Lo sfruttamento nel piatto
eBook - ePub

Lo sfruttamento nel piatto

Quello che tutti dovremmo sapere per un consumo consapevole

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Lo sfruttamento nel piatto

Quello che tutti dovremmo sapere per un consumo consapevole

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

«Il viaggio raccontato da Mangano lungo la complessa filiera agroalimentare permette di conoscere ciò che si nasconde nel piatto in cui mangiamo. La conoscenza come strumento per essere liberi e scegliere consapevolmente. Il cibo come elemento con una potenza straordinaria capace al contempo di indebolire o favorire giustizia sociale: nostra la scelta, nostra la responsabilità.»Carlo Petrini, Slow Food

Al supermercato siamo contenti di trovare passate di pomodoro e arance 'sottocosto'. Spesso le compriamo, soddisfatti del risparmio. Poi capita di indignarci leggendo certe notizie spaventose sui lavoratori delle campagne.C'è un filo comune che lega quelle notizie ai nostri comportamenti d'acquisto. Questo libro indaga la filiera di alcuni prodotti agricoli ad alto rischio, dalle arance ai pomodori, all'uva. Andando a ritroso dal supermarket ai centri di distribuzione, fino alle serre e ai campi, scopriamo che la brutalità del caporalato e la 'modernità' della globalizzazione convivono senza scontrarsi. E che l'economia globale porta i contadini di Rosarno a competere con quelli brasiliani; i pugliesi con i cinesi; i piemontesi con gli spagnoli. I ghetti sono la parte visibile del problema. Le cause vanno cercate in una filiera dominata dagli intermediari e sovrastata da oligopoli capaci di imporre i prezzi, a ogni costo.Antonello Mangano ci accompagna in un lungo viaggio dagli agrumeti di Rosarno alle industrie di succo d'arancia tra Messina e Catania, dai supermercati del milanese ai campi di pomodori di Foggia e Ragusa, fino alle centrali logistiche padane. Infine, scopriremo i frutteti di Saluzzo e i vigneti del Chianti, perché lo sfruttamento si annida persino nelle aree più ricche.Il libro si chiude con una domanda cruciale: se non voglio essere 'complice' di un sistema ingiusto, come devo comportarmi? Le alternative, per fortuna, sono numerose.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Lo sfruttamento nel piatto di Antonello Mangano in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Economia e Politica economica. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858147986
Argomento
Economia

1.
Agrumi e sangue

«La vie est un combat
que nous devons combattre»
Scritta murale nelle campagne di Foggia, 2010
In autunno, le ultime arance «valencia» del Sudafrica arrivano in Europa. Nei paesi mediterranei, invece, si raccolgono le prime «navelina».
A causa dell’alternanza delle stagioni, i due emisferi possono assicurare agrumi per tutto l’anno scambiandosi produzione e vendita. I consumatori tedeschi, probabilmente senza rendersene conto, finiscono di acquistare arance sudafricane e iniziano con quelle andaluse. La Spagna domina in Europa, il Brasile nel mondo. Nel Vecchio continente seguono Italia e Grecia, in America gli Stati Uniti e il Cile.
Quello dell’arancia è un mercato globale, specie per il settore più importante: la produzione del succo. Quando compriamo un’aranciata al supermercato, è probabile che solo una piccola percentuale di agrumi abbia contribuito al contenuto della lattina. Ma è altrettanto probabile che quel succo, congelato nei cargo e trasportato nei container, abbia attraversato almeno un oceano.
Quando, soprattutto nel periodo di Natale, facciamo la spesa troviamo sui banconi del fresco clementine, navel e tarocco. Le etichette ci dicono poco sulla provenienza. E assolutamente nulla sull’eticità dei prodotti. Per saperne di più dobbiamo iniziare un viaggio partendo da Rosarno, provincia di Reggio Calabria.

