1.
I processi “politici”
della Procura di Palermo
Cosa nostra, lo si è già affermato nelle pagine introduttive, è criminalità organizzata non soltanto di tipo gangsteristico-predatorio. All’elenco sconfinato delle attività riconducibili a questa categoria (traffici di droga, di armi, di rifiuti tossici, di esseri umani; estorsioni; gioco d’azzardo; contraffazioni; appalti truccati; corruzione ecc.) si devono aggiungere quelle, del pari criminali, che si collocano sul versante delle “relazioni esterne”. Vale a dire l’intreccio osceno – nel senso letterale ed etimologico del termine – di interessi, affari comuni e favori reciproci tra mafia e pezzi del mondo “legale” (istituzionale, politico, amministrativo, imprenditoriale, economico, finanziario, della cultura e dell’informazione). Tale intreccio – non ci stancheremo mai di ripeterlo – è la vera spina dorsale del potere mafioso. E spiega perché l’Italia ne sia ancora appestata addirittura un paio di secoli dopo i suoi esordi. Nessuna banda di “semplici” gangster ha mai potuto realizzare un successo simile.
Ma se la forza della mafia è in quest’intreccio inestricabile fra criminalità e (apparente) legalità, ne consegue il corollario che il contrasto alla mafia deve colpire ambedue i versanti: quello “militare” e quello lato sensu “politico”, costituito da soggetti esterni all’organizzazione che concorrono alle sue attività. Purtroppo la magistratura deve guardarsi da uno strano “virus” (al quale abbiamo già accennato): quello della “grande scaltrezza [...] nel riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni col potere politico ed economico e – nel momento di passare alle prassi giudiziarie – nel perseguire costantemente la sola ala militare dell’alleanza, tenendo fuori dal loro campo d’azione l’altro corno del problema”. La “grande scaltrezza” ha come conseguenza che la lotta alla mafia è spesso dimezzata o finta. Ma l’azione penale (obbligatoria) va esercitata non solo contro i mafiosi “di strada”, ma anche contro coloro che ne sono complici o assicurano loro copertura. Altrimenti, risparmiando gli imputati “eccellenti”, si userebbe loro un trattamento privilegiato, opposto a quello uguale per tutti che la Costituzione impone. E non procedere sarebbe – oltre che illegale – disonesto e vile.
La Procura di Palermo del dopo stragi, consapevole che il sacrificio di Falcone e Borsellino e di quanti erano morti con loro imponeva ancor più di fare il proprio dovere fino in fondo, ha rifiutato ogni scaltrezza: per non macchiarsi di vergogna. E vogliamo partire proprio da quella stagione, in cui – oltre ai processi contro Salvatore (Totò) Riina e soci – sono stati istruiti anche vari processi contro imputati eccellenti: da Giulio Andreotti (presidente del Consiglio, ministro, senatore a vita; dichiarato responsabile del reato – ancorché prescritto – di associazione per delinquere commesso fino al 1980) a Marcello Dell’Utri (senatore; condannato a sette anni di reclusione); da Calogero Mannino (ministro; assolto) a Ignazio D’Antone (capo della Squadra mobile di Palermo e funzionario del Sisde; condannato a dieci anni); da Corrado Carnevale (magistrato in Cassazione; assolto) a Bruno Contrada (dirigente della Polizia di Stato e del Sisde; condannato a dieci anni) e altri.
Ma procediamo con ordine. Qui vogliamo ripercorrere un significativo fil rouge che lega tutti i processi “politici”, esaminandone alcuni – per certi profili – più analiticamente.
Un primo tratto in comune riguarda l’iter processuale, assai tormentato e con frequenti ribaltamenti nei vari gradi di giudizio. E tuttavia sempre i fatti portati a sostegno dell’accusa vengono riconosciuti come effettivamente accaduti. Quindi nessun teorema, nessun accanimento pregiudiziale, nessuna persecuzione. Le divergenze riguardano la riconducibilità o meno dei fatti (sempre verificati come reali) ai reati contestati. E quando tale riconducibilità viene esclusa, con conseguente assoluzione dell’imputato, la formula adottata è sempre quella dell’articolo 530, comma 2, del codice di procedura penale, l’equivalente della “vecchia” insufficienza di prove.
In ogni caso, nel bilancio complessivo prevalgono le “condanne”. Nonostante questo dato di realtà, molti sono coloro che parlano di processi buoni solo per mettere alla gogna personaggi eccellenti e “capaci di ottenere condanne solo sulla stampa, nella fase delle operazioni di cattura e non sempre nelle sedi giudiziarie e in via definitiva”. Altri personalizzano i problemi, parlando di “casellismo” (per usare un termine coniato da Marcello Dell’Utri) proprio per indicare la malagestione dei processi “politici”, causa di spese pazze e inutili al fine di costruire e portare avanti teoremi politico-giudiziari finiti in nulla: un colpo micidiale inferto alla lotta alla mafia come impostata da Giovanni Falcone. Con un’appropriazione indebita della sua memoria, tirandolo malamente in ballo con una specie di tavolino spiritico-giudiziario dal quale si vorrebbe ricavare la tesi, indimostrata e indimostrabile, che lui certi processi non li avrebbe neppure cominciati.
