Visione verticale
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Visione verticale

La grande avventura dell'alpinismo

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Visione verticale

La grande avventura dell'alpinismo

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Perché scalare? Perché mettere a rischio la propria vita? E farlo facendo ricorso a ogni mezzo o seguendo un'etica rigorosa? Nel corso di quasi due secoli e mezzo di vita, l'alpinismo ha subito innumerevoli rivoluzioni. Non solo e non tanto delle tecniche e degli strumenti, quanto piuttosto della sua stessa etica, delle 'visioni verticali' che l'hanno attraversato, visioni che pongono domande sul senso stesso della nostra vita.

A chi gli chiedeva perché voleva scalare l'Everest, George Mallory, il grande pioniere himalayano, rispose: «Perché è lì». Da Preuss a Bonatti, da Mallory a Messner, da Cassin a Honnold, tutti i grandi della storia dell'alpinismo hanno avuto una propria, personalissima, 'visione verticale'.

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858147689
Categoria
Viaggi

1.
Avventura alpinismo

L’uomo è stato inizialmente incapace di dare una spiegazione naturale a tutti quei fenomeni che più lo impressionavano: le grandi distese marine, i luoghi alti e scoscesi, le vette ghiacciate. Il suo atteggiamento quindi era di paura e adorazione, trasferendo nel mito una spiegazione allora impossibile. Ben si comprende come i monti fossero considerati abitazione delle divinità e quindi fosse ritenuto sacrilego – oltre che inutile – il tentativo di salirli. In tempi meno lontani, nell’epoca medievale, la diffusione del cristianesimo avrebbe dovuto sfatare la credenza in questi miti politeistici, ma l’orrore e la paura per i luoghi solitari e inaccessibili erano troppo radicati nell’animo dell’uomo: folletti, gnomi, streghe e anime dei morti erano i temibili abitatori delle montagne. Figure e personaggi che ritroviamo in tutte le leggende e fiabe popolari. Occorreva un totale rinnovamento della cultura, del pensiero e dell’arte per un’inconscia ribellione a una visione medievale e dogmatica che lasciava poco spazio al nuovo desiderio di sapere. È significativo che un uomo come il Petrarca, proiettato per molti versi nel Rinascimento, sentisse il desiderio (e lo realizzasse) di salire il Mont Ventoux. Assistiamo così, nel Rinascimento, alla conquista dello Sconosciuto, con la scoperta di nuove terre lontane, con i nuovi studi scientifici, e con lo sviluppo del pensiero filosofico.
Dopo la pausa secentesca dobbiamo attendere l’ulteriore sviluppo illuministico per assistere, in una atmosfera di lucido razionalismo che porterà al rinnovamento sociale e politico della Rivoluzione francese, ad un primo interesse scientifico per le Alpi. Questo viene subito rivolto alla vetta più alta d’Europa.
Lo scienziato Horace-Bénédict de Saussure organizzò vere e proprie spedizioni al Monte Bianco con lo scopo non solo di raggiungerne la vetta, ma anche di trarne deduzioni di carattere scientifico per i suoi studi. Il galantuomo propose un ricco premio in denaro a chi fosse riuscito nel compimento dell’impresa, un vero accordo commerciale con in palio gloria e relativa ricchezza. La vetta fu conquistata l’8 agosto 1786 dal medico Michel Paccard con il cacciatore di camosci Jacques Balmat. In queste prime esperienze era presente una componente di amore per l’avventura che assumerà in seguito la parte di primo piano.
Possiamo immaginarci in qualche modo le difficoltà che i due dovettero superare? È molto distante quel tempo. Oggi ci sono il tunnel del Monte Bianco e la funivia, qualche rifugio dà riparo per la notte e gli elicotteri possono evacuare gli infortunati. In vetta, possiamo sfruttare le tracce nella neve di quelli che vi sono saliti i giorni prima. Eppure, ignorando le condizioni di allora, qualche storico si è impegnato a discutere su chi arrivò in vetta per primo! Ce le immaginiamo due persone così diverse, in abiti settecenteschi, correre negli ultimi metri per superarsi a vicenda?
Qui si pone una differenza di atteggiamento nei confronti della montagna: il valligiano, cacciatore, avvezzo alle fatiche e alla pratica dei luoghi montani, che soleva spingersi fino alle soglie dei ghiacciai, conservava ancora il terrore per quel mondo lucente, ma anche tenebroso e sconosciuto; lo scienziato invece, forte del suo sapere illuministico, non aveva inibizioni ed era solo intimorito dalle più evidenti difficoltà tecniche.