Il porto

Conosco la realtà di Rosarno dal Natale del 2000, quando incontrai su un treno regionale Ciccio Svelo, un generoso avvocato di Reggio Calabria che difendeva i migranti e che sarebbe morto qualche anno dopo, ancora giovane. «Vai a vedere», mi disse. «Lì c’è una situazione da non credere».
Iniziai a documentare le condizioni di vita dei migranti, anno dopo anno. «Documentare» significava anche contare i morti e i feriti, osservare baracche di cartone che diventavano case, assistere impotente alla sconfitta di lavoratori inizialmente carichi di energie e poi persi in un vortice di delusione e – spesso – disagio psichico.
Presto capii che non era sufficiente denunciare il disastro umanitario. Bisognava comprendere il meccanismo economico che c’era dietro, i passaggi della filiera, le origini dello sfruttamento. Iniziai a fare domande su chi vende a chi. Volevo sapere dove finiscono le arance di Rosarno. Ma nessuna grande azienda parlava. Qualcuno invocava la privacy. Altri mi inviavano modelli «copia e incolla» sulla policy di responsabilità sociale. In breve tempo, capii che è più facile indagare sulla mafia che sulla frutta.
Il punto di partenza della mia indagine fu un punto di osservazione sopra una collina. Di fronte a me c’erano le enormi gru del porto di Gioia Tauro, uno degli hub principali del traffico merci tra Asia e Mediterraneo. Alle mie spalle potevo immaginare il ghetto di San Ferdinando, con le baraccopoli dei braccianti africani impegnati nella raccolta delle arance.
Fu subito chiaro che bisognava parlare di economia globale. Tutti ne siamo coinvolti, anche soltanto come consumatori. Un processo semplice come la produzione di arance (si coltivano, si raccolgono, si mangiano) è diventato un sistema complesso che porta prodotti a basso costo dai campi di ogni angolo del pianeta agli scaffali dei supermercati. E da lì alle nostre tavole.
Anche a Rosarno possiamo trovare tutti gli elementi della globalizzazione: succo congelato che arriva dal Brasile; manodopera dall’Africa e dall’Est Europa; export di frutta in tre continenti.
Nonostante la retorica («Sono pagate così poco che è meglio lasciarle sugli alberi»), da trent’anni c’è qualcuno che viene a Rosarno per raccogliere arance. Di conseguenza, c’è qualcuno che le vende e qualcun altro che le compra. Questo qualcuno non è il mercato locale. Infatti nei bar del paese è difficile trovare una spremuta di arance del luogo. Però si trovano negli scaffali dei supermercati negli Emirati Arabi, in Egitto, Russia, Stati Uniti, Germania e – almeno in passato – nelle lattine di Fanta. Nessuno, al momento, può realmente garantire la provenienza etica delle proprie arance.

