La lotta di classe
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La lotta di classe

Una storia politica e filosofica

  1. 400 pagine
  2. Italian
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La lotta di classe

Una storia politica e filosofica

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Un libro che riassume tutta la carriera di studioso di Losurdo, che ridiscute filosoficamente la nozione di lotta di classe per ritrovarne sia la portata per la storiografia, sia il suo valore per le lotte sociali ancora aperte. Gianni Vattimo, "L'Espresso"

Che fine ha fatto la lotta di classe? A essersi smarrita oggi è la coscienza di sé come individui e come membri di un gruppo senza cui non si riesce a organizzare una visione, non si definiscono responsabilità e cause e non si riesce a passare all'azione politica. Massimiliano Panarari, "La Stampa"

Losurdo intreccia problemi teorici e analisi storica con grande rigore filologico, con l'obiettivo di respingere le letture economicistiche della dottrina marxiana, mostrandone gli intrecci profondi con le lotte di liberazione nazionale. Non come la volpe che sa molte cose, per dirla con Berlin, ma come il riccio che ne sa una grande. Massimo Adinolfi, "Il Messaggero"

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Informazioni

Anno
2015
ISBN
9788858123195
Argomento
Filosofia

I. Le diverse forme della lotta di classe

1. «Liberazione della classe operaia» e «liberazione nazionale»

