Alpi segrete
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Alpi segrete

Storie di uomini e di montagne

  1. 192 pagine
  2. Italian
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Alpi segrete

Storie di uomini e di montagne

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Esiste un altro modo di raccontare le Alpi. Bisogna andarle a cercare nei sentieri (reali e metaforici) meno battuti. Ferrari va a scovare posti e storie di questo tipo attraversando larco alpino, racconti di paesi quasi scomparsi, lingue sconosciute sopravvissute, chiese di pastori con affreschi rinascimentali, alpinisti partigiani, guide alpine che mettono una statua del Buddha a ogni roccia scalata, orsi venuti dalla Slovenia. Niente retorica, niente di tipico. Niente di scontato. Dario Olivero, la RepubblicaSorvolare le Alpi, la loro orografia tormentata da cime e valli, tra boschi e pascoli, poi scendere in picchiata in angoli remoti, lontano dalle zone più conosciute e 'griffate è un privilegio raro, reso possibile dalle parole evocative di Marco Albino Ferrari. Simone Bobbio, Tuttolibri«Le Alpi segrete sono isole meno note del grande arcipelago alpino. Sono spazi sfuggiti a quel turismo che mira alla definizione di rassicuranti stereotipi. Sono invisibili perché programmaticamente ignorate dalla nostra cultura».

