III.
La “vera vita”
1. “La vita non vive”: questo è senz’altro l’enunciato più radicale, di fatto, il più paradossale che riguardi la vita. Restiamo paralizzati, forse per sempre muti di fronte ad un’affermazione dallo statuto così enigmatico: la negazione è nella vita stessa. Al punto che tutto ciò che ne diremo sarà sempre solo l’evitamento – o lo scioglimento – di questa aporia. Si tratta in questo caso della contraddizione a un tempo più segreta e più lampante che non saremo mai in grado di pensare del tutto. Della contraddizione che è al centro della vita e attorno alla quale ruotano le nostre vite. Si potrebbe credere, infatti, che la vita sia “spontanea”, che si sviluppi da sola, si compia tutta intera nella sua immediatezza, che le contraddizioni derivino solo dall’esterno della vita, o oltre, o dopo di essa. Orbene, per i viventi che siamo, dei viventi assurdi, la vita continua a smentire se stessa. Continua a tradire se stessa, a sottrarsi, invece di dispiegarsi; continua a nascondersi e a dissimularsi, a occultarsi e “assentarsi”; continua a sfuggirci. Abbiamo mai accesso alla vita, che ci è data originariamente? Non è nascosta e persa dal principio? Abbiamo sempre considerato, creduto, che la vita fosse come una sorgente dentro di noi; eppure questo vivere, che è all’origine di noi stessi, è sempre fuori dalla nostra portata. Restiamo sempre a distanza dalla vita, da cui tuttavia continuiamo a procedere. Per questo non possiamo avere altra ispirazione – altra nostalgia – che di vivere, sebbene il vivere sia esattamente ciò in cui siamo già da sempre implicati.
Vivere definisce nel modo più elementare la nostra condizione; eppure allo stesso tempo vivere ci è impossibile. Ecco lo iato, o meglio il vuoto a partire dal quale la nostra esistenza può cogliere se stessa, vuoto che non smettiamo mai di voler colmare, di solito, con la morale o la fede. Si tratterà però sempre solo di cerotti sulla ferita aperta, che non siamo capaci di rimarginare meglio. “La vita non vive” è l’epigramma con cui Adorno apre il suo Minima moralia, «das Leben lebt nicht», senza mai commentarlo: si tratta di una formula che abita il suo libro da un capo all’altro, senza che però egli si soffermi ad interrogarla. Ciò forse dipende dal fatto che effettivamente può essere detta solo en passant, sotto forma di annuncio, o di avvertimento, visto che si propone di affrontare l’inaffrontabile, allude a ciò che non è semantizzabile, o acquista un senso solo ai confini del pensiero: esattamente là dove avrebbe inizio la “vera vita”, quella che le nostre vite vivono solo in modo “caricaturale”, Zerrbild wahren Lebens, dice Adorno. Caricatura, ovvero immagine caricata, che smaschera le nostre vite per come le viviamo – o meglio per come non le viviamo, per come non vi viviamo. O ancora, come dice Adorno ricorrendo ad una formula che assume il tono di un’accusa contro questo abbandono: “la vita è diventata l’ideologia della sua propria assenza”, Leben ist zur Ideologie seiner eigenen Absenz geworden.
E ancora “la vera vita è assente”, fa eco Lévinas, rifacendosi a Rimbaud, sempre tra virgolette, sempre come incipit, come un baldacchino al di sotto del quale si apre il pensiero (le prime parole di Totalità e infinito). In effetti, qual è il motivo per cui questi due grandi Ebrei, questi due sopravvissuti della Shoah, questi due esiliati, arrivano a risvegliare con urgenza il vecchio tema platonico della “vera vita”, rimettendo così in discussione, entrambi, la totalità astratta, ereditata da Platone, che viola la singolarità della vita e sin dall’inizio la tradisce? Come se non vi fosse altro rimedio, altro soccorso possibile, fino alla nostra modernità, per garantire la sopravvivenza: come se occorresse necessariamente ritornare alla “vera vita” e tenersi saldi ad essa, come all’ultimo parapetto rimasto, per salvarsi dal cataclisma e dal terrore in cui l’umanità stava per perdere se stessa. Allo stesso tempo, però, l’estremo della non-vita toccato nella vita dei campi, nel punto più basso della Storia, non è rivelatore dell’essenza stessa della vita che si è soliti tenere nascosta, o almeno non lasciar trapelare? “La vera vita è assente, ma noi siamo al mondo”, afferma Lévinas all’inizio della sua opera, rimarcando – in virtù della tensione tra le formule – la contraddizione in modo rigoroso. Ma fino a che punto, ancora una volta, la si accetta? Perché, come fa Lévinas, bisognerebbe considerare senza indugio tale assenza nei termini di un “altrove”, che funga da “alibi”, un Altrove al di là del mondo, quel Lassù che la metafisica, a partire da Platone, non ha mai cessato di rivendicare? La “vera vita”, finendo per contraddire questa stessa contraddizione, la più cruciale, espressa nella formula “la vita non vive”, non potrebbe essere effettivamente concepita, o per lo meno intravista, in questa vita qui, in seno alla vita? Poiché è la sola...
