1.
Nascita, morte
e sopravvivenza dell’epica
Premessa
Le riflessioni di filosofi, storici e teorici della letteratura sembrano aver concordemente sancito la morte definitiva dell’epica nell’età moderna in Occidente, chiarendo le ragioni sociali ed estetiche che non consentono più la sopravvivenza di un ‘genere’ legato ai momenti primi e fondanti di una coscienza indivisa. Ma se questo discorso vale per il genere, non riguarda necessariamente il ‘modo’, ovvero quel principio organizzativo dell’immaginario letterario che si concretizza storicamente nei singoli generi. Nell’età contemporanea si direbbe che l’epos sopravviva nel segno dell’ironia e dell’assenza, poiché, da un lato, lo statuto parodico e metalinguistico di tanta scrittura novecentesca sembra, per molti aspetti, misurare la distanza da un orizzonte sublime che è andato irrimediabilmente perduto; dall’altro, l’estetica moderna del frammento, dell’incompiuto e dell’informale tende a svalutare l’unità compatta e organica dell’universo eroico che si traduce nella totalità coerente dell’opera epica. Ma anche trasferendoci nel merito dei temi trattati, si vede come molti di questi si collochino agli antipodi del sapere globale trasmesso dall’epos: la guerra moderna, tecnologica e massificata, ignora il fatto d’arme e la prodezza cavalleresca, svuotando di senso l’universo di valori espresso da una società eroica, sulla quale già stendeva il proprio rimpianto, fra nostalgico e ironico, uno che di epica si intendeva come Ludovico Ariosto ([1474-1533], vedi la celebre invettiva contro le armi da fuoco nemiche del valore individuale nel suo Orlando Furioso, XI, 23-28 [1516]).
D’altra parte, una sorta di nostalgia nei confronti dell’epica ne evoca costantemente la forza smarrita nei contesti apparentemente più anomali della comunicazione di massa: si pensi al vero e proprio abuso che fa dell’aggettivo ‘epico’ la scrittura giornalistica allo scopo di mitizzare una impresa scientifica che desta meraviglie per umano coraggio e portata tecnologica (per esempio lo sbarco sulla luna), o un’impresa sportiva in cui un singolo atleta esprime energie e valori primordiali dell’uomo (per esempio una gara ciclistica di montagna). Da questo punto di vista, la vitalità odierna del termine sembra inversamente proporzionale all’esaurimento del genere che lo ha storicamente realizzato nella scrittura letteraria. ‘Epico’ è un evento che stabilisce un qualche preciso rapporto con il sublime degli archetipi e dei modelli del passato: che collega più o meno esplicitamente le sue determinazioni contingenti a valori antichi improntati a una visione eroica del mondo e depositati nella memoria storica di una collettività.
Nel sistema classico dei generi, l’epopea fu a lungo il mezzo espressivo in cui si dispiegavano i doni di un poeta che era anche profeta: intuizioni visionarie, conoscenze enciclopediche, arte dell’intreccio e sapiente tecnica di variazione tematica e stilistica. Lo studioso dell’età romanza Alberto Vàrvaro (n. 1934) ha ricordato che la poesia epica non solo precede storicamente ogni altra forma letteraria, ma è anche, idealmente, il genere che instaura la letteratura. E ciò accade in quanto «l’epica stabilisce un rapporto primario fra la sua materia narrativa ed una qualche vicenda storica di rilievo per la comunità che la ricorda, sicché essa si distingue dall’altra narrativa proprio perché il suo non è un rapporto generico con la realtà bensì con avvenimenti storici specifici (che siano reali o presunti importa meno)». L’epica precede, in tal senso, anche la storiografia, o è, essa stessa, la prima forma di storiografia. L’elemento più significativo è che essa è poesia nazionale, perché rappresenta la presa di coscienza che una collettività opera di se stessa e dei suoi interessi; ed è per questo che la poesia epica si realizza in momenti precisi della vita storica di una nazione, nel periodo, appunto, della sua formazione.
Prima di entrare in materia, vorrei sfruttare ironicamente proprio una delle istituzioni del racconto epico, e cioè la digressione, per addentrarmi in una ricognizione in quei territori in cui l’epica ha lasciato il suo segno, pur senza averli colonizzati interamente.
