XII.
Prima del calcio di rigore
ANTONIO GNOLI Da più di quarant’anni svolgi il mestiere di cantante. Ti sei mai sentito parte di un’avanguardia?
FRANCESCO DE GREGORI Precisamente a cosa stai pensando?
AG Al tuo linguaggio. Di solito si parla del linguaggio delle avanguardie. E tu, proprio partendo da Rimmel – ma già prima con Alice –, hai imposto uno stile che rompeva schemi melodici e di contenuto allora imperanti.
FDG «Imposto» mi pare eccessivo. Penso che allora fossi in buona compagnia. Non intendo ridimensionare il mio lavoro, ma se vogliamo parlare di avanguardia è meglio fare riferimento a quella eterogenea categoria di cantautori che, negli anni Settanta, ruppe con una certa tradizione canora.
AG Non sono così sicuro che la tua maniera di raccontare fosse assimilabile a quella degli altri cantautori. Francesco Guccini, per esempio, ha fatto canzoni da cantautore, alcune peraltro molto belle, con l’intenzione didascalica di raccontare un mondo attraverso l’esperienza politica della sua terra, cioè l’Emilia. Se fai un confronto tra la tua canzone Rimmel e La locomotiva capisci immediatamente ciò che sto dicendo. Da un lato c’è il linguaggio volutamente anacronistico, starei per dire pascoliano, di Guccini: un linguaggio dentro una certa tradizione linguistica. E dall’altro c’è il tuo modo di scrivere incline all’ermetismo, spiazzante, perfino sofisticato.
FDG Guccini è precedente. La locomotiva se non ricordo male è del 1972, Rimmel del 1975. È vero che entrambi siamo stati accomunati dentro il generico fenomeno dei «cantautori», ma ciascuno con caratteristiche proprie. Credo di essere stato l’unico di quella generazione che ha importato nelle canzoni italiane un modo di scrivere che era di Dylan e di altri autori americani. Di questa pattuglia di cantautori sono stato quello che si è allontanato maggiormente dal linguaggio della canzone italiana. Ma non mi definirei avanguardia. Ricordo perfettamente che in quegli anni c’era un gruppo di persone, tra cui Edoardo Bennato, Antonello Venditti e altri, che erano dei veri trasgressori rispetto al modo in cui fino a quel momento si era cantato.
AG Come definiresti la tua operazione linguistica?
FDG Coraggiosa. Ho rischiato, più di altri, impopolarità e incomprensione. Spesso camminando sul filo.
AG A un certo punto sei diventato popolare. Sono perfino cresciuti intorno a te gli imitatori. Come hai vissuto questa trasformazione?
FDG C’è sempre una forma di ambiguità in passaggi del genere. La fase più difficile è stata per me non solo accettare di essere diventato popolare, ma che parte del pubblico non gradisse la mia popolarità. Voglio dire, che se fossero state dieci persone a comprare Rimmel, queste avrebbero gridato al capolavoro, salvo poi ricredersi, e darti del venduto, se quei dieci fossero diventati centomila. Perché ai loro occhi non saresti stato più il messaggero di quel ristretto gruppo di eletti che ha capito il mondo. Ma solo un volgare strimpellatore.
AG È il meccanismo dell’esclusiva. Tipico delle avanguardie, appunto.
FDG Il solo artista che, per tutti noi, ha svolto un ruolo di avanguardia è stato Fabrizio De André. Le sue canzoni hanno smantellato il perbenismo musicale di quegli anni. Prima di lui Gino Paoli, Sergio Endrigo, Luigi Tenco e forse soprattutto Modugno, avevano cominciato a picconare l’edificio della canzone italiana. Un altro che, in modo inconsapevole, ha fatto avanguardia è stato Fred Buscaglione e poi Renato Carosone. Gente che tutto si sognava tranne che essere innovatrice di qualcosa. Ma quando Buscaglione cantava «Che notte quella notte... me le semino, tre auto poliziotte», già si intravedeva lo stravolgimento della canzone tradizionale.
AG C’è una figura che in quegli anni si profila – potrei dire – in tutta la sua disarmante tenerezza e drammaticità: parlo di Piero Ciampi. Lo hai conosciuto?