2. Ma allora qual è il significato di “vero”, se lo si riferisce alla vita e non più soltanto alla conoscenza? E se il vero si oppone al falso, in cosa la vita potrebbe essere “falsa”, non essendo più sufficiente considerarla “alterata”? “Nessuna banalità irriflessa”, avverte Adorno nella sua Dialettica negativa, “può continuare, in quanto riproduzione di una vita falsa, ad essere vera”, als Abdruck des falschen Lebens, noch wahr sein. Potrebbe accadere dunque che mi sbaglio sulla vita, o che ci abbiano mentito su di essa? Forse... può anche darsi però che questa menzogna sia al tal punto originaria, o perlomeno atavica, che ciò ci sia sempre sfuggito. Fino a che punto bisogna effettivamente deviare dalla vita ordinaria, normalizzata e limitata, chiusa nella sua falsa verità, per dire di avere cominciato a sottrarsi da essa? Almeno sarà chiaro oramai come la vita non possa essere “falsa” nel senso corrente, che si riferisce a circostanze o comportamenti, come quando si dice che si è compiuto un passo falso o anche che si è presa una strada sbagliata: tale senso, di tipo più empirico, rimane esterno alla vita stessa. Del resto, non si tratterà neppure di smascherare questa falsità, da un punto di vista metafisico, affermando che la vita in sé è illusione. Non si tratta di sostenere – di dichiarare ancora una volta con enfasi – che la vita non è altro che “sogno”, priva di consistenza ontologica, fugace, effimera così come la conosciamo, e dunque sarebbe solo “apparenza”.
Sostenere che la vita possa essere “falsa” non equivale in effetti a dire che la vita sia essa stessa illusoria, ma che si ha l’illusione di essere in vita, mentre di fatto non “si vive”. E non perché la vita sia solo apparenza, ma perché io stesso non vivo che una vita apparente. È la vita comune, così banale, familiare in cui crediamo di vivere, ma senza vivere e senza nemmeno avere dei dubbi a riguardo, senza nemmeno aspirare ad allontanarcene: senza nemmeno aspirare a domandarsi se non ci lasciamo sfuggire ciò che sarebbe la vita... siamo nella vita apparente e al tempo stesso non ce ne rendiamo conto. La vita falsa, in quanto pseudo-vita, significa dunque che ciò che ci sembra la “vita”, di fatto, non è più vita, non è più la vita che vive. In altre parole, la vita falsa è la non-vita che si sprigiona dentro la vita e che la occulta e la maschera. Da ciò consegue che la “vera vita” sia, per opposizione, la vita effettiva, quella in cui – la formulazione impiegata consente già di intuirlo – si vive “veramente”. In questo modo, la “vera vita” si definisce formalmente, per semplice rovesciamento, in modo rigoroso e non ideologico, come la vita che ha accesso alla vita liberandola, per differenza, dalla vita apparente che non cessa di indebolirla, occultandola. Mentre le nostre vite sono caratterizzate dal fatto di essere in balia della non-vita, la vera vita si afferma e si attualizza, si possibilizza resistendo alla non-vita, che sempre minaccia, mina, mima e dunque nega la vita dall’interno.
Se è vero che la vita “non vive”, che è sempre soggetta alla minaccia di tradire, camuffare, perdere e negare se stessa, di sfuggirsi e di occultarsi, di “assentarsi”, la “vera vita”, di conseguenza, è semplicemente – in senso stretto, letterale – la “vita che vive”. Non si dovrà uscire da questa tautologia. In nome di cosa saremmo, infatti, autorizzati a farlo? Occorrerà piuttosto aggrapparsi ad essa come a ciò che è affidabile, più di ogni altra cosa, stabilirsi in essa, abitarla, non fuoriuscirne, altrimenti si corre il rischio di cadere in una delle innumerevoli ideologie della vita in cui il pensiero continua a disperdersi; in nome delle quali continua a consumare la vita. Se infatti sosteniamo semplicemente che la “vera vita” corrisponde al “vivere veramente”, ecco che il termine “vero” non qualifica più in senso proprio il vivere, non è più predicativo, né attributivo, dunque aggiuntivo. Accontentandosi di avverbializzare il vivere, il “vero” si limita a autenticarlo confrontandolo dall’interno alla sua esigenza. Basti dire che la “vera vita” non dipende per nulla da un giudizio – un giudizio “vero” che verrebbe espresso “sulla” vita: un giudizio che giudica qual è la verità della vita e la sottomette al suo punto di vista. Non si tratterà più di rispondere, ancora una volta, alla solita questione, destinata del resto a rimanere senza soluzione: qual è la concezione (epicurea o stoica, o cristiana o...) più vera, o l’unica vera, della vita? Tale domanda infatti ci fa uscire irrimediabilmente fuori dalla vita e la fa venir meno. Se la vera vita fosse quella che giudico vera, l’avrei già definitivamente occultata e cacciata, con questo giudizio, con il suo coprimento.
3. Ancora meno si tratta di pensare che la verità possa “chiarire” la vita: che qualche “verità” possa esserle un minimo esterna e che da fuori – da questo strapiombo – la possa guidare. Non è ciò che ci auguriamo più di tutto, che ci “salverebbe” la vita, dandoci sollievo: avere in tes...