Teogonia
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Teogonia

Secondo le fonti dell'antichità classica, ebraica e cristiana

  1. 410 pagine
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Secondo le fonti dell'antichità classica, ebraica e cristiana

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La Teogonia secondo le fonti dell'antichità classica, ebraica e cristiana del 1857 è l'ultima opera organica di critica della religione scritta da Ludwig Feuerbach, massimo esponente della sinistra hegeliana e fautore di un umanesimo antropologico e democratico. Quest'opera, che lo stesso autore considerò il suo lavoro più maturo, presenta una rigorosa indagine sulla coscienza religiosa condotta con gli strumenti della filologia, dell'antropologia e della critica filosofica. Attraverso l'analisi linguistica dell'epica antica e della Sacra Scrittura, la Teogonia riconduce la genesi dell'idea del dio all'inconsapevole proiezione dei desideri dell'uomo al di fuori di sé. Facendo luce sulla relazione eticamente problematica tra desiderio e realtà, tra volere e potere, tra inconscio e coscienza, Feuerbach preannuncia il compito di un'etica laica della consapevolezza di sé che accompagni l'individuo a riscoprire sulla terra le reali condizioni per la propria felicità. La traduzione, introdotta e curata da Andrea Cardillo, è stata realizzata sulla base dell'edizione critica dell'opera contenuta nel settimo volume dei Gesammelte Werke di Ludwig Feuerbach.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858146040

Teogonia

1. ira di achille e volontà di zeus

Se nell’inciso del quinto verso dell’Iliade:
Διὸς δ᾽ ἐτελείετο βουλή
«così fu compiuta la volontà di Zeus»69
la teologia trova la prova che Omero ha reso il destino degli uomini dipendente dalla volontà degli dei e che, perciò, la chiave dell’Iliade è contenuta unicamente nella teologia, l’antropologia, al contrario, risalendo a ciò che sta alle spalle della teologia e precedendola quindi di gran lunga, riconosce che, già nel primo verso del poema epico, il segreto della teologia si risolve nel proprio segreto, cioè si risolve in senso antropologico.
Omero non inizia affatto, come avrebbe dovuto fare qualora la teologia avesse avuto ragione, con parole del tipo: ‘cantami, o dea, dell’ira funesta del signore del tuono, Zeus, che inenarrabili (innumerevoli, infinite) miserie causò agli Achei e che molte valorose anime di eroi inviò nell’Ade consegnandoli alla rapina dei cani e degli uccelli; soltanto così fu compiuto il volere di Zeus’. Niente affatto! Omero comincia con la funesta ira di Achille anteponendo in tal modo Achille a Zeus, il non-volere umano al volere divino.
Achille, profondamente indignato per l’offesa arrecatagli dal supremo condottiero Agamennone, decide di vendicarsi di lui ritirando il proprio aiuto contro i Troiani. Così si rivolge a sua madre, la divina Teti, chiedendole di indurre Zeus «a concedere protezione ai Troiani respingendo al campo e al mare gli Achei sconfitti, finché non ne abbiano tutti abbastanza del loro sovrano e anche l’Atride, il condottiero Agamennone, conosca la colpa, giacché ha stimato un nulla il migliore dei Danai» (I[liade] 1, 407-411). Teti, a sua volta, porta il desiderio di vendetta del figlio di fronte al trono dell’onnipotente con queste parole: «Padre Zeus, concedimi questo desiderio! Vendicalo tu, o Olimpio Zeus ordinatore del mondo! Rafforza i Troiani fino a che gli Achei omaggino mio figlio e lo celebrino con alti onori» (vv. 507-509). E Zeus le annuisce col capo, confermandole in tal modo che la sua richiesta sarà esaudita. «Poiché giammai – dice – è mutevole o ingannevole o ancora resta incompiuta la parola che esaudisco con un cenno del capo. Così parlò ed annuì Cronio con nere sopraciglia, ed i riccioli d’ambrosia del re ondeggiarono dinanzi alla testa immortale; tremarono le cime dell’Olimpo» (525-529). Tale momento, raffigurato da Fidia nel suo Zeus Olimpico, è ben noto: si tratta proprio dell’attimo in cui Zeus esaudisce il desiderio di Achille – una prova plastica, tangibile, che la più alta espressione della potenza e della maestà divine non è l’atto della negazione bensì quello della realizzazione dei desideri umani.