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Informazioni

Anno
2012
ISBN
9788858100875

Le Dolomiti nascoste sopra Belluno

Cartina del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi.
Il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi
Le Dolomiti, tutti lo sanno, sono le montagne più famose e fotografate del pianeta. Con le loro ampie vallate, le smisurate distese boschive e l’orografia intricata dei massicci di dolomia, occupano un’area vasta pari, per esempio, ai due terzi circa della superficie della Corsica. E la rete di strade che le ricopre viene percorsa ogni anno da milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo.
Nel 2009, dopo anni di pressione da parte di enti sovranazionali quali la Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi (cipra) e anche, nel loro piccolo, di associazioni ambientaliste come SOS Dolomites, Mountain Wilderness e altri, le Dolomiti sono entrate ufficialmente fra i beni tutelati dall’Unesco. Ma lo status di «monumento naturale» – è importante ricordarlo – viene attribuito esclusivamente alle aree più spettacolari di questa regione, quelle rimaste preservate dal cemento. Ossia le rocce e le cime maggiori. Dolomiti patrimonio dell’umanità, ma solo per le particolari conformazioni geologiche, per i ghiaioni, per gli altipiani carsici, per le pareti verticali che trattengono la luce dei tramonti. I fondovalle sono rimasti fuori. Troppo sfruttati dal turismo, troppo danneggiati: così hanno decretato i ventuno membri della Commissione.
Eppure l’occhio da marketing della nuova Fondazione Dolomiti Unesco ha prontamente utilizzato il riconoscimento per creare un nuovo marchio utile da lanciare sul mercato turistico internazionale. Ovviamente omettendo spesso di specificare che solo le alte quote sono rientrate nei criteri di valutazione e non l’intera area. Anzi, di più, puntando proprio a promuovere quei settori che hanno portato ad escludere le zone abitate alle basse quote. «Essere titolari del marchio Unesco per le Dolomiti», si legge in un comunicato della Fondazione, «permetterà anche di valorizzare ulteriormente le eccellenze della zona che sono l’ospitalità, l’enogastronomia ed i servizi per il turista». Le offerte turistiche sono diventate le «eccellenze», le rocce e il patrimonio geologico sono passate in secondo piano.
Ma a parte le attrattive da campagne marketing e gli scenari da cartolina che fanno il giro del mondo sviluppando la già fiorente macchina del turismo di massa, nelle Dolomiti sono rimaste alcune cime e vallate di cui quasi nessuno parla. Cime e vallate che per diversi motivi sono sopravvissute a margine del grande clamore: come residuati di un antico mondo ancora libero, silenzioso e solitario, che contrastano in maniera disorientante con il resto dell’area dolomitica. A pochi chilometri dalle Tre Cime di Lavaredo, per esempio, si trova la zona del Comelico, con il bacino pietroso dove spicca il Monte Popera, grandioso, severo, circondato da alcune guglie verticali che furono nobilitate negli anni Trenta dalle vie alpinistiche del fuoriclasse triestino Emilio Comici. Ora, nonostante la maestosità di queste pareti dove il grande alpinismo ha lasciato la sua traccia, il Popera è del tutto ignorato dal grande pubblico. Eppure, cos’ha da invidiare alle vicine Dolomiti di Sesto? Lo stesso vale per i massicci d’Oltre Piave, sconosciuti ai più.
E soprattutto l’oblio è caduto, più che altrove nell’area dolomitica, sui massicci ai confini meridionali: le Dolomiti Bellunesi.
Qui si trovano addirittura zone classificabili all’interno dei ristretti parametri che connotano la wilderness. Zone che – come già accennato – sono molto rare sulle Alpi, perché rappresentano il risultato ambientale di uno spopolamento totale protrattosi nel tempo: solo dopo anni e anni di abbandono le vallate più nascoste possono trasformarsi in aree che gli studiosi di scienze della Terra reputeranno di «natura selvaggia» (wilderness, appunto). Nel versante cisalpino della catena, si trovano solo piccoli territori dove le tracce dell’uomo sono del tutto scomparse, o addirittura mai arrivate. Per esempio, all’interno del Parco Nazionale della Val Grande in provincia di Verbano Cusio Ossola, o in alcune vallette sperdute nell’Alto Garda bresciano, o ancora nella Valmontina in Cadore. Ma è nel Gruppo dei Monti del Sole, fra la Valle del Cordevole e la Val del Mis, che si estende l’area selvaggia più grande del Nord-est d’Italia, proprio nel cuore del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi. Non sembra possibile, ma ai confini dei Monti Pallidi, ai margini della regione alpina più sfruttata delle Alpi, si nascondono aree del tutto selvagge.
Nell’estremo lembo meridionale delle Dolomiti, non solo i Monti del Sole fanno parte di quel mondo alpino nascosto che qui andiamo cercando: silenzio e solitudine racchiudono quasi tutta l’area del Parco Nazionale. La bassissima densità di popolazione (88 persone su una superficie di 31.000 ettari, quasi una volta e mezza l’isola d’Elba) è dovuta principalmente all’ostica morfologia del territorio, che rende questi luoghi di difficile accesso se non del tutto impraticabili. Questo, come ovvio (lo abbiamo visto per il comune di Elva), è il presupposto principale affinché certi luoghi vengano percepiti in una dimensione di profonda marginalità.