Così assistiamo a una alleanza storicamente positiva e nuova tra il fermento rinnovatore e la tradizione. La figura della “guida alpina”, già con Balmat, assume un ruolo di secondo piano, non creativo ma al servizio del cliente. Pur spettando alla guida il merito fisico di conquistare la meta, è il cliente che ha il merito morale di avere ideato l’impresa, considerando anche che una tale distinzione era favorita dalle evidenti differenze di ceto sociale. Ciò non impediva la messa in luce di alcune grandi guide: è chiaro che senza l’opera di un Balmat, di un Michel Croz, o di Jean-Antoine Carrel, o di Michel Innerkofler, né il Monte Bianco, né il Cervino, né la Grande di Lavaredo sarebbero stati conquistati in quegli anni. Occorreva però, come si è detto, una spinta creativa da parte di uomini culturalmente preparati come Felice Giordano, Edward Whymper, Horace Walker, John Ball, Paul Grohmann, Quintino Sella, William A.B. Coolidge e tanti altri. Dotati di una condizione sociale particolarmente agiata e favorevole, nell’ambito di un nascente positivismo e in un contesto storico in cui l’aristocrazia e i ceti più elevati erano tenuti a dimostrare le proprie qualità e a perpetuare le proprie tradizioni, costoro furono i propulsori e i rappresentanti di un alpinismo che si poneva come fine la conquista delle maggiori vette delle Alpi, senza che ancora comparisse quello spirito idealistico e individualistico che caratterizzerà la fase romantica.
Il dialogo uomo-montagna era dunque ristretto alla classe privilegiata, nella quale era nobile emergere. Il primo sintomo di cambiamento ci è dato dalla magnifica ribellione di Carrel, che si oppose al dominio creativo di Whymper nella conquista del Cervino, anche se la figura di Giordano influenzò non poco quest’impulso alla disobbedienza al “signore” inglese. Whymper lottò per alcuni anni per raggiungere la vetta del Cervino. Fu il vero ideatore e protagonista di quella titanica impresa. Fece molti tentativi, sia dalla parte svizzera che da quella italiana. La guida che più lo aiutò fu appunto Jean-Antoine Carrel, assieme al quale Whymper nel 1864 aveva raggiunto una considerevole altezza sulla montagna. Ma l’estate dopo Carrel rifiutò l’ingaggio, per tentare dalla parte italiana con altre guide. Whymper si rivolse allora agli svizzeri e con essi riuscì a conquistare la cima il 14 luglio 1865. Carrel e compagni vi riuscirono solo il 17 luglio, ma per la via nuova italiana, dopo che in un tentativo del 14 avevano avuto, in vetta al Pic Tyndall, la sgradita sorpresa di sentire i richiami dalla vetta della cordata di Whymper...
Nel secolo XIX maturò il fenomeno dell’alpinismo romantico, nato in opposizione al positivismo: individualismo, eroismo, mito trovarono una concreta applicazione nello scalare le montagne, là dove l’uomo può elevarsi sopra la sua normale condizione e proiettarsi in una dimensione ideale. L’alpinismo dava dunque la possibilità, sebbene non ancora a tutti, di materializzare quei sentimenti di contemplazione e di ardimento individuale peculiari del romanticismo. Ancora oggi l’alpinismo vive questa impostazione romantica: essa inizia subito dopo la conquista delle ultime maggiori vette (Cervino nel 1865, Grandes Jorasses nel 1868). Da quel momento lo scopo non è più raggiungere la vetta, ma salirvi per una via più difficile: è evidente un maggior desiderio di lotta e di vittoria su se stessi piuttosto che sulle naturali difese della montagna.
Si riconoscono tre correnti nell’alpinismo romantico, che in ogni caso si affermò e si diffuse gradualmente, ma questa distinzione è più che altro una semplificazione non del tutto aderente alla realtà, perché le tre correnti furono talvolta indipendenti, e molto spesso armonicamente fuse.
A) Alpinismo senza guide.
