La Repubblica degli stagisti
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La Repubblica degli stagisti

Come non farsi sfruttare

  1. 214 pagine
  2. Italian
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La Repubblica degli stagisti

Come non farsi sfruttare

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«Il primo stage è il contrario del primo bacio: di solito è il migliore. Per varie ragioni: ha nel suo dna giovinezza, entusiasmo, innocenza. Al primo stage non ci sono aspettative né rancori né disillusioni: è il primo contatto di una persona con il mondo del lavoro, e nella maggior parte dei casi è emozionante». Il peggio viene dopo: perché l'Italia ormai è una Repubblica fondata sullo stage, spesso utilizzato come espediente per risparmiare sul costo del personale. Ma quali sono le leggi che lo regolamentano? E come si fa a distinguere le occasioni buone dalle fregature? Eleonora Voltolina, direttore del sito Repubblicadeglistagisti.it, raccoglie le voci di tanti giovani che sono passati attraverso questa esperienza, indica le strade per uscirne indenni e lancia proposte per moltiplicare le 'buone pratiche stagistiche'.L'intervento di Eleonora Voltolina a Radio Capital - ascolta l'audioL'intervento di Eleonora Voltolina a Traffic (Radio2) - ascolta l'audioBeppe Severgnini su Radio Monte Carlo - ascolta l'audio