Certo, Zeus non esaudisce questo desiderio direttamente ad Achille ma piuttosto alla sua divina madre che si è guadagnata presso di lui alti meriti dal momento che una volta «lo ha protetto da una terribile offesa». Eustazio, nel suo commento al verso 13, 350 dell’Iliade di Omero (Leipz. A.) che recita «egli procura gloria a Teti e al suo adorato figlio», nota che qui il poeta, nell’anteporre Teti – attraverso la quale viene celebrato anche Achille – al figlio, corregge ciò che egli stesso ha sbadatamente affermato nel precedente verso 347 in cui ha nominato soltanto Achille: «Zeus destinò la vittoria ai Troiani e al divino Ettore, per dar gloria al vigoroso figlio di Peleo». Ma che senso ha porre l’accento solo sulla tenera madre se essa non ha alcun interesse autonomo, se viene alla luce dalle profondità marine unicamente per amore di suo figlio ed è animata e mossa soltanto dai desideri di lui? Ciò che Zeus concede a Teti lo concede allo stesso Achille. È proprio Zeus a confermarlo quando fa venir meno la differenza tra Teti ed Achille dicendo ai versi 15, 72-75 (generalmente rifiutati dai critici antichi insieme a quelli precedenti, cioè a partire dal v. 56, e contestati anche da alcuni critici moderni per via di certe sottigliezze linguistiche, sebbene accolti a buon diritto da molti altri come necessari ed essenziali): «non abbandonerò mai la mia ira, né lascerò che alcuno degli dei aiuti i Danai finché il desiderio o la voglia del Pelide sia esaudita (πρίν γε τὸ Πηλεΐδαο τελευτηθῆναι ἐέλδωρ) come io gli promisi (non: le) e gli accennai o acconsentii con la mia testa in quel giorno in cui Teti cinse in lagrime le mie ginocchia affinché onorassi Achille distruttore di città»70. Voler accentuare la differenza tra Achille e Teti, almeno nel punto di cui si tratta, è come voler distinguere tra il desiderio e colui che desidera, tra la richiesta e colui che richiede; è come voler affermare che ‘Dio non ha esaudito lui ma la sua preghiera o la sua richiesta’, o ‘prima la sua richiesta e poi lui stesso’, come se fosse legittimo sostenere che Achille ha ottenuto l’oggetto desiderato soltanto grazie alla propria richiesta; in sintesi, è come voler rappresentare poeticamente la preghiera nella veste di un ente mediatore tra la divinità e l’umanità.
Tuttavia, poiché Zeus esaudisce il desiderio di vendetta di Achille, al posto di «così fu compiuta la volontà di Zeus», si può dire altrettanto correttamente ‘così fu compiuta la volontà di Achille’ poiché l’ira di costui era tutt’altro che bestiale, priva di ragione o inconsapevole. Nella lite con Agamennone, allorché questi minacciava di sottrargli «la rosea figlia di Brise», suo bottino di guerra, Achille fu preso dalla collera al punto da volergli usare violenza. Ma, proprio nel momento in cui stava per passare ai fatti, gli apparve Atena, ed egli giunse così a comprendere e ad intuire che si sarebbe vendicato di chi lo aveva offeso in modo assai più valido ed onorevole se avesse fatto in modo che questi avesse maturato l’umiliante consapevolezza del fatto che, nonostante il proprio alto seggio e potere, senza Achille non avrebbe potuto niente e non sarebbe stato nulla. Le μυρἴ ἄλγεα, le «innumerevoli sofferenze», o, come traduce Voß, «der unnennbare Jammer der Achäer» [l’inenarrabile miseria degli Achei], cioè la morte di tanti giovani nobili eroi, fu una conseguenza immancabile, prevedibile, e, proprio per questo, intenzionale del ritiro volontario di Achille dal campo di battaglia. Achille, infatti, sapeva di essere «il migliore dei Danai», «un uomo che nessun altro degli opliti achei poteva eguagliare in battaglia» (18, 105), un uomo che «per tutti gli Achei rappresenta un baluardo nella rovinosa guerra» (1, 283); sapeva «di essere l’unico all’altezza di Ettore» (Il. 9, 351-355), di essere in grado di colpire la potenza nemica alla testa, vale a dire di mettere a tappeto il divino Ettore, e sapeva, quindi, che, insieme a lui, anche la buona sorte in battaglia avrebbe abbandonato gli Achei. Difatti, è egli stesso a predire: «in verità Achille mancherà all’improvviso ai figli d’Acaia; allora, quando essi morranno nelle schiere abbattuti da Ettore massacratore, cercherai scampo invano – oh quanto te ne affliggerai!» (Il. 1, 240-243).