Il romanzo, soprattutto un certo tipo di romanzo, resta, nonostante tutto, erede di quella tradizione di racconto che ha scortato la letteratura attraverso i secoli, dall’età classica a buona parte dell’Ancien Régime: a opere come Moby Dick o Ulysses ognuno sarà disposto a riconoscere, sia pure per ragioni diverse, un carattere in senso lato ‘epico’. Ma basta pensare a un preciso filone narrativo, quello del ‘romanzo storico’ ottocentesco, per riconoscere qualcosa di più, e cioè una filiazione diretta dall’epica, anzi un caso manifesto di sostituzione di ‘generi’. Nel suo trattato Del romanzo storico (1845) Alessandro Manzoni (1785-1873), in veste di teorico, riconosce appunto la matrice comune ai due generi per la loro natura di componimenti ‘misti di storia e d’invenzione’; parallelamente, in quanto creatore, riattiva una serie di topoi ben riconoscibili del racconto epico quando descrive la quête del suo eroe romanzesco, Renzo, come un’‘odissea’ dentro Milano sollevata e come una ‘discesa agli Inferi’ il suo attraversamento del male prodotto insieme dalle violenze della natura e dai deliri della ragione. È significativo in questo senso che, proprio là dove egli ha successo col suo romanzo, fallisca invece il suo amico fraterno Tommaso Grossi (1790-1853), il cui I Lombardi alla prima crociata (1826), poema tassiano fin dal titolo, denuncia l’inattualità del modello poetico tradizionale. Quel fallimento decreta un passaggio di consegne istituzionale dovuto al fatto che le istanze nazionali dell’età risorgimentale erano ormai incorporate proprio nel genere nuovo del romanzo storico.
Se allarghiamo la prospettiva alla letteratura dell’Europa moderna, i casi di sopravvivenza ‘epica’ si fanno ancora più eclatanti. Nel suo grande affresco della campagna napoleonica di Russia, Lev Tolstoj (1828-1910) celebra con Guerra e pace (1863-1869) il ruolo del popolo quale depositario dei valori più autentici della «santa madre Russia». Alle capacità razionali e strategiche dei francesi, alla grettezza della classe dominante aristocratica, egli contrappone le virtù patriarcali della Russia cristiana e contadina. Per questa via Tolstoj giunge a dare un’epica rappresentazione della totalità dell’esistenza, capace di abbracciare, nella dialettica elementare espressa fin dal titolo, la complessità del mondo: la guerra e la pace sono la potente sintesi della vicenda umana, e la sua è una disposizione autenticamente ‘omerica’ di serena e insieme solenne contemplazione del perenne fluire delle umane sorti.
Il Moby Dick (1851) di Herman Melville (1819-1891) conserva anche formalmente molte delle convenzioni epiche, come le invocazioni e le similitudini, oltreché le digressioni. E, soprattutto, vede al suo centro la grandiosa figura del capitano Achab nel tradizionale ruolo epico dell’uomo contro il mostro: egli è Odisseo che affronta Scilla e Cariddi, Beowulf che combatte contro il dragone, Orlando che salva Olimpia dall’orca. Lo stile sostenuto e allusivo di Melville, irto di metafore, ha dato alla scrittura lo spessore di una prolungata allegoria. Il mare, omerico e biblico insieme, diventa nel Moby Dick lo spazio maledetto del terrore e del mistero dell’esistenza, di cui la balena bianca, contro cui Achab lotta ossessivamente, è il simbolo folgorante. Così, il testo di Melville può apparire, a seconda dei punti di vista adottati, come la moderna versione di un mistero medievale – l’arcaica «psicomachia» nella quale l’Uomo si scontra con l’Assoluto –; o come la trasparente epopea della lotta dei pionieri americani per la conquista di un continente e il dominio della sua selvaggia natura. In effetti il parallelismo fra l’immensa distesa dell’oceano e le praterie del West è la metafora su cui poggia tutto Moby Dick, ed è alla forza immane e primigenia del bisonte che Melville ricorre per evocare il brivido demoniaco dell’incontro con la balena. Più in generale ancora, il romanzo incarna l’eroe romantico prigioniero dei limiti del reale, al quale la forte componente puritana della cultura di Melville conferisce una dimensione etica e uno spessore ideologico di ‘predestinato’, che è ignoto agli analoghi esemplari europei.