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Informazioni

Anno
2011
ISBN
9788858102534
Argomento
Economia

1. L’anomalia italiana

Nel nostro paese vive un esemplare straordinario di stagista. Ha un’età indefinita tra i sedici e i sessant’anni, un titolo di studio tra la terza media e il master post-universitario, un curriculum lungo dieci righe o quattro pagine. Stagista, in Italia, può esserlo chiunque: la normativa vigente non pone limiti. Questo vuol dire che, se usato con criterio, lo stage può essere una porta d’ingresso sul mondo del lavoro per i più giovani: allievi delle scuole superiori (l’ancor poco applicata «alternanza scuola-lavoro» prevista dalle ultime riforme), neodiplomati, studenti universitari, neolaureati. Persone cioè non ancora in grado di lavorare, non sufficientemente preparate per svolgere in autonomia una professione e quindi bisognose di un periodo di formazione aggiuntivo, sul campo. Ma l’inghippo è dietro l’angolo, perché grazie alle maglie larghe della legge c’è anche chi prende in stage gente di trenta o addirittura quarant’anni, con studi ed esperienze lavorative ragguardevoli già alle spalle. Facciamo allora un passo indietro, e vediamo cosa è esattamente lo stage e come funziona.
In generale, per stage – o internship, all’anglosassone – si intende un periodo di formazione di un giovane in un determinato ambito lavorativo, spesso a integrazione di quella compiuta a scuola o all’università. Può durare da poche settimane a molti mesi: solitamente la durata è standard – tre mesi, sei mesi, un anno – anche se in realtà dovrebbe essere di volta in volta commisurata agli obiettivi formativi (il cosiddetto «progetto formativo»). Lo stagista viene affiancato da un tutor esperto che lo guida e gli insegna il mestiere.
Sull’enciclopedia online Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Tirocinio) gli stagisti vengono definiti «studenti delle scuole superiori, dell’università o persone che intendono reinserirsi in un’attività lavorativa, cambiare lavoro o comunque acquisire competenze professionali. Nel caso dello studente, lo stage può avere una funzione di orientamento nella scelta della facoltà universitaria, per capire se gli piace il lavoro che dovrà svolgere in futuro. Possono offrire stage: aziende private, enti pubblici, organizzazioni no profit».
Molte volte capita di fare confusione tra stage, tirocinio, praticantato e apprendistato: sono tutti termini che indicano una condizione simile, cioè un periodo di formazione per imparare un lavoro (learning by doing), ma in realtà ci sono alcune differenze rilevanti. Lo stage è volontario, o comunque facoltativo: ciascuno sceglie se e quando farlo. Il tirocinio è indispensabile come step di un determinato percorso professionale: l’ingresso a una scuola, il conseguimento di un titolo. Per esempio, i laureati in psicologia devono svolgere un tirocinio di un anno per essere ammessi all’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo. Similmente, il praticantato è obbligatorio per accedere ad alcune professioni, come per esempio l’avvocato o il giornalista (la condizione dei praticanti, davvero molto simile a quella degli stagisti, verrà raccontata nel capitolo 10). Nel caso dei giornalisti, poi, può diventare un rapporto di lavoro (regolato dall’art. 35 del contratto nazionale di lavoro); ma nella maggior parte dei casi non è obbligatorio retribuire i praticanti. È invece doveroso, senza dubbio, retribuire gli apprendisti: l’apprendistato1 infatti, a differenza delle prime tre tipologie, è un vero e proprio rapporto di lavoro (applicabile sia alle qualifiche operaie sia a quelle impiegatizie). Poiché racchiude in sé il concetto di formazione, viene definito «a causa mista»: l’apprendista deve un po’ lavorare e un po’ imparare, insomma, e l’azienda che lo assume ha il vantaggio di pagargli uno stipendio e una quota contributiva più bassi. Secondo le ultime disposizioni normative esistono tre tipi di apprendistato: quello a cura delle scuole secondarie, dedicato ai ragazzi fino a 18 anni; quello professionalizzante, di durata variabile dai due ai sei anni, che ha come obiettivo il conseguimento di una qualificazione attraverso la formazione sul lavoro e l’apprendimento tecnico professionale; e infine quello per il conseguimento di un diploma o per percorsi di alta formazione. Per queste ultime due tipologie, gli apprendisti possono avere un’età compresa tra i 18 e i 29 anni. «L’apprendistato per il conseguimento di un diploma o di un titolo di alta formazione – comunemente indicato come ‘apprendistato alto’ – è stato al momento utilizzato quasi esclusivamente nell’ambito di un progetto nazionale sperimentale» si legge in Apprendistato: un sistema plurale, il rapporto di monitoraggio realizzato dall’ente pubblico Isfol nel 2009. Questa sperimentazione ha coinvolto complessivamente, tra il 2004 e il 2008, soltanto un migliaio di apprendisti in otto regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio) e nella provincia autonoma di Bolzano.