I due filosofi e militanti rivoluzionari non hanno esposto e chiarito in modo sistematico una tesi che pure svolge un ruolo centrale nell’ambito del loro pensiero. E, tuttavia, per rendersi conto di quanto sia riduttiva e fuorviante la consueta lettura della teoria della lotta di classe, basta dare uno sguardo alla piattaforma teorica e politica che si può leggere in Marx (e in Engels) a partire già dai loro primi scritti. Il punto di partenza è ben noto: pur avendo conseguito risultati importanti, il rovesciamento dell’Antico regime e la cancellazione del dispotismo monarchico e dei rapporti feudali di produzione non costituiscono la conclusione del processo di radicale trasformazione politica e sociale che s’impone. È necessario andare ben al di là dell’«emancipazione politica», che è il risultato della rivoluzione borghese: si tratta di realizzare l’«emancipazione umana», l’«emancipazione universale» (MEW, 1; 356; 370 e 390). Una nuova rivoluzione si affaccia all’orizzonte, ma quali sono i suoi obiettivi?
Occorre rovesciare il potere della borghesia al fine di spezzare le «catene» da essa imposte, le catene della «schiavitù moderna» (MEW, 4; 493 e 84), della «schiavitù salariata» (MEW, 17; 342); occorre conseguire la «liberazione della classe operaia» (MEW, 16; 111), «l’emancipazione economica della classe operaia», mediante l’«annientamento di ogni dominio di classe» (MEW, 16; 14). Non ci sono dubbi: costante è l’attenzione riservata alla lotta che il proletariato è chiamato a condurre contro la borghesia. Ma si esaurisce in ciò la lotta per l’«emancipazione umana», per l’«emancipazione universale»?
Poco prima di lanciare l’appello finale alla «rivoluzione comunista» e al «rovesciamento violento di tutto l’ordine sociale esistente», il Manifesto del partito comunista invoca anche la «liberazione nazionale» della Polonia (MEW, 4; 492-93). Ecco emergere una nuova parola d’ordine. Sin dai suoi primi scritti e interventi Engels si pronuncia per la «liberazione dell’Irlanda» (MEW, 4; 443) ovvero per la «conquista dell’indipendenza nazionale» (MEW, 2; 485) da parte di un popolo che subisce un’«oppressione di cinque secoli» (MEW, 1; 479). A sua volta, dopo aver rivendicato già alla fine del 1847 la «liberazione» delle «nazioni oppresse», Marx non si stanca di chiamare alla lotta per l’«emancipazione nazionale dell’Irlanda» (MEW, 4; 416 e 32; 669).
Facciamo il punto: la radicale rivoluzione invocata da Marx ed Engels persegue non solo la liberazione/emancipazione della classe oppressa (il proletariato), ma anche la liberazione/emancipazione delle nazioni oppresse. Dopo aver accennato rapidamente al problema della «liberazione nazionale» della Polonia, il Manifesto si chiude con un’esortazione: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!». Questo celeberrimo appello costituisce la conclusione anche dell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai fondata nel 1864. Ma in quest’ultimo testo amplissimo è lo spazio dedicato a una «politica estera» che impedisca l’«assassinio dell’eroica Polonia» come dell’Irlanda e di altre nazioni oppresse, che s’impegni per l’abolizione della schiavitù nera negli USA, che metta fine alle «guerre piratesche» dell’«Occidente europeo» nelle colonie (MEW, 16; 13).
La lotta per l’emancipazione delle nazioni oppresse non è meno importante della lotta per l’emancipazione del proletariato. Le due lotte sono seguite e promosse con la medesima passione. Nell’agosto del 1844 Marx scrive a Feuerbach:
Avreste dovuto essere presente a un incontro degli operai (ouvriers) francesi per poter credere alla giovanile freschezza e alla nobiltà d’animo (Adel) diffuse tra questa gente distrutta dalla fatica [...]. In ogni caso, è tra questi «barbari» della nostra società civilizzata che la storia prepara le forze pratiche per l’emancipazione dell’uomo (MEW, 27; 426)1.
Quattro anni dopo, in un articolo del 3 settembre 1848, Engels richiama l’attenzione sullo smembramento e la spartizione della Polonia, messi in atto da Russia, Austria e Prussia. Nella nazione che la subisce tale tragedia provoca una risposta pressoché corale. Ne emerge un movimento di liberazione cui partecipa la stessa nobiltà. Pur di conseguire la fine dell’oppressione e dell’umiliazione nazionale, questa classe è disposta a rinunciare ai suoi privilegi feudali per allinearsi «alla rivoluzione democratico-agraria con uno spirito di sacrificio senza precedenti» (MEW, 5; 355). L’entusiasmo che traspare da questo testo non va messo sul conto dell’ingenuità o del semplicismo spesso rimproverati a Engels. A tale proposito Marx (1961, p. 124) si esprime in termini ancora più enfatici: «la storia universale non conosce nessun altro esempio di tale nobiltà d’animo della nobiltà». È un linguaggio che dà da pensare. La «nobiltà d’animo» (Adel) celebrata negli operai francesi viene ora largamente riconosciuta anche all’aristocrazia polacca e, indirettamente, a una grande lotta di liberazione nazionale nel suo complesso.
E, tuttavia, non bisogna perdere di vista le differenze. Se il proletariato è il protagonista del processo di liberazione/emancipazione che spezza le catene del dominio capitalista, più largo è lo schieramento chiamato a infrangere le catene dell’oppressione nazionale. L’abbiamo visto per la Polonia, ma ciò vale anche per l’Irlanda. In una lunga lettera dell’aprile 1870, Marx caldeggia un’unione che balza agli occhi per le sue caratteristiche eterogenee: essa dovrebbe vedere come protagonisti da un lato gli operai inglesi, dall’altro la nazione irlandese in quanto tale. I primi sono chiamati ad appoggiare la «lotta nazionale irlandese» e a prendere le distanze dalla politica che «aristocratici e capitalisti» inglesi conducono «contro l’Irlanda» nel suo complesso. Dura e spietata è l’oppressione esercitata dalle classi dominanti inglesi, ma per fortuna si può contare sul «carattere rivoluzionario degli irlandesi» (MEW, 32; 667-69), ancora una volta considerati nel loro complesso. E questo slancio rivoluzionario è chiamato a trovare applicazione in primo luogo nella lotta di liberazione nazionale. Se la nazione oppressa è invitata a condurre la sua lotta a partire da una base nazionale quanto più larga possibile, nella nazione che opprime il compito del proletariato è di sviluppare l’antagonismo rispetto alla classe dominante, in tal modo promuovendo la propria emancipazione «umana» e contribuendo al tempo stesso all’emancipazione nazionale della nazione oppressa.
A questa piattaforma teorica Marx ed Engels non giungono senza oscillazioni: «si può considerare l’Irlanda come la prima colonia inglese» – scrive il secondo al primo in una lettera del maggio 1856 (MEW, 29; 56). Siamo così condotti al mondo coloniale extraeuropeo e in particolare all’India che tre anni prima è definita da Marx «l’Irlanda dell’Oriente» (MEW, 9; 127 e MEGA, I, 12; 166). Alla situazione tragica dell’India rinvia già Miseria della filosofia, che richiama l’attenzione su una realtà generalmente ignorata dagli economisti borghesi, intenti a dimostrare la capacità del capitalismo di migliorare la condizione della classe operaia. Essi perdono di vista «quei milioni di operai che hanno dovuto morire nelle Indie orientali, per procurare al milione e mezzo di operai, occupati in Inghilterra nella medesima industria, tre anni di prosperità su dieci» (MEW, 4; 123-24). Qui, il confronto è tra operai e operai, ed è un confronto che slitta sulla diversità delle condizioni tra metropoli capitalistica e colonie. E ora vediamo il quadro che emerge da un articolo di Marx del luglio 1853. Dopo aver descritto la tragica condizione dell’India e i fermenti nuovi che l’attraversano in seguito all’incontro-scontro con la cultura europea (rappresentata dai colonizzatori inglesi), il testo così prosegue:
Gli indiani non raccoglieranno i frutti degli elementi di una società nuova seminati in mezzo a loro dalla borghesia britannica, finché nella stessa Inghilterra le classi dominanti non saranno abbattute dal proletariato industriale, o finché gli stessi indù non saranno abbastanza forti per scrollarsi il giogo della dominazione inglese (MEW, 9; 224 e MEGA, I, 12; 251).
Sono qui ipotizzati due diversi scenari rivoluzionari: il primo (in Inghilterra) vede come protagonista della rivoluzione anticapitalistica il «proletariato industriale», il secondo (nella colonia assoggettata) ha come protagonista gli «indù». Ogni volta che è in ballo l’«emancipazione nazionale» ovvero la «liberazione nazionale», il soggetto è costituito dalla nazione oppressa in quanto tale: i polacchi, gli irlandesi, gli indù. Nei due teorici del materialismo storico e militanti rivoluzionari è dileguata l’attenzione per la lotta di classe?