Ma c’è di più. Per dare una qualche consistenza a quello che è l’unico vero teorema (la strombazzata gestione fallimentare dei processi “politici”), con vergognosa impudenza vengono cancellati gli imponenti risultati ottenuti dalla Procura di Palermo del dopo stragi sul versante dell’ala militare di Cosa nostra: boss latitanti catturati, per numero e caratura criminale, come mai in precedenza; circa 650 condanne all’ergastolo, oltre a centinaia di condanne a pene detentive dai trent’anni di reclusione in giù (il più alto numero di condanne nella storia di Palermo); beni mafiosi sequestrati per oltre 11 miliardi di vecchie lire (5,5 milioni di euro), beni che andranno ad alimentare la cosiddetta antimafia sociale o dei diritti.
In sostanza, una dolosa operazione di occultamento della verità che richiama alla mente quel che più di cento anni fa, nel suo saggio Che cosa è la mafia, scriveva Gaetano Mosca: il funzionario pubblico onesto “presto comprende [che] se vuole combattere i soliti onorevoli usi a trescare colle cosche mafiose [...] dovrà intanto essere esposto alle trame e alle calunnie che si ordiranno contro di lui a Roma”.
1. Le “stranezze” dei processi agli imputati eccellenti
A formare il fil rouge dei processi agli imputati eccellenti concorrono poi alcune, per così dire, “stranezze”. Innanzitutto un frequente ricorso alla tecnica dello “spezzatino” (formula che non appartiene al “giuridichese”...), vale a dire che invece di procedere a una valutazione complessiva della vicenda processuale (com’è buona regola per chi voglia ispirarsi al “metodo Falcone”) si preferisce segmentarla e disperderla in mille rivoli. Il che è accaduto in particolare nella sentenza di primo grado del processo Andreotti. Il Tribunale, a fronte di giudizi sostanzialmente negativi su numerosi gravi episodi, mancando un bilancio conclusivo coerente ha finito per assolvere l’imputato. Come una pagella scolastica piena zeppa di insufficienze che porti generosamente a una bella promozione...
Il processo Mannino Paradigmatico del fatto che quando gli imputati sono “colletti bianchi” la strada dell’accertamento della verità diventa un sesto grado, pieno di ostacoli e trappole, è anche il caso di Calogero Mannino, importante esponente politico siciliano e nazionale. La Procura di Palermo gli ha contestato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, per un contributo sistematico e consapevole alle attività e al raggiungimento degli scopi criminali di Cosa nostra.
Il processo, una declinazione del cosiddetto patto di scambio politico-mafioso, è stato particolarmente lungo e controverso: in primo grado, assoluzione; in appello, condanna a cinque anni e quattro mesi; in Cassazione (Sezioni unite) annullamento con rinvio in appello, dove l’imputato viene di nuovo assolto; decisione questa confermata alla fine in Cassazione.
È un dato di fatto che a questa conclusione si arriva anche perché – a processo in corso – la Cassazione (Sezioni unite) modifica il proprio orientamento rispetto a quello vigente all’inizio del processo in tema di concorso esterno. Mentre prima era sufficiente provare l’esistenza di un patto tra mafia e accusato, col nuovo orientamento la Cassazione richiede anche la prova di un “ritorno” del patto in termini effettivamente e significativamente incidenti. Quindi, all’inizio del processo era richiesto un certo livello di prova, ma prima della conclusione l’asticella probatoria viene inaspettatamente e decisamente alzata. Innescando un meccanismo che ricorda la storia del falso in bilancio: che era reato quando molti processi furono avviati, ma venne poi depenalizzato costringendo i giudici ad assolvere. Un percorso davvero “accidentato”.
In altre parole, le regole sono cambiate in corso d’opera. Come se durante una partita di calcio, nell’intervallo fra i due tempi, qualcuno decidesse che è calcio di rigore solo quando il fallo viene commesso nell’area piccola, quella del portiere...
Dunque, anche nel caso Mannino si può parlare di stranezza, posto che i princìpi affermati dalle Sezioni unite hanno suscitato critiche pure fra gli studiosi di diritto qualificabili come garantisti “doc”. Nel senso che “fare reale applicazione del rigoroso criterio di causalità ex post canonizzato in tale pronuncia [...] risulta tutt’altro che ag...