1.
Il Risorgimento:
una guerra non dichiarata,
il genocidio del popolo meridionale
“Una guerra non dichiarata provocò stragi, deportazioni, carcerazioni in massa per centinaia di migliaia di persone... un genocidio che va sotto il nome di Risorgimento.” Queste parole, recitate come un mantra dal più noto e fortunato dei revisionisti neoborbonici, Pino Aprile, sono state accolte da un folto pubblico come una verità custodita sin qui, intenzionalmente, segreta. Persino un giornalista come Lino Patruno, direttore per 13 anni della «Gazzetta del Mezzogiorno», dando voce al partito Popolo del Sud, ha scritto: “Dobbiamo capire perché la repressione si spinse sino all’uccisione di un milione di meridionali”.
Cosa c’è di vero in queste agghiaccianti “rivelazioni”? Dal maggio all’ottobre 1860, la Sicilia prima e le regioni dell’Italia meridionale continentale dopo furono teatro di combattimenti anche aspri fra i volontari per l’Italia guidati dal generale Giuseppe Garibaldi e l’esercito napoletano del re Francesco II di Borbone. Dopo la battaglia sul Volturno conclusasi il 2 ottobre 1860, un mese più tardi si arrese la fortezza militare di Capua con il decisivo intervento dell’esercito piemontese, che il 12 ottobre aveva attraversato il fiume Tronto, all’epoca il confine del regno delle Due Sicilie con lo stato Pontificio. La resistenza borbonica si concentrò allora nelle tre piazzeforti di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, cadute poi rispettivamente il 13 febbraio, il 12 marzo e il 20 marzo 1861. Dal 1861 al 1875 il nuovo regno d’Italia, proclamato a Torino il 17 marzo 1861, avviò una sanguinosa repressione del ribellismo contadino, passato alla storia come “lotta al brigantaggio”, alla quale prese parte, spesso con maggior ferocia dell’esercito divenuto italiano, la borghesia agraria meridionale. Aprile si chiede retoricamente se l’aggressione senza dichiarazione di guerra da parte dell’esercito sabaudo sia stata la fonte del diritto per il decreto del 20 dicembre 1860 che istituì la prima leva militare nazionale, ma dimentica che il 21 ottobre si era svolto il plebiscito che aveva sancito la scelta popolare di unità nazionale sotto il re Vittorio Emanuele II. Se, pure, non vi è dubbio che il clima nel quale quella consultazione si svolse abbia potuto largamente anticiparne e favorirne l’esito, è altrettanto indubbio che a quella consultazione presero parte oltre tre quarti degli aventi diritto al voto, circa il 25% della popolazione (tutti i maschi di età superiore ai 21 anni), e che il voto fu in linea con quanto sperimentato negli altri plebisciti di annessione nel corso del 1860. Nel Mezzogiorno, infatti, la percentuale dei votanti (78%) e i favorevoli sul totale (oltre il 99%) non si discostarono da quelli registrati nei ducati Padani e nelle legazioni Pontificie, in Toscana, nelle Marche e in Umbria presi insieme (75% di votanti e 98% di favorevoli). Si deve, infine, osservare che anche la speciosa polemica sulla mancata garanzia di segretezza del voto è frutto di una lettura al di fuori di quel contesto storico. In quegli anni nessun paese europeo, in nome dell’idea che il buon cittadino dovesse assumersi pubblicamente la responsabilità delle sue scelte, contemplava il voto segreto. In Gran Bretagna la scheda e la cabina elettorale sostituiranno il suffragio espresso a voce alta e all’aperto solo nel 1872. Il Belgio dovrà attendere il 1877, la Prussia il 1918 e anche in Italia, come in Francia, la segretezza del voto sarà pienamente garantita solo alla viglia della prima guerra mondiale.
Nel complesso gli avvenimenti del ’60 sono solo la parte conclusiva di una lunga guerra civile che, sin dal 1799 e attraverso i memorabili moti del 1820-21 e del 1847-48, aveva contrapposto la parte più progredita e colta delle Due Sicilie a una monarchia rivelatasi via via sempre più conservatrice e reazionaria. L’intervento piemontese fu probabilmente decisivo, ma il carattere preminente di quella guerra resta rivoluzionario. Fu l’ultimo atto di implosione della società napoletana, dilaniata dallo scontro fra liberali-rivoluzionari e conservatori-reazionari, una linea di demarcazione che aveva finito, dopo l’infelice esito del ’48, per attraversare tutti e ogni cosa. La guerra civile e la rivoluzione furono l’inevitabile sbocco e non dovevano, certo, farsi precedere da una formale dichiarazione di guerra.