Gli apprendisti, dato che hanno un vero e proprio contratto e ricevono una retribuzione, si pongono su un piano diverso rispetto ai loro cugini stagisti, tirocinanti e praticanti – sebbene poi, in sostanza, il concetto di formazione sul campo sia lo stesso per tutti. Lasciamo quindi da parte almeno per ora l’apprendistato, anche perché questo tipo di contratto è utilizzato prevalentemente per introdurre nel mercato del lavoro persone con bassa scolarità2, e torniamo agli stagisti. Una caratteristica peculiare dello stage è che se ne può fare più d’uno, anche nello stesso ambito professionale: al contrario, una volta terminato un praticantato o un apprendistato (o, in alcuni casi, un tirocinio specifico) nessuno potrà chiedere a un giovane di ripeterlo. Nel linguaggio comune, comunque, stage e tirocinio vengono usati come sinonimi: anzi, c’è addirittura chi pensa che dire «tirocinanti» anziché «stagisti» sia più rispettoso.
Di norma, lo stage viene organizzato e promosso da persone che si occupano di formazione. Al liceo possono essere i professori a suggerire agli studenti di fare un’esperienza lontano dai banchi di scuola, per «assaggiare» il mondo del lavoro. Nelle università ci sono ormai dappertutto uffici stage e job placement che assistono gli studenti prima e dopo la laurea, aiutandoli a individuare il posto giusto per completare il loro percorso di studi, scrivere la tesi o trovare la prima occupazione. Gli stage vengono anche promossi dalle agenzie per il lavoro temporaneo e da molti altri soggetti che a vario titolo si propongono come intermediari tra chi vuole avvicinarsi al mondo del lavoro e chi offre «ospitalità». A volte, però, lo stage nasce in maniera casuale, dall’invio spontaneo di un curriculum, e solo in un secondo momento viene cercato un ente promotore che suggelli l’accordo tra giovane e azienda.
Trovare uno stage oggi è la cosa più facile del mondo: basta digitare la parola su Google e, anche limitandosi alle pagine in italiano, escono milioni di risultati. Ma senza una guida è abbastanza difficile orientarsi nella giungla delle offerte: ecco perché i vari uffici e sportelli stage offrono ai ragazzi consulenza e assistenza. Con alterni risultati, a dir la verità: ce ne sono alcuni che lavorano benissimo, altri che ci mettono buona volontà ma arruolano personale poco preparato e quindi non sanno fornire un apporto adeguato né ai tirocinanti né alle aziende, altri ancora che cercano soltanto di guadagnarci e quindi non prendono alcuna misura per tutelare i giovani dalle fregature.
A livello normativo, un primo tentativo di introdurre questo strumento nel mondo del lavoro italiano era stato fatto già trent’anni fa, con la Legge-quadro in materia di formazione professionale (21 dicembre 1978, n. 845), che all’art. 15 prevedeva: «Le istituzioni [...] operanti nella formazione professionale possono stipulare convenzioni con le imprese per la effettuazione presso di esse di periodi di tirocinio pratico e di esperienza in particolari impianti e macchinari o in specifici processi di produzione oppure per applicare sistemi di alternanza tra studio ed esperienza di lavoro». Già a quell’epoca il legislatore subodorava il pericolo che i tirocinanti potessero essere utilizzati impropriamente dalle aziende, e quindi si affrettava a specificare: «Le attività formative [...] sono finalizzate all’apprendimento e non a scopi di produzione aziendale». In ogni caso la legge rimase quasi lettera morta, e fino agli anni Novanta si sentì parlare pochissimo di stagisti.
Lo stage è diventato di moda solo da una decina d’anni. Più precisamente è riapparso con l’approvazione della legge 196 del 1997, il cosiddetto «pacchetto Treu», tra le Norme in materia di promozione dell’occupazione. Si legge infatti nell’art. 17, comma 1, lettera b: «attuazione dei diversi interventi formativi anche attraverso il ricorso generalizzato a stages, in grado di realizzare il raccordo tra formazione e lavoro e finalizzati a valorizzare pienamente il momento dell’orientamento nonché a favorire un primo contatto dei giovani con le imprese». L’articolo successivo poi spiega più in dettaglio che «Al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro e di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro, attraverso iniziative di tirocini pratici e stages», dovrà essere fatta una legge apposita. Che arriva puntuale l’anno successivo: è il decreto ministeriale n. 142, firmato dal ministro del Lavoro, quello della Pubblica istruzione e quello dell’Università e della ricerca. Un regolamento articolato in una decina di punti per disciplinare la materia: qual è il numero massimo di stagisti che ciascuna azienda (o ente) può ospitare, chi può attivare gli stage, come devono essere formulati i progetti formativi, quanto possono durare e così via.
