Senza salutare nessuno
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Un ritorno in Istria

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Senza salutare nessuno

Un ritorno in Istria

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«Scoprii che esiste un'altra parola per definire una foiba, dolina, e provai a usarla per sostituire quel brutto termine nella mia testa – dolina portava con sé tutta una languida atmosfera ungarettiana, mi faceva sentire una docile fibra dell'universo. Ma non ce l'ho fatta: il termine dolina non ha attecchito. Non si può mettere in mezzo la poesia per attenuare il suono dei cadaveri che scricchiolano sotto le scarpe.»

L'Istria è un luogo meraviglioso per passarci le vacanze. Piccoli paesi tranquilli, case da affittare, spesso con una piscina appena costruita. E il mare vicino, sempre visibile anche dai colli. Ma Silvia a Santa Domenica di Albona non è andata per la spiaggia a due passi o per la rakija che tutti ti offrono. Ci è andata per scoprire la verità su un segreto che ha sempre gravato sulla sua famiglia: perché il bisnonno Romeo Martini, nato Martincich, è finito nella foiba di Vines? Perché la nonna, i suoi fratelli e sua madre se ne sono andati una mattina di novembre del 1943? Comincia così un'indagine durata due anni, tra archivi perlopiù andati distrutti, lettere strappate, vecchie fotografie, mail spedite a tutti gli angoli del mondo che raramente hanno avuto risposta. Il risultato è questo libro, coraggioso e al tempo stesso ironico e lieve, che, mentre prova a riportare alla luce le vicende e il destino di una famiglia, affronta il tema delle conseguenze, per generazioni, della violenza subita e delle sofferenze, delle amnesie e dei silenzi necessari per continuare a vivere.