Il distacco dalla guida e quindi dalla tradizione fu la manifestazione più evidente del passaggio all’individualità. L’alpinista ora vuole affiancare alla parte ideativa e creativa il desiderio personale di lotta e di avventura, realizzando con i propri mezzi il proprio ideale romantico. Questa corrente non sorse in contrasto con le guide, anzi i rapporti reciproci furono impostati sulla base di una buona convivenza; tant’è che in questo periodo assistiamo alla realizzazione di notevolissime imprese alpinistiche con cordate composte da senza-guida e guide, in cui anche queste ultime assumevano un ruolo ideativo oltre che risolutore. È l’epoca dei fratelli Giuseppe e Giovan Battista Gugliermina, di Luigi Vaccarone e Cesare Tomè, di Emil Zsigmondy e Ludwig Purtscheller tra gli stranieri.
B) Alpinismo eroico.
La figura di Georg Winkler incarna fedelmente l’ideale eroico che nella cultura tedesca, dalla quale tra l’altro sorse il movimento romantico, era molto più sviluppato che non, per esempio, nel romanticismo inglese o italiano. Esasperazione dell’individualismo, sfida cosciente alla morte, autosuperamento: tutto questo era presente nel furore che nel 1887 spinse Winkler, solo, con la sua audacia leggendaria, sulla torre del Vajolet che oggi porta il suo nome. È da sottolineare come nell’alpinismo romantico la contemplazione debba essere solitaria e sia premessa fondamentale all’azione; l’uomo, dunque, è direttamente portato ad una solitudine interiore che inevitabilmente avrà la conseguenza di separarlo sempre di più dalla realtà di tutti i giorni.
C) Alpinismo sportivo.
L’atteggiamento migliore e più simpatico della fase romantica è strettamente legato alla figura di Albert Frederick Mummery, vero innovatore dell’alpinismo inglese ed europeo. Egli è sì spinto da un desiderio di avventura e di lotta ma, dotato di notevole humour, sdrammatizza quegli aspetti eroici così evidenti in altre personalità: dopo imprese di altissimo livello che sono veri capolavori di fantasia creativa abbinata a lucida capacità risolutiva, egli poté pubblicare un libro che dissacrava certi valori, prevedendo l’inevitabile declassamento delle sue più dure scalate a «passeggiate per signore». Eccolo dunque giungere sulla vetta del Grépon e stappare una bottiglia di champagne appositamente portata come sua abitudine, smitizzando le privazioni fisiche di cui sembrava che l’alpinismo non potesse fare a meno. Mummery fu il primo a praticare e diffondere quindi l’alpinismo sportivo, cioè una disciplina con premesse romantiche che però non era avulsa dal contesto sociale.
Ai primi del Novecento nacquero i principali club alpini “accademici”, i club dei senza-guida. Mentre l’alpinismo cittadino era sul nascere, alcune guide realizzarono le grandi conquiste del quarto e del quinto grado. Occorre qui citare Antonio Deo Dimai, Angelo Dibona, Tita Piaz, Émile e Adolphe Rey, solo per stare tra gli italiani: stirpe di montanari ormai del tutto evoluti, senza più niente a che fare con le guide del passato. Mentre questi uomini semplici agivano, realizzando le più grandi imprese precedenti alla prima guerra mondiale, il significato che oggi l’alpinismo ha per i più s’andava delineando: Guido Rey disse «Io credetti e credo la lotta con l’Alpe utile come un lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede», motto che ha campeggiato a lungo all’interno della tessera dei soci del Club Alpino Italiano (oggi più di 320.000). Alpinismo, quindi, come elevazione spirituale, come ascesi, come avvicinamento a Dio.
Le due più importanti figure fino al 1914 furono Hans Dülfer e Paul Preuss. Il primo continuò quell’alpinismo teso all’estremo che Mummery aveva iniziato, praticando un’attività notevolissima nelle Dolomiti: un alpinismo che, con l’introduzione continua di nuove tecniche, non era separato dal progresso generale della civiltà occidentale: solo con e dopo Dülfer si adoperarono correttamente corda, chiodi e moschettoni. Il secondo continuò invece sulla linea di Winkler e portò l’alpinismo al confine estremo dell’eroismo ascetico: il “Cavaliere della Montagna” che passando solitario di vetta in vetta, disprezzando ogni forma di assicurazione con la corda, inseguiva un ideale di perfezione utopica. Un continuo autosuperamento che lo portò all’autodistruzione. Mentre infatti Dülfer morì in guerra sul fronte francese, Preuss cadde dalla parete del Mandlkogel, in Stiria, a soli 27 anni, durante una difficile arrampicata solitaria senza alcuna protezione.