Se davvero il volere di Zeus fosse stato l’inenarrabile miseria dei Danai, per quale motivo gli eroi omerici non avrebbero dovuto rivolgersi a questa volontà al fine di modificarla? Perché si rivolgono ad Achille con tutti i mezzi che sono a loro disposizione, con richieste, con regali, con le persone che, tra gli Achei, gli sono più care e più gli stanno a cuore? Perché Odisseo dice ad Achille (Il. 9, 247): «Deh! Se il cuore ti comandasse (εἰ μέμονας se tu volessi, desiderassi, se fossi ben disposto) di liberare, prima o poi, gli uomini achei dalla torma pressante dei Troiani», e più avanti (251): «considera come allontaneresti il terribile giorno degli Achei!», ed in fine (300): «se il figlio di Atreo ti è troppo odiato in cuore, lui ed il suo dono, guarda con indulgenza (ἐλέαιρε abbi compassione, sii pietoso) al destino che incombe sugli altri Achei»? Per quale motivo Achille stesso, più avanti (19, 61), si rammarica per la futura caduta di molti argivi – «poiché (mentre) io mi indurisco nell’ira», ἐμεῦ ἀπομημίσαντος – se l’inenarrabile miseria non fosse derivata proprio dal suo inflessibile volere? Per quale motivo, altrove, la richiesta o il desiderio ἀρή di Teti, cioè di Achille – poiché il desiderio di lei ha radice soltanto nel petto di lui – viene definito apertamente ἐξαίσιος (15, 598), cioè un desiderio spropositato (indebito, illecito), «funesto», «crudele»? Perché Achille, a sua volta, viene definito spietato (νηλεές, Il. 16, 33) e il suo cuore crudele e rovinoso (ὀλοὸν κῆρ, 14, 139)? Perché, altrove, proprio all’inizio dell’ira di Achille, si definisce questa collera, con un’espressione tanto significativa, un desiderio empio, rovinoso? Ma è ovvio! Il male degli Achei fu voluto da Zeus ma soltanto perché fu Achille a volerlo, così come Zeus fu in collera – «non abbandonerò in anticipo la mia ira» – soltanto perché e fintanto che durò la collera di Achille.
Tuttavia, è proprio Achille a dire espressamente (Il. 19, 270): «Ah padre Zeus, grandi accecamenti, ἄτας, dai agli uomini! Certo giammai altrimenti il figlio di Atreo mi avrebbe indignato così terribilmente (profondamente) nel profondo del cuore (il cuore nel petto) o, giammai l’inflessibile mi avrebbe sottratto con violenza la fanciulla; ma, in verità, fu soltanto Zeus che volle la morte di tanti argivi». Certo, ma Achille dice ciò soltanto dopo essersi già riconciliato con Agamennone, dopo aver rinunciato alla propria ira, e quindi lo dice in un momento in cui l’uomo, avendola appagata, si è liberato da una passione, anche se lo ha fatto, come qui, cagionando soltanto la propria sventura; in un tale momento l’uomo non riconosce più la propria passione come tale nelle azioni commesse, cioè non ne trova più l’origine in sé. Se, dunque, Achille dice simili cose, lo fa soltanto per discolpare sé ed Agamennone e per rimuovere ogni dubbio sulla sincerità del proprio appagamento: del resto, come potrebbero non essere buoni tra di loro coloro che sono diventati nemici a causa di un impulso estraneo? Ugualmente, Agamennone, per discolparsi, afferma nello stesso canto (v. 86): «di ciò non sono io a portare la colpa (ἐγὼ δ᾿ οὐκ αἴτιός εἰμι), ma Zeus, il destino e il notturno terrore della Erinne (la regina della vendetta che vaga nell’oscurità), che quel giorno durante il consiglio mi accecò inducendomi al precipitoso errore di prendere ad Achille il suo bottino di guerra. Cos’altro avrei potuto fare io? È il dio che determina tutto». Ma in precedenza, al rimprovero di Nestore, Agamennone ha già indicato sé e non Zeus come l’iniziatore della lite funesta, ammettendo: «sì, ho sbagliato (ἀασάμεν, «mi ingannai, agii male» ‹Pape›, «agii accecato») dando ascolto al funesto (sventurato, «malefico», «disastroso», φρεσὶ λευγαλέῃσι) pensiero (Il. 9, 116 e 119); inoltre, Agamennone, ha confermato, già nel secondo canto (v. 378), che egli stesso ha dato inizio alla contesa. Chiaramente anche qui, alcuni versi prima, ne riconduce la causa a Zeus, e più avanti, nella stessa frase dice: «dopo che io ho sbagliato e Zeus mi ha sottratto il senno» (19, 137); allo stesso modo Achille dice di lui: «il grande Zeus gli rubò il senno» (9, 377). Ma questo Zeus, il cui significato risulterà chiaro soltanto più avanti, non si differenzia dall’ira che afferrò Agamennone (Ἀτρείωνα χόλος λάβεν, 1, 387), dal suddetto «nocivo», o, come lo stesso Achille si esprime, «rovinoso pensiero» (ὀλοιῇσι φρεσί, 1, 342), e neppure dallo «spirito superbo» (μεγαλήτορι θυμῷ), come Nestore definisce l’indole orgogliosa di Agamennone con un affettuoso eufemismo (9, 109)71.