FDG Ho un ricordo personale intenso e dolcissimo. Ci incrociammo, fisicamente, negli anni in cui ero alla Rca. Vidi un uomo sofferente e solitario. Con atteggiamenti a volte ruvidi ma non sgradevoli. Per noi – intendo per me, per Venditti e Cocciante che frequentavamo la casa discografica – quella figura aveva il tratto dell’artista che aveva scelto la marginalità. Apparteneva a una generazione precedente alla nostra e questo faceva sì che il dialogo tra noi non fosse fluido. Aveva vissuto molto in Francia, frequentato le «cave» esistenzialiste, si faceva chiamare «Piero Litaliano», tutto attaccato, senza apostrofo. Si diceva che fosse stato amico di Juliette Greco. Per noi era un marziano. Avevamo soltanto la sensazione che fosse un artista importante. Avvolto dalla nuvola di un numero spropositato di sigarette fumate e di bicchieri di vino bevuti.
AG Si definì livornese, anarchico e comunista.
FDG Fu soprattutto un irregolare, non solo della canzone, ma della vita. Con delle strane tenerezze. Una volta mi regalò un suo disco appena uscito. Nella dedica aveva scritto: «A Francesco, buon ritorno in Italia». Al momento non capii il senso. Poi ho pensato che volesse, con discrezione, rimproverare la mia filiazione americana. Fu un poeta prestato alla musica.
AG La dissipazione entrò nei suoi versi.
FDG Non ne farei il ritratto dell’artista «maudit», del poeta «fuori corso». Ebbe una vita appesantita da vicende familiari. Fu vittima della sua storia personale. Ma c’era chi credeva in lui. Ennio Melis, allora direttore della Rca, che lo apprezzava, avrebbe desiderato vederne riconosciuto il talento. Ma Piero combinava spesso dei casini. Una volta lo mandarono a suonare in un locale di Punta Ala, un luogo per ricchi. Dopo aver cantato due suoi pezzi, piuttosto devastanti, sentì uno del pubblico che ridacchiava. Gli ruppe la chitarra sulla testa.
AG Avesti modo di frequentarlo?
FDG Occasionalmente sì. Ma non era possibile programmare incontri con lui. Ogni tanto si presentava al bar della casa discografica: stava lì, silenzioso davanti a un bicchiere di vino o di whisky. Una volta mi chiese dei soldi. Lo fece usando il suo consueto tono brusco: «tu che hai i soldi e non li meriti, dalli a chi non li ha e se li merita». Gli allungai una banconota da 50.000 lire. La sera lo ritrovai in un locale all’angolo di piazza Farnese che offriva da bere a tutti.
AG Scrisse di sé in un verso «in questa vita sono uno straniero».
FDG Una frase che gli corrispondeva. L’ultimo ricordo che ho di lui fu quando andai a trovarlo all’Ospedale San Filippo Neri. Era ricoverato per un tumore all’esofago. Non poteva deglutire e gli avevano vietato di bere liquidi. Mi chiese un bicchiere d’acqua. Pensai in quel momento che quel po’ d’acqua che gli portai fosse un modo ancora una volta imprevedibile di chiudere il cerchio della sua vita. Sinceramente non ricordo di averlo mai visto bere acqua se non in quell’occasione.
AG Un altro personaggio scontroso ma di successo negli anni in cui frequentavi la Rca era Lucio Battisti. A me ha incuriosito quel suo modo particolare di vivere il successo.
FDG Fu innanzitutto un talento vocale, creativo e musicale. Il grande successo e l’enorme popolarità a volte impediscono di capire che cosa un artista apporti di nuovo. Battisti possedeva una grande competenza musicale ed è stato un serio innovatore.
AG Mi ha colpito la sua capacità di sfidare il successo, quando nell’ultima fase della sua vita cambiò radicalmente il proprio modo di fare musica.
FDG Ti riferisci al suo sodalizio con Pasquale Panella?
AG Sì, allora lo sconcerto fu grande. Però quell’operazione credo che nascesse da un uomo che avvertiva colma la misura del successo fin lì raggiunto e volesse in qualche modo staccarsene e non diventarne vittima.
FDG Molto prima di lavorare con Panella, aveva cominciato a sottrarsi ai meccanismi del successo. Con i suoi versi, che a me ricordano quelli di Toti Scialoja, Panella gli offrì la sponda surreale e linguisticamente provocatoria.
AG Penso che Battisti, come ogni artista vero di fronte all’impulso di cambiare, cercasse una forma adeguata al proprio s...