La catena delle Alpi Feltrine si divide in tre principali gruppi con i relativi sottogruppi: il Pizzocco, il Cimonega e le Vette Feltrine. Sopra Belluno spicca il Gruppo della Schiara, cima maggiore di tutta l’area, dove prevalgono caratteri prettamente dolomitici, con pareti e rocce più compatte, minor estensione di ghiaioni e sfasciumi, abbondanza di acque superficiali, guglie affilate (come l’arditissimo gendarme roccioso alto una quarantina di metri della Gusella del Vescovà). Sono massicci un po’ misteriosi perché osservati da pochi intraprendenti camminatori. Vallette umide, rigogliose, assediate da una vegetazione tenace, potente, che risale le rocce, si aggrappa ai pendii più ripidi, lasciando liberi solo gli ultimi salti verticali delle pareti. Nei punti più profondi delle vallette interne, giù nel sottobosco, custodito dentro vapori biancastri di umidità, si sprigiona un intrico lussureggiante di verde, vivo, vischioso, accanito. L’umidità avvolge i tronchi degli alberi assediati dai muschi e fa risplendere i fiori, tantissimi fiori.
Se a primavera avanzata si arriva alla Busa delle Vette, partendo a piedi da Croce d’Aune, si vedrà che sotto la neve appena sciolta sboccia una distesa di crochi, come un unico immenso mantello bianco e violaceo. Per tutta l’estate si poserà un mantello multicolore di fioriture che appaiono infinite, nel cerchio di un vero santuario botanico. Proprio lassù, il primo timoniere del Parco, Cesare Lasen, aveva scoperto l’esistenza di un nuovo fiore che avrebbe preso il suo nome: Alchemilla lasenii. Nel Parco si sono contate addirittura 1400 specie floreali, ovvero un quarto di quelle presenti in tutta Italia. Molte di queste specie sono particolarmente interessanti perché presenti al loro limite di areale, come il giglio della Carniola o l’Alyssum ovirense.
Ai confini meridionali del Parco, ampie distese boschive si diramano sulla destra orografica della Val Belluna, che è il grande solco esteso in direzione nord-est/sud-ovest, tra Belluno e Feltre, e percorso dal Piave.
All’interno del Parco niente connota il territorio come le tracce lasciate dallo spopolamento. Niente è più evidente del vuoto generato dal congedo di un’intera società. E anche qui ritorna un tema che abbiamo già osservato nelle Alpi occidentali, in provincia di Cuneo e di Torino. Oggi è l’abbandono a determinare, più di ogni altro segno materiale, lo spirito di questi luoghi. Segni di un’esistenza mancata, di un conto in passivo. La strada che percorre la Val del Mis rimane pressoché deserta. Ed è la spia più evidente di come siano cambiate le cose quassù per chi viveva quella strada come un’importante via di comunicazione locale costantemente utilizzata, anche da un servizio quotidiano di corriere. Le due frazioni di Gena, ormai abbandonate, rimandano a una civiltà pastorale che ha resistito per secoli ai rigori del luogo, dove la vita, si sa, è più dura che in pianura. Ha resistito persino all’emigrazione e ai rastrellamenti della seconda guerra mondiale. Poi la costruzione di un bacino idroelettrico e l’alluvione del 1966 hanno dato il colpo di grazia convincendo gli ultimi a partire. Infine, il deserto. Ancora negli anni Cinquanta, le malghe erano monticate da circa quattromila capi tra ovini e bovini. Poi la fine. Nel 1994 le malghe attive erano solo due. Ma ora ne sono state rimesse in attività cinque: Casera dei Boschi (comune di Pedavena), Vette Grandi (Sovramonte), Erera (Cesiomaggiore), Pramper (Forno di Zoldo) e Pian dei Fioch (Belluno).
Non stupisce che un tale disequilibrio tra presente e passato, una tale discontinuità con le generazioni precedenti, abbiano prodotto smarrimento, senso di perdita, provocando l’esigenza di ridefinire la realtà, di fissare una memoria in pericolo. Così su tutto, per chi ripensa a com’erano quei luoghi, riverbera il dominante, struggente, sentimento della nostalgia.
Anche qui – come abbiamo visto a Elva – è nata l’urgenza di creare luoghi-simbolo del tempo andato, dove chiunque ha la rassicurante certezza che il ricordo dei nonni può essere riacceso. Su tutte le Alpi, negli ultimi vent’anni, c’è stato un proliferare senza limiti di queste case della testimonianza che un po’ impropriamente vengono definite «musei». Solo nell’area intorno alle Dolomiti Bellunesi ne sono nate una ventina. Per la verità, alcuni di questi musei, frutto dall’entusiasmo di piccoli gruppi e a volte di singoli, appaiono un po’ strampalati, ingenui, se non pretestuosi, e spesso imprigionati nei meccanismi di una retorica passatista. C’è il museo demo-etno-antropologico degli attrezzi e degli oggetti del passato; il museo della pietra e degli scalpellini; il museo del ferro e del chiodo; quello incentrato sull’economia agro-silvo-pastorale in epoca storica; quello delle miniere della Val Imperina; quello della scuola che affronta il problema dell’alfabetizzazione in montagna; c’è il museo degli zattieri del Piave (che conserva la memoria dell’antico mestiere del trasporto merci su zattere verso Venezia), voluto da un estroso personaggio, Giuseppe ebesta, che incontreremo più avanti. Quasi tutti poco più che depositi di anticaglie, con qualche didascalia e pannelli di introduzione al tema compilati nella consueta formulazione scolastica. Anche se quegli scatoloni strapieni – così come in certe soffitte con i ricordi di famiglia – hanno il merito di invitare la fantasia a volare all’indietro nel tempo.
Ma, viene da chiedersi, a parte il pulviscolo di questi piccoli musei locali, quali sono allora le vere istituzioni museali delle Dolomiti e più in generale delle Alpi? Sul versante italiano dell’arco alpino non sono molte. Esistono quelle di carattere scolastico-pedagogico, come il Museo Nazionale della Montagna del Club Alpino Italiano di Torino o il Museo Archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, e altri musei più spettacolari come quello ladino di Ciastel de Tor in Val Badia. Poi ci sono le mostre interattive, sul modello di quelle ospitate al Forte di Bard in Valle d’Aosta e nel Forte di Vinadio in provincia di Cuneo. Infine, tra i più visitati