Già a una prima lettura si capisce che la normativa è formulata per lasciare il maggior spazio possibile a tutti: non c’è un limite di età o di titolo di studio per gli stagisti, la durata massima degli stage è molto ampia ed è prevista anche la possibilità di proroga. Infine, la retribuzione dello stagista è discrezionale: pertanto ogni azienda o ente potrà decidere se erogare un rimborso spese o meno. La normativa non prevede una sanzione per chi trasgredisce – un particolare che purtroppo rende in pratica «facoltativo» il rispetto dei limiti imposti.
Da quel momento in poi inizia la danza degli stage. Sempre più forsennata: dalle poche migliaia di stagisti all’anno della fine degli anni Novanta si arriva fino alle centinaia di migliaia di oggi. Solo che in Italia lo stage prende una direzione diversa rispetto alla maggior parte dei paesi europei: non viene concepito come parte integrante dei percorsi formativi, e quindi inserito nel corso di studi superiori o universitari degli studenti, ma viene declinato come formazione successiva, aggiuntiva, da fare «dopo» rispetto al diploma o alla laurea. Il risultato è una perdita di tempo notevole – come rileva anche Marina Rozera, responsabile del Programma Leonardo da Vinci per l’Isfol, nelle conclusioni del manuale Progetta il tuo stage in Europa: «Questo tipo di esperienza negli altri Paesi europei è da tempo sviluppata come parte integrante dei curricula di studio e consente una maggiore integrazione tra sistema scolastico e sistema produttivo, evitando quindi lo scollamento tra tempo della formazione e tempo del lavoro, come invece troppo spesso ancora accade in Italia». Il fine principale per il legislatore doveva essere quello di velocizzare il raccordo tra formazione e ingresso nel mondo del lavoro per i giovani: ma l’obiettivo non è stato – finora – centrato.
Quindi gli stagisti italiani sono innanzitutto vecchi, specie se confrontati ai loro colleghi europei o americani. La normativa non prevede indicazioni rispetto a un’età massima: si possono fare stage non solo a vent’anni o venticinque, ma anche a trenta o addirittura quaranta3. Un limite in questo senso proteggerebbe molti adulti dal sentirsi proporre stage – ma c’è chi pensa che limiterebbe la possibilità, per persone che hanno preso una determinata strada professionale, di cambiare idea e rimettersi in gioco, provando a imparare (appunto, attraverso uno stage) un altro lavoro. In ogni caso il limite non c’è e quindi gli stagisti trenta-quarantenni, anche se non numerosissimi, esistono.
Sono vecchi, inoltre, perché non c’è nemmeno un limite massimo di tempo tra la fine di un percorso formativo «accademico» (ad esempio diploma, laurea) e l’inizio di uno stage. C’è chi si illude che i laureati possano fare stage solo nei primi 18 mesi dopo la laurea. In realtà questa è una pura formalità: se è vero che ogni neolaureato, per l’attivazione di uno stage, può rivolgersi per il primo anno e mezzo all’ufficio tirocini della sua facoltà, non è affatto vero che passato questo periodo non potrà più fare lo stagista: semplicemente, dovrà utilizzare come soggetto promotore non più l’università, ma un centro per l’impiego o uno degli innumerevoli altri enti previsti dalla legge (nello specifico: agenzie per l’impiego; provveditorati agli studi; istituzioni scolastiche che rilascino titoli di studio con valore legale; centri di formazione professionale e/o orientamento; comunità terapeutiche, enti ausiliari e cooperative sociali; servizi di inserimento lavorativo per disabili gestiti da enti pubblici delegati dalla regione; istituzioni formative private senza scopo di lucro con specifica autorizzazione della regione).
È un aspetto, questo, molto significativo. Altrove – in Europa, in America – lo strumento dello stage è dedicato pressoché esclusivamente ai giovanissimi: ragazzi di vent’anni che frequentano l’università e che completano la formazione accademica attraverso un’esperienza sul campo. Basti pensare che Monica Lewinsky, dive...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. 1. L’anomalia italiana
  3. 2. L’esercito degli stagisti
  4. 3. Gli stage giusti e gli stage sbagliati
  5. 4. Si scrive «stagista», si legge «dipendente» senza soldi né diritti
  6. 5. «Serial stagisti»: quando lo stage è un vicolo cieco
  7. 6. Fatta la legge, trovato l’inganno
  8. 7. Stage e soldi pubblici: tanto paga Pantalone
  9. 8. Fuga da AlcaStage
  10. 9. «C’è la fila»: mestieri ambiti, stage infiniti
  11. 10. La Repubblica dei praticanti
  12. 11. C’è chi dice no
  13. 12. E gli stagisti vissero felici e contenti
  14. Appendice