2. Una distrazione dalla lotta di classe?

Non mancano gli interpreti che alla domanda appena vista rispondono in modo affermativo. L’autore di un libro peraltro molto ben documentato su Marx, Engels e la politica internazionale ritiene che, negli anni immediatamente successivi al Manifesto del partito comunista, «la politica estera e il combattimento tra le nazioni prendono il sopravvento sulla lotta di classe». Sì, «Marx non solo analizza appassionatamente e in modo dettagliato gli intrighi politici [di carattere internazionale], ma li analizza senza alcun riferimento alle forze e ai fattori economici e sociali»; sicché gli articoli pubblicati nella «Neue Rheinische Zeitung», per fare solo un esempio, «sembrano interamente staccati dal corpo della dottrina» (Molnár 1975, pp. 122, 114 e 20). Si ha l’impressione che, dove iniziano la «politica estera» e i connessi «intrighi» diplomatici e militari, là cessi la lotta di classe e ammutolisca la «dottrina» del materialismo storico.
A questo punto s’imporrebbe una conclusione sconcertante: mentre da un lato insistono sul fatto che «ogni società» nel corso del suo intero sviluppo è attraversata dalla lotta di classe e che «tutte le lotte della storia» sono lotte di classe, dall’altro Marx ed Engels farebbero ricorso alla teoria da loro formulata solo in modo saltuario e intermittente. Ma le cose stanno veramente in questi termini? Conviene prendere le mosse dalla testimonianza (estate 1872) del socialista francese Charles Longuet che, dopo aver reso omaggio ai «martiri» della Comune di Parigi, così prosegue riferendo dal «tempio del materialismo storico», ovvero da casa Marx (una casa che egli conosce bene, essendo il genero del grande filosofo e rivoluzionario):
L’insurrezione polacca del 1863, le rivolte irlandesi dei feniani del 1869, della Lega agraria e degli Home Rulers del 1874: tutti questi moti delle nazionalità oppresse furono seguiti dagli spalti di quella fortezza dell’Internazionale con interesse non minore della marea montante del movimento socialista dei due emisferi (in Enzensberger 1977, pp. 327-28).
Dunque, l’interesse per i «moti delle nazionalità oppresse» non è meno vivo e costante di quello riservato all’agitazione del proletariato e delle classi subalterne. È difficile mettere in dubbio l’attendibilità di tale testimonianza: basta sfogliare le edizioni delle opere complete di Marx ed Engels per rendersi conto di quanto siano numerosi i testi dedicati alla lotta dei popoli irlandese e polacco e alla denuncia della politica di oppressione nazionale messa in atto rispettivamente dalla Gran Bretagna e dalla Russia.
È un interesse intellettuale e politico, carico di partecipazione emotiva. Il 23 novembre 1867 vengono impiccati a Manchester tre militanti rivoluzionari irlandesi, accusati di aver orchestrato la liberazione a mano armata di due dirigenti del movimento indipendentista, nel corso di un’azione che aveva comportato la morte di un poliziotto. Alcuni giorni dopo Marx scrive a Engels, riferendo della reazione della figlia primogenita: «A partire dall’esecuzione di Manchester Jenny porta il lutto e indossa la sua croce polacca su un fiocco verde» (MEW, 31; 392). Il simbolo della lotta di liberazione nazionale del popolo polacco (la croce) si sposa così con il verde della causa irlandese. Ricevuta la lettera dell’amico, Engels gli risponde immediatamente, il 29 novembre: «Non ho bisogno di dirti che anche a casa mia dominano nero e verde» (MEW, 31; 396), i colori che risultano dal lutto inflitto dal carnefice britannico al movimento di liberazione nazionale del popolo irlandese.
I due filosofi e militanti rivoluzionari paragonano entrambi le vittime di Manchester a John Brown, l’abolizionista che aveva cercato di far insorgere gli schiavi del Sud degli USA e aveva poi affrontato coraggiosamente il patibolo (MEW, 31; 387 e 16; 439). E questo paragone degli indipendentisti irlandesi con il campione dell’abolizionismo conferma la passione con cui Marx ed Engels seguono i «moti delle nazionalità oppresse» e il ruolo centrale che ai loro occhi questi moti occupano nell’ambito del processo di emancipazione dell’umanità.
Non solo l’ostilità, anche l’indifferenza nei confronti delle nazioni oppresse è oggetto di dura condanna sul piano politico e morale. L’Indirizzo inaugurale mette in stato d’accusa «le classi superiori dell’Europa» occidentale e in particolare dell’Inghilterra certo per la loro politica antioperaia, ma anche per l’appoggio fornito alla secessione sudista negli USA, nonché per «l’approvazione vergognosa, la simpatia ironica e l’indifferenza idiota» con cui guardano alla tragedia della nazione polacca (MEW, 16; 13). Affettando un’aria di superiorità nei confronti di questa tragedia, Pierre-Joseph Proudhon dà solo prova, agli occhi di Marx, di «cinismo» e di cinismo tutt’altro che intelligente (infra, cap. IV, § 1).
L’interesse per la «politica estera» non ha nulla a che fare con la lotta di classe e anzi è una distrazione da essa? In realtà, secondo la testimonianza di Longuet, la passione simpatetica per i «moti delle nazionalità oppresse» arde nel «tempio del materialismo storico», nel tempio della dottrina che legge la storia come storia della lotta di classe. E, comunque, già nel luglio 1848, l’anno stesso della pubblicazione del Manifesto del partito comunista, Engels evoca e invoca una «politica internazionale della democrazia» rivoluzionaria (MEW, 5; 156). Sedici anni dopo, l’Associazione internazionale degli operai, al momento della sua fondazione, per la penna di Marx, sottolinea: ovvia è la necessità di una «economia politica della classe operaia», ma ciò non basta; occorre chiarire «alle classi operaie il dovere d’iniziarsi ai misteri della politica internazionale, di vegliare sugli atti dei loro rispettivi governi, di opporsi a essi, se è necessario, con tutti i mezzi in loro potere»; occorre che esse si rendano conto che la lotta per una «politica estera» di appoggio alle nazioni oppresse è parte integrante della «lotta generale per l’emancipazione della classe operaia» (MEW, 16; 11 e 13). Come spiegare questa affermazione così impegnativa?