Sul punto di andare via

Era l’inverno del 2005. Ogni volta, alla stazione di Rosarno, provavo sempre la stessa sensazione: una voglia irresistibile di andare via. Subito. Invece le ore passavano e cresceva la rabbia per quello che vedevo. Le «vedette», ragazzini sui motorini che perlustravano il paese. I bar, vetri a specchio e poltrone rosa, pieni di «sentinelle» pronte a registrare i nuovi arrivi in paese. I «picciotti di giornata» che ascoltavano tutte le conversazioni, per riferirle il giorno dopo al boss. Le «staffette», persone estranee ai clan incaricate di portare messaggi e beni di conforto ai latitanti attraverso un complicato sistema di passaggi, utili a confondere gli investigatori.
Non ne potevo più di quell’architettura, degli scheletri di cemento, delle strade sfondate attraversate da Audi e Bmw con i vetri oscurati. Delle storie, raccontate sottovoce, di morti ammazzati a colpi di kalashnikov dopo una lite per un parcheggio. Di autobombe, di razzi anticarro jugoslavi trovati in normali appartamenti. Di quattordicenni assassinati con un colpo alla nuca. Di cacciatori uccisi per rubargli il fucile. Di padri che lasciavano un figlio di due anni, a cui qualcuno un giorno avrebbe dovuto spiegare quella morte senza senso.
E poi i migranti: in migliaia nelle fabbriche abbandonate, nei casolari senza il tetto.
«Si alzano prima dell’alba, quando le decorazioni natalizie lanciano luci tremolanti sulle ombre del paese. Subito si radunano in centinaia, ricreando una mappa dei problemi dell’Africa e della povertà dell’Est Europa tra le stradine di Rosarno». Così Felicity Lawrence, inviata del «Guardian», raccontava la raccolta delle arance nel 2006. Una realtà fatta di lavoro duro, paghe misere, abitazioni da incubo che avrei presto imparato a conoscere.
Gli africani non erano solo sfruttati, ma pure aggrediti senza alcun motivo. Osservavo l’indifferenza delle istituzioni e l’arroganza dei grandi imprenditori. Ma soprattutto non potevo accettare le violenze quotidiane contro lavoratori indifesi. Uno stillicidio di aggressioni senza senso. «Perché sparare addosso a gente che non ha fatto niente di male?», chiedevo. Quando sentii persone comuni che dicevano «in fondo sono solo episodi isolati», allora persi le speranze.
Avevo deciso di non tornare mai più. Stavo per salire sul treno, quando un amico mi disse: «Parla con Lavorato».
Ritardai la partenza. Mi ritrovai in un appartamento semplice, piccolo, un’abitazione da insegnanti: scaffali pieni di libri e la caffettiera sul fornello pronta ad accogliere gli ospiti. Giuseppe Lavorato mi apparve come un signore dallo sguardo limpido, come se vedesse in lontananza, i modi distinti, un’energia di altri tempi, l’eloquio da comizio. «La maggioranza dei rosarnesi è fatta di persone oneste e laboriose, oppresse da una minoranza violenta», esordì. Mi spiegò un concetto semplice. Se esiste un’alternativa credibile, la gente la premia. Se invece si generalizza, se si dice che sono tutti criminali, allora anche gli onesti si avvicinano ai mafiosi, perché si sentono offesi.
Nell’immaginario comune il Sud – e la Calabria in particolare – è una terra dominata dalla mafia e dal fatalismo. Invece, bastò mezzo pomeriggio per scoprire una storia sconosciuta, nobile, a tratti eroica. Lavorato mi raccontò una storia che iniziava con l’occupazione delle terre e l’organizzazione dei braccianti in cooperative, proseguiva con i martiri calabresi della lotta alla mafia e si concludeva con la prima giunta di sinistra accolta con un capodanno di fuoco.
Una storia che iniziava negli anni Cinquanta e proseguiva più o meno fino al 2000. Nel dopoguerra, la passione politica si affiancava al sogno di sconfiggere la fame. I braccianti sfidarono gli agrari e la loro arroganza da privilegiati. Iniziava l’epoca dell’occupazione delle terre. Fu una rottura inimmaginabile. Appena due decenni prima, negli anni Trenta, i lavoratori venivano radunati nella piazza del paese e gli agrari, prima di prenderli a giornata, controllavano la consistenza dei muscoli delle braccia. Le donne, quando avevano sete, potevano soltanto bere l’acqua delle pozzanghere.