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Informazioni

Anno
2019
ISBN
9788858139271
Argomento
Economia

Repubblica Socialista Federale
della Jugoslavia

Per la prima volta, quella mattina, mi svegliai senza trovare mia nonna Iole in cucina che mi annunciava subito: metto a scaldare il latte!. C’era un segno del suo passaggio, però: il sacchetto del pane, quel pane molle del Nord che mi lasciava sempre perplessa, e quei dolcetti che lei chiamava pan con l’uva, e che andava a comprare ogni mattina, molto prima che ci svegliassimo.
Mi scaldai il latte da sola e attaccai a mangiare il pan con l’uva con un «Topolino» aperto davanti.
Forse pioveva. Di sicuro pioveva. D’estate, ad Agordo pioveva sempre. Gli anziani sbuffavano, alzavano gli occhi verso i nuvoloni color piombo che abbracciavano le montagne e annunciavano: «è girata: è finita l’estate», ed era il cinque d’agosto.
Mio padre era in bagno e soltanto attraverso i suoni dei suoi gesti riuscivo a percepire la tensione che in lui, prima di ogni partenza, si andava gonfiando: era uno di quegli uomini che saliva in auto come se andasse alla guerra, che sgommava, suonava il clacson, inveiva, si appiccicava al culo degli altri automobilisti e, se veniva superato, biascicava furioso finché con un sorpasso a bruciapelo e uno sguardo da western nello specchietto retrovisore non aveva lavato l’oltraggio.
Era l’estate del 1988: io avevo undici anni e mio padre presto ne avrebbe fatti trentasette.
C’eravamo fermati qualche giorno ad Agordo, sulle Dolomiti venete, dove mio padre era nato e i miei nonni di Trento passavano le vacanze. Stavamo per partire per la Jugoslavia. Il fatto che mio padre, come meta della nostra prima vacanza insieme all’estero, avesse scelto un paese comunista mi sembrava alquanto ovvio, visto che io sono comunista era la sua frase preferita, il suo mantra, l’introduzione con cui giustificava qualunque sua scelta esistenziale, dal fatto di non possedere un televisore a quello di rifiutarsi di comprarmi le Barbie.
E non vedevo l’ora di vederlo, questo comunismo: che secondo mio padre era un posto dove non c’era la droga, e i giovani ascoltavano Chopin e non gli Spandau Ballet, e tutti avevano un lavoro e una casa e un ruolo nel mondo; e secondo altri era un posto in cui nessuno poteva esprimere le proprie opinioni e la gente faceva la fame, tanto che le ragazze te la tiravano dietro se solo gli regalavi un paio di calze.
Mi avrebbero perquisita?, sarei stata avvicinata da donne che con aria cospiratrice mi avrebbero chiesto di vendergli i miei jeans e le mie Converse?, qualche automobilista offeso per la guida di mio padre sarebbe sceso dall’auto e gli avrebbe sibilato io ti spiezzo in due all’orecchio?
«Troverai solo l’Italia di vent’anni fa», aveva sentenziato mia mamma.
Erano anni in cui nel progresso si credeva ancora, e nel dire «l’Italia di vent’anni fa» mia madre intendeva: un posto uguale a questo, solo che si sta un pochino peggio.
«Ma dov’è andata la nonna?», chiese mio padre uscendo dal bagno, lavato, sbarbato e smanioso di nicotina. Alzai le spalle. Lui si precipitò fuori, a scrutare la strada per controllare se stava tornando.
«Ma dov’è andata?», gridò, infuriato: gli sembrava impossibile che proprio la nonna, che sempre ci stava addosso con le sue premure, quella mattina si fosse dimenticata della nostra partenza.
«Vuol dire che partiremo senza salutarla», concluse accendendo ancora una sigaretta.
Soltanto dopo aver finito di bere il latte col Nesquik mi accorsi di quel biglietto appoggiato sul tavolo della cucina. Era scritto nella grafia precisa, da ex maestra, della nonna. Diceva:
Non mi salutate nessuno.
Buon viaggio.
«Perché nessuno mi ha mai detto che la nonna è jugoslava?».
«Slava», mi correggeva mia sorella.
«Non usare mai quella parola con lei», suggeriva mio padre, guidando.
«Perché? Perché non si può dire che è jugoslava?».
«Slava», mi correggeva mia sorella.
«È nata in Jugoslavia ma non è slava, anche perché quando è nata lei non era Jugoslavia», rispondeva mio padre, e si metteva a fare discorsi complicati a cui dava retta soltanto mia sorella: e intanto continuava la sua lotta privata contro tutti gli automobilisti.
Ogni tanto, il dormiveglia della mia noia preadolescenziale era bucato da una parola curiosa destinata a rimanermi in mente: titìni.
Trentatré titìni andavano trotterellando, pensavo io, ma non lo dicevo, altrimenti mia sorella mi avrebbe rinfacciato di dire soltanto scemenze.
Girammo la costa dell’Istria, con mia sorella che teneva la mappa del Touring sulle gambe e mio padre che si incazzava perché non gli indicava mai la strada abbastanza velocemente; ci fermammo in cittadine di mare i cui nomi, sulla bocca di mio padre, suonavano come Abbazia, Pola, Parenzo, ma che sulle indicazioni stradali venivano chiamate in altri modi, nomi impronunciabili fatti tutti di consonanti.
Erano borghi marini pieni di turisti, con passeggiate che pullulavano di bar e ristoranti, non esattamente l’immagine che mi ero fatta del comunismo: niente file, niente facce grigie, niente spie, niente gente che ti ferma cospirando per chiederti se per caso gli puoi vendere le tue Adidas o la tua maglietta con lo stemma Best Company. Nessuno assomigliava a Ivan Drago. Nessuno si lanciava sui fili elettrificati del confine gridando «libertà!» o «capitalismo!».
Solo gli alberghi erano diversi: mastodontiche colate di cemento che si alzavano brutali sulle colline e sulla costa, entità bipolari che nascondevano, all’interno di quella grigia mostruosità, piscina, sauna, la Rai captata con le parabole dai televisori nelle stanze.
I gelati sono la cosa che ricordo meglio: sontuose architetture di palline che si sollevavano sui coni come parrucche del Settecento, composti da gelatai-giocolieri che facevano roteare le palline nell’aria, lanciavano i coni in alto, componevano magie aeree con vaniglia e cioccolato come Tom Cruise in Cocktail.
I turisti si fermavano a guardare quell’incanto, e poi aprivano il portafogli e avanzavano verso la gelateria tendendo grossi biglietti da centomila dinari e passa, spiegazzati e puzzolenti – il gelato, poi, faceva abbastanza schifo, ma partecipare a quello spettacolo era un motivo sufficiente per comprarlo: per poi lasciarlo dopo averne mangiate, forse, due misere palline.
Ma mio padre, per la prima volta, era accondiscendente di fronte a quello spreco. Forse perché eravamo in un paese comunista, forse perché quei coni gelato giganti costavano quanto un ghiacciolo in Italia – in quel caso, quella che la mamma definiva la sua tirchiaggine e lui il suo anti-consumismo si placava: e io e Cristiana potevamo tranquillamente buttare via un gelato che non ci andava più senza per questo sentirci agenti internazionali dello stile di vita yankee.
Quando mia sorella passava, gli uomini si voltavano e facevano fiu fiu con le labbra. Lei si imbarazzava, mio padre si innervosiva: «non ha neanche diciott’anni!».
Il comunismo non aveva reso gli uomini meno imbecilli.
Santa Domenica di Albona non c’entrava niente con l’Istria che avevamo visto fino a quel momento: era un paesino di campagna, tutto in sasso, dall’aria disabitata, senza un’insegna, un turista, un gelataio che faceva roteare nell’aria palline di cioccolato o vaniglia.
Odorava di povertà, di passato, di vecchiaia. Era il paese in cui era vissuta mia nonna Iole finché era stata un’abitante della Jugoslavia che non era Jugoslavia, finché la Jugoslavia era stata Italia. Il suo nome, ovviamente, non era più Santa...

Indice dei contenuti

  1. Repubblica Socialista Federale della Jugoslavia
  2. Republika Hrvatska
  3. Repubblica di Albona
  4. Republika Hrvatska 2
  5. L’Impero
  6. Romeo Martincich «Console»
  7. Giacinto «il bello»
  8. Il disastro
  9. Esercito dei boschi
  10. Caballero
  11. Operationszone Adriatisches Küstenland
  12. Foiba di Vines
  13. Italia
  14. Epilogo
  15. Ringraziamenti