3. «Lotte di classe e nazionali»: «genus» e «species»

Oltre allo «sfruttamento (Ausbeutung) del lavoro» che nell’ambito di un singolo paese condanna l’operaio alla «schiavitù moderna», Miseria della filosofia, il Manifesto del partito comunista e altri testi coevi denunciano lo «sfruttamento (Exploitation) di una nazione da parte di un’altra» ovvero lo «sfruttamento (Exploitation) che ha luogo tra i popoli» (MEW, 4; 164, 84, 479 e 416). Per quanto riguarda l’Irlanda, bisogna tener presente che «lo sfruttamento (Ausbeutung) di questo paese» costituisce «una delle principali fonti della ricchezza materiale» dell’Inghilterra (MEW, 32; 667). A provocare la lotta di classe è solo lo sfruttamento che ha luogo nell’ambito di un singolo paese? È dello stesso anno del Manifesto del partito comunista una perentoria messa in guardia di Marx: coloro che «non riescono a capire in che modo un paese può arricchirsi a spese degli altri» tanto meno sono in grado di capire «in che modo all’interno di un singolo paese una classe può arricchirsi a spese di un’altra» (MEW, 4; 457). Ben lungi dall’essere di scarsa rilevanza dal punto di vista della lotta di classe, lo sfruttamento e l’oppressione che si sviluppano a livello internazionale sono una precondizione, almeno sul piano metodologico, per la comprensione del conflitto sociale e della lotta di cla...

Indice dei contenuti

  1. Avvertenza
  2. Introduzione. Ritorno della lotta di classe?
  3. I. Le diverse forme della lotta di classe
  4. II. Una lotta prolungata e non a somma zero
  5. III. Lotte di classe e lotte per il riconoscimento
  6. IV. Il superamento della logica binaria. Un processo faticoso e incompiuto
  7. V. Molteplicità delle lotte per il riconoscimento e conflitto delle libertà
  8. VI. Passaggio a Sud-Est. Questione nazionale e lotta di classe
  9. VII. Lenin 1919: «la lotta di classe ha cambiato le sue forme»
  10. VIII. Dopo la rivoluzione. Le ambiguità della lotta di classe
  11. IX. Dopo la rivoluzione. Alla scoperta dei limiti della lotta di classe
  12. X. La lotta di classe alla «fine della storia»
  13. XI. Tra esorcizzazione e frammentazione delle lotte di classe
  14. XII. La lotta di classe tra marxismo e populismo
  15. Riferimenti bibliografici