutazioni «al margine» rispetto al proprio stock di ricchezza.
Questo meccanismo mentale spiega perché, allo stesso tempo, le lotterie siano così popolari (il costo del biglietto – la perdita – è molto basso rispetto alla possibile vincita, e quindi l’avversione alla perdita è attenuata), e molti siano invece disposti a spendere parecchi soldi per «garanzie estese» sul videoregistratore o sulla lavatrice. In quest’ultimo caso la gente è avversa al rischio che il videoregistratore cessi di funzionare e sia da buttar via e per evitare questa perdita (che dovrebbe essere sopportabile in relazione alla ricchezza totale) è pronta a pagare queste costose estensioni di garanzia.
A volte, però, la razionalità buttata dalla finestra rientra dalla porta. Torniamo alla lotteria, anzi al lotto. Anche chi non abbia mai giocato al lotto probabilmente conosce qualcuno che l’ha fatto. Una vecchia zia, magari. Anche se adesso il lotto comincia a perdere popolarità rispetto alle nuove leve, come le lotterie o i «gratta e vinci», conserva, specie fra la popolazione anziana, un fascino secolare. Allora, cosa farebbe la vecchia zia se qualcuno le dicesse che il 37 non è uscito da 203 settimane (circa 4 anni)? Direbbe probabilmente: corri a giocare sul 37! È in ritardo ed è ora che esca! Naturalmente, non è vero. Ogni estrazione è a sé stante: quando il numero viene fuori dal canestro in cui ci sono 90 palline non c’è nessuna forza misteriosa che dia al 37 una probabilità maggiore di essere estratto rispetto agli altri 89. E in ogni caso il montepremi del lotto (cioè quello che si paga ai vincitori) è sempre inferiore a quello che gli speranzosi giocatori hanno pagato per i biglietti (o come si chiamano le cartelline con i numeri giocati).
Ma tant’è. I giocatori del lotto non ci sentono, seguono il cuore e non il cervello. Il gioco d’azzardo è una finestra i...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione alla presente edizione
  2. Introduzione
  3. Un salto nel vuoto...
  4. Che cos’è l’economia
  5. La «scienza triste»?
  6. Cattiva economia = milioni di morti
  7. (Non) c’era una volta...
  8. Lidia e Francesco e il mio e il tuo
  9. Porti aperti e coste rocciose
  10. Quello lì fa solo i suoi interessi...
  11. Viva il capitalismo, abbasso i capitalisti
  12. I fallimenti del mercato
  13. È arrivato un bastimento carico di...
  14. Quanto valgono i soldi?
  15. Le quattro rivoluzioni
  16. La Grande Depressione
  17. Il prezzo «giusto»
  18. Quanto costa il tempo?
  19. «Imagine...» di John Lennon
  20. Poveri e ricchi
  21. Ma io, che ci posso fare?
  22. Bibliografia minima