Gli anni Cinquanta furono segnati dall’occupazione delle terre, i vent’anni successivi da una relativa uscita dalla povertà. Poi arrivò il 1970. Si cominciò a parlare, nel lessico della sinistra dell’epoca, di «blocco rurale», per indicare l’insieme di grandi e piccoli proprietari, spesso agrari assenteisti e sfruttatori. Tutti appiattiti su posizioni reazionarie. Il «blocco urbano» era invece l’accozzaglia interclassista di grande borghesia e proletariato, aggregati, in quel periodo, su rivendicazioni futili («vogliamo il capoluogo») e su posizioni di estrema destra. C’erano tutti gli ingredienti per un incubo: una rivoluzione fascista. E infatti venne la rivolta di Reggio, un incubo appunto. Un popolo in piazza sotto le bandiere nere dell’estrema destra.
Il 1980, invece, fu l’anno dell’omicidio Valarioti. E fu chiaro che si trattava di una guerra. A Rosarno, durante quelle campagne elettorali, la tensione raggiungeva picchi altissimi. Manifesti staccati e poi incollati nuovamente, ma capovolti. Un tentativo di incendiare la sezione comunista. L’auto di Lavorato bruciata. Minacce continue.
I comizi erano un palchetto con quattro tavole di legno, un megafono, uno striscione. «Non date i voti alla mafia, perché mentre essa si arricchisce mette in pericolo i vostri figli, che attratti dalle sue lusinghe vengono utilizzati e talvolta uccisi», urlava Lavorato nei quartieri di periferia. E intravedeva sguardi carichi di odio. Gli sguardi dei mafiosi.
Alle elezioni provinciali e regionali il partito ottenne un ottimo risultato. E la ’ndrangheta sparò la sera stessa, mentre si festeggiava in trattoria. Valarioti cadde in un cortile buio a due passi da Lavorato. Niente sarebbe stato più come prima.
Dopo l’uccisione dell’amico, per Lavorato furono anni di buio. «Non ho sconfitto la paura con il coraggio, ma nell’unico modo possibile: imparando a conviverci». Poi racconta: «Mentre ero da solo nello scompartimento di un treno, salì un ragazzo, mi vide, mi disse in dialetto ‘chi si fa gli affari suoi campa cent’anni’ e scese». Chi faceva politica iniziò a chiudersi in casa. In paese erano frequenti i palazzi senza intonaco, coi mattoni forati e i ferri sporgenti. All’interno, però, l’arredamento era spesso extralusso. La gente si rifugiò nel privato. Visse anni in apnea. Ma allo stesso tempo diventò molto permalosa, anche giustamente, perché erano troppi i giornalisti che arrivavano, restavano poche ore e sputavano sentenze: tipicamente, «questo è l’inferno».
Questo, invece, è il Sud. Quel posto dove, quando sei sul punto di andartene sbattendo la porta, urlando che tutto è perduto, c’è qualcosa che ti ferma proprio sulla soglia. Quel qualcosa, per molti, fu la valanga di voti con cui tutti i rosarnesi scelsero un sindaco rigidamente antimafioso. Della lotta alla mafia, Lavorato aveva fatto una vera religione, proprio nella terra che gli uomini della ’ndrangheta avevano occupato militarmente. L’elezione in Parlamento fu il primo segnale. Poi nel 1994, contro ogni previsione, Lavorato diventò sindaco di Rosarno.
A poche settimane dall’insediamento, in una notte di dicembre, un gruppo di delinquenti devastò alcune scuole. All’interno lasciarono scritte minacciose contro la nuova amministrazione comunale. La risposta venne dalla città intera: una manifestazione contro la mafia con studenti, insegnanti, genitori.
Poi, la notte di capodanno, la ’ndrangheta alzò il tiro trasformando Rosarno in un paese della Colombia: bande armate con fucili e pistole devastarono la cittadina. Incendiarono automobili, distrussero vetrine. Saccheggiarono il municipio, le scuole. Danneggiarono persino il cimitero.
«Questo non è un paese mafioso, ma di gente oppressa dai mafiosi», rispose con orgoglio Lavorato. Il 24 marzo 1998, a 48 ore dalla visita del ministro dell’Interno, un raid mafioso nei locali del municipio distrusse la stanza del sindaco e lasciò un messaggio di morte contro di lui: «Sei tu il primo a morire. Firmato mafia». Ma la città è con lui e lo rieleggerà, nel 2001, con un vero plebiscito. Dopo una confisca di beni per sei miliardi di lire ai danni del clan Pesce, in paese si sentì il suono dei kalashnikov. Nuovamente contro il municipio. Sulla facciata, sulla vetrata e in particolare sull’esterno dell’ufficio del sindaco rimasero ben visibili i segni dei proiettili dell’arma da guerra.

I braccianti

Nel 2002 il Comune iniziò a confrontarsi con la questione dei braccianti africani, specie dopo che i senegalesi scrissero al sindaco chiedendo aiuto contro «giovani ignoranti e armati». Si riferivano ai ragazzini...

Indice dei contenuti

  1. Premessa. Il prezzo del sottocosto
  2. 1. Agrumi e sangue
  3. 2. Che cosa c’è dietro a un’aranciata
  4. 3. Sulle dolci colline
  5. 4. Codice rosso. I pomodori in un mercato globale
  6. 5. E allora dove faccio la spesa?
  7. 6. Le soluzioni
  8. Bibliografia