Ma ammettiamo pure che questo Zeus sia Zeus nel senso comune! Entrambi, Agamennone e Achille, hanno ragione; poiché senza ate, cioè accecamento, follia, dissennatezza, e senza hybris, cioè senza tracotanza (Il. 1, 203, dove ὕβριν non significa affatto il misfatto o il delitto), Agamennone non avrebbe sbagliato. No! Unicamente ate e hybris erano all’origine della sua azione violenta. Ma esse erano e sono di certo ancora oggi entità potenti, superiori, che hanno un posto al governo del mondo sulla cui cima sta il padre Zeus. Perciò, Achille, nel dolore per la morte di Patroclo, a buona ragione maledice assieme alla propria ira e alla propria contesa anche l’ira e la contesa in generale: «possa essere estirpata dagli dei e dagli uomini mortali la lite (ἔρις, contesa, disputa) e l’ira, che si cura di esasperare perfino i saggi» (18, 107); se infatti la contesa fosse stata estirpata dagli dei e dagli uomini, cioè dal mondo in generale, allora, naturalmente, non vi sarebbe stata nemmeno alcuna contesa tra Achille ed Agamennone. In questo senso, l’antropologia dà atto volentieri alla teologia che l’eris, la contesa tra i due eroi, ovvero l’inizio dell’Iliade, se vogliamo non è da ricercare in loro ma al di fuori di loro già nell’Eris pre-umana – ma anche pre-divina – che è nella notte del caos esiodeo.
All’interno dell’Iliade, però, sembra che faccia la sua apparizione ancora una causa o motivazione teologica della funesta ira di Achille. La causa prossima (τὸ μὲν συνεχὲς αἴτιον) della collera di Achille, dice Eustazio, è la sottrazione di Briseide, quella che la precede è la lite del re, quella ancor più distante è la peste – poiché è a causa di questa che Achille è indotto a parlare e a subire offesa –, ma la causa più remota è Apollo o il sole, che è all’origine della pestilenza e della malattia mortale. O almeno così crede il teologo, il quale, in nome della parola di dio, dimentica la causa del dio, cioè l’uomo. Nondimeno anche in questo caso l’antropologia risale a ciò che sta alle spalle della teologia e scorge dietro ad Apollo il sacerdote Crise come causa della pestilenza72. Costui, un sacerdote di Apollo vestito con i paramenti del suo ordine, in nome della reverenza dovuta «al lungisaettante figlio di Zeus Apollo», aveva pregato in lacrime Agamennone di restituirgli sua figlia, rapita alla conquista di Tebe, in cambio di un enorme riscatto. Ciononostante era stato malamente respinto. Il sacerdote offeso aveva implorato allora vendetta al suo dio: «Ascoltami, o dio, esaudiscimi questa richiesta: risarcisci le mie lacrime con i tuoi dardi contro gli Achei! Febo Apollo lo ascoltò» e scoccò dal suo seggio dardi mortali sugli Achei. Ma quando Agamennone, su iniziativa di Achille, si fu riconciliato con il dio o il sacerdote adirato – poiché essi sono una cosa soltanto – ed ebbe restituito al sacerdote la sua amata figlia, allora, costui, come in precedenza aveva implorato la rovina degli Achei, ne implorò la salvezza. «Così come poc’anzi mi ascoltasti quand’io ti invocai, come tu mi rendesti onore e tremendo colpisti gli Achei, adesso esaudisci nuovamente questa mia richiesta: dà ai Danai guarigione dalla piaga umiliante» (Il. 1, 451-455). E subito Apollo gli diede ascolto, cioè la pestilenza si dissolse ...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione di Andrea Cardillo
  2. Cronologia della vita e delle opere
  3. Nota al testo
  4. Teogonia