Il primo autore della storia italiana della seconda metà del Novecento a dare linfa al revisionismo neoborbonico è stato Carlo Alianello. Il suo cattolicesimo spinto al misticismo, l’ostilità nei confronti della razionalità e della scienza, la concezione della storia senza prospettive di evoluzione e di progresso consentono di definirlo più reazionario che conservatore. “Libertà, eguaglianza, democrazia, progresso” sono per Alianello “il Pantheon del gregge moderno”. Non è un caso che già in quegli anni si fosse saldata a lui anche una certa sinistra, ostinata nemica dell’illuminismo, della democrazia, del liberalismo. Molto del successivo revisionismo si deve ad Alianello. È lui ad aver ingenerato il mito del brigantaggio come sollevazione popolare contro i Piemontesi, sempre lui ad aver ipotizzato il complotto massonico con la complicità inglese e la corruzione dei generali napoletani, ancora lui ad avere equiparato per primo le truppe piemontesi alle SS naziste. Il suo scritto più famoso, La conquista del Sud, è stato scambiato per un saggio, ma è in realtà un romanzo, improntato a una cupa nostalgia verso l’ex regno delle Due Sicilie. Basta leggere il capitolo conclusivo, Al chiaro di luna, dove si svolge un dialogo immaginario tra l’autore e lo spirito di un soldato napoletano capitolato a Messina. Alianello racconta all’ignaro fuciliere Nicola Marturano che il suo comandante, Gennaro Fergola, è stato umiliato e ucciso dal generale piemontese Enrico Cialdini dopo esser stato costretto alla resa. Si tratta, tuttavia, di pura invenzione narrativa. Leggiamo cosa scrive nel suo diario il maggiore generale Nicola De Martino di Montegiordano, numero due della gerarchia borbonica a Messina e non sospetto di simpatie liberali: “[Il 13 marzo 1861 il generale Cialdini] ha riunito tutti e 4 i Generali e con molta decenza ci ha detto: ‘Se volete alloggiare in Città, è a vostra disposizione, ma io temo della popolazione che è molto irritata contro di voi ed io vorrei evitare sconcerti, del resto è a vostra scelta. Tutto ciò che potete desiderare, se volete accomodarvi nella Cittadella, potete scriverne al Generale Chiabrera che vi fornirà di quanto bisognate: stoviglie, piatti, farvi venire commestibili ecc.’ [...] [Il 16 marzo 1861] alle ore 11 a.m. i Generali Fergola, de Martino, Cobianchi, De Stefanis, Anguissola ed il graduato Begani ci siamo imbarcati sul vapore da guerra ‘La Sirena’, comandato dal Capitano di Vascello Caso; parimenti si sono imbarcati 154 dei nostri soldati che hanno terminato il loro impegno. E mentre si preparava il legno alla partenza, è montato a bordo l’Ammiraglio piemontese Persano il quale con molte gentili espressioni ci ha augurato il buon viaggio felicitandoci dell’onorevole condotta da noi tenuta per la difesa della Cittadella con quel coraggio e fedeltà che i regolamenti prescrivono e che ci terranno in stima ed onore per tutta l’Europa. Suppongo che abbia dato disposizione al Comandante il vascello di ben trattarci stante che nei due pranzi e dejuné siamo stati lautamente trattati con bordeaux, champagne e marsala”. Ecco come andarono le cose. Il vecchio maresciallo napoletano, dopo un brevissimo periodo di prigionia, fu congedato e autorizzato a conservare il proprio grado di generale, gli venne attribuita regolarmente la pensione e morì dieci anni dopo i fatti di Messina.
È ancora Alianello a scrivere: “Secondo la stampa estera, dal gennaio all’ottobre del 1861, si contavano nell’ex regno delle Due Sicilie 9.860 fucilati, 10.064 feriti, 918 case arse, 6 paesi bruciati, 12 chiese predate, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 13.629 imprigionati, 1.428 comuni sorti in armi”. E più avanti, citando le Lettres d’un ministre émigré del maresciallo Pietro Calà Ulloa, primo ministro di Francesco II in esilio a Marsiglia: “La distruzione dei Sanniti non fu dopo tutto la base dell’Impero romano? Da quella strage nacque infatti l’unità del mondo civile. Silla aveva tutte le sue ragioni per far sgozzare mille di questi ribelli in un giorno solo. Gli italiani hanno fucilato i loro fratelli fino a dodici mila, ma in quattro anni”.
Il romanziere reazionario e soprattutto il maresciallo napoletano, vissuto da protagonista in quegli anni, erano già inclini a enfatizzare la realtà ma non avrebbero mai potuto immaginare di essere surclassati molti anni dopo da Aprile, che senza mezzi termini parla di “genocidio” del popolo meridionale, pur aggiungendo: “Sulla cifra complessiva dei morti, non mi esprimo, non potendola provare”. Tralasciando di commentare l’uso sconsiderato del termine genocidio – che indica la sistematica distruzione di un gruppo umano – non è già questa un’ammissione di ignoranza...