Nell’Ulysses (1922) di James Joyce (1882-1941) il rapporto con gli archetipi è esplicito fin dal titolo. Ma l’odissea dell’uomo qualunque Leopold Bloom, pallido ricordo di quello che era un cammino iniziatico, ridimensiona tempo e spazio, oltre che natura delle imprese. Le peregrinazioni di Ulisse in mari e terre lontane per dieci lunghi anni incorniciano i movimenti di un piccolo agente d’affari ebreo per le strade e nei bar di Dublino dalle prime luci dell’alba alle ore piccole della notte di un’unica giornata, il 16 giugno 1906. Indicando con titoli omerici (per esempio Scilla e Cariddi, il Ciclope, l’Ade) le sezioni del suo testo, Joyce collega il romanzo con il poema antico di Omero e nel rinvio mitico sovrappone alla figura di Ulisse quella dell’ebreo errante, simbolo di altri sradicamenti e di altri esili. Al ritorno a casa, compimento del nostos cittadino, ad attendere l’eroe c’è Molly, una Penelope infedele. Il romanziere stesso ha dichiarato che la sua intenzione era «di rendere il mito sub specie temporis nostri». Ciò significa non solo interpretare la realtà contemporanea nella forma della distanza epica, e dunque in quella chiave eroicomica che fa di Bloom un tipico inetto della letteratura novecentesca, ma riconoscere che nell’inattualità del mito si cela un mondo di perplessa e complessa interiorità che esige un diverso tipo di eroe.
L’Ulysses appartiene di diritto al novero di quelle che lo studioso di letterature comparate Franco Moretti (n. 1950) ha chiamato le «opere-mondo», ovverosia quei monumenti enciclopedici e polifonici, quelle cattedrali letterarie su cui si fonda, come su bastioni dei più robusti, il canone occidentale (dal Faust [1773-1831] di Goethe [1749-1832] a Cent’anni di solitudine [1967] di Gabriel García Márquez [n. 1928]). Queste opere rappresentano, nell’interpretazione del critico, una sorta di epica moderna nella stagione imperante del romanzo, e recano, nella loro imperfezione di capolavori in certo modo ‘mancati’, il segno della discrepanza fra l’ambizione totalizzante dell’epica e la realtà frammentata del mondo moderno.
Chiudo il ciclo di questa breve rassegna tornando dalle parti di casa nostra. Si è parlato, per la letteratura italiana del dopoguerra, di un’epica della Resistenza: il termine ha inteso battezzare non solo una guerra vissuta come ‘lotta di popolo’, ma anche la voglia di rifondazione democratica che animava una società scaturita dall’abbattimento della dittatura fascista. Beppe Fenoglio (1922-1963) è probabilmente colui che, meglio di tanta letteratura neorealista, ha dato voce a questi valori elaborando, nel Partigiano Johnny (1968), una sorta di scrittura aurorale – epica per definizione e intenti. Egli tende al ‘grande stile’, ovvero alla trasposizione degli avvenimenti nell’esemplarità simbolica di una lingua prima. Si tratta di un linguaggio assoluto, fondato su un sostanziale monolinguismo e su un massimo di concentrazione espressiva che conferisce solennità a ogni gesto, anche il più quotidiano. Di qui l’effetto di distanza che, pur trattando di avvenimenti contemporanei, l’opera di Fenoglio comunica al lettore. Come ha scritto Gian Luigi Beccaria (n. 1936): «Fenoglio ha riportato indietro, alle ‘origini’, i modi del raccontare, consapevole che l’epicità di una guerra presente si può cantare solo riducendo la storia ad una arcaica unità primordiale».
Tuttavia, non la sola letteratura, che gli ha dato i natali, può vantare un dominio esclusivo sul territorio dell’epica. Ogni forma di racconto, in quanto tale, può ambire a siffatta definizione, qualunque ne sia il mezzo espressivo. Qui la mia esposizione deve necessaria...