Quando oggi l’uomo della strada dice che gli alpinisti sono tutti pazzi non sa di essere giustificato, oltre che dall’ovvia considerazione che l’alpinismo è pericoloso, anche dal credo di uno tra i più importanti di essi: Eugen Guido Lammer. Questi non sosteneva soltanto la «lotta con l’Alpe»: la voleva anche ben ricca di privazioni e di sofferenze, per una montagna ancora più purificatrice e sublimante.
La prima guerra mondiale chiuse un’epoca, ma le radici idealistiche erano ben profonde, e sopravvissero, influenzando l’alpinismo del sesto grado.
Il diffuso pan-nazionalismo in Italia e Germania favorì un allargamento dell’alpinismo a tutti gli strati sociali. Si annullò la distinzione tra guide e dilettanti: anche i cittadini iniziarono a intraprendere la carriera di guida, come Emilio Comici. Questo processo portò a un balzo in avanti dell’alpinismo estremo e sportivo, con quelle prime salite che, per indubbia superiore difficoltà, vennero definite di sesto grado. Non a caso i tedeschi, e subito dopo gli italiani, primeggiarono in questa battaglia che si servì dell’individuo per affermare una presunta superiorità nazionale o razziale. Di lingua tedesca, Roland Rossi, Otto Herzog, Hans Steger, Emil Solleder, Fritz Wiessner, Leo Rittler, i fratelli Franz e Toni Schmid, Willo Welzenbach, Walter Stösser e tanti altri; in Italia, subito dopo, Renzo Videsott, Emilio Comici, Luigi Micheluzzi, Celso Gilberti.
A queste posizioni non si adeguavano l’alpinismo britannico e francese. Il primo aveva abbandonato le Alpi ai tempi dell’alpinismo esplorativo e ora vi tornava con l’immutato spirito di Mummery attraverso l’esempio di Thomas Graham Brown, che in tre anni condusse un’accanita e minuziosa esplorazione del più temibile e grandioso versante del Monte Bianco, la Brenva. Il secondo, dopo un inizio incerto, finalmente assumeva personalità: Armand Charlet e Maurice Fourastier, guide, l’uno nel Bianco e l’altro nel Delfinato, esplicavano una carriera che grazie alla loro intrinseca semplicità e umanità avrà grande rilievo nel futuro sviluppo dell’alpinismo francese, privo di complessi, di rivincite e di deformazioni ideologiche.
Nel frattempo si delineavano gli “ultimi problemi”. In Dolomiti, la Nord della Cima Ovest di Lavaredo, nelle Occidentali la parete nord delle Grandes Jorasses e ancor più la parete nord dell’Eiger. Valligiani, intellettuali, operai, studenti: tutti o quasi gravitavano attorno ai problemi insoluti. Attilio Tissi, Alvise Andrich, Raffaele Carlesso, Giovan Battista Vinatzer, Gino Soldà, Riccardo Cassin, Giusto Gervasutti, Gabriele Boccalatte, Vittorio Ratti, Mario Dell’Oro, Nino Oppio, Ercole Esposito, Bruno Detassis, Ettore Castiglioni, tra gli italiani; Mathias Rebitsch, Peter Aschenbrenner, Anderl Heckmair, Fritz Kasparek, Rudolf Peters, Ludwig Steinauer, austriaci e tedeschi; Raymond Lambert, Pierre Allain, Lucien Devies di lingua francese.
L’italiano Domenico Rudatis fu il massimo teorico dell’alpinismo come sesto grado. L’identificazione del sesto grado con l’alpinismo portò a un prevalere del fattore atletico le cui conseguenze furono positive per i risultati ma forse negative per lo sviluppo generale. L’analisi ch’egli conduce sulla performance che la cordata compie su terreno vergine ed estremo mira ad una continua ed esasperata esaltazione dei valori eroici. Se questo ha spinto i giovani a osare sempre più d’altra parte ha costretto l’alpinismo nei limiti in cui anche in seguito si è dibattuto: limiti generati dalla nausea di un continuo autosuperamento e dalla ricerca impellente di nuove idee per cui esso possa cessare di essere isolato.
L’epopea si chiude con la conquista della Nord delle Grandes Jorasses e della Nord dell’Eiger, ambedue nel 1938, poco prima della seconda guerra mondiale. Termina con queste due splendide imprese l’alpinismo di marca nazionalista, tanto è vero che nell’immediato dopoguerra nell’alpinismo tedesco e italiano subentrò un breve periodo di stasi e di ricerca di nuove forme di espressione che in molti casi...

Indice dei contenuti

  1. 1. Avventura alpinismo
  2. 2. Una storia di illusioni
  3. 3. La ricerca di noi stessi
  4. 4.Il primo gigante visionario
  5. 5. La grandezza di Angelo e Luigi
  6. 6. Il risolutore
  7. 7. Le tracce di Hermann
  8. 8. Pianeta Walter
  9. 9. Changabang, The shining mountain
  10. 10. Günther e Reinhold Messner
  11. 11. Il rischio è il mio destino
  12. 12. I due soli di Renato
  13. 13. La solitudine di Gian Piero
  14. 14. Free Solo
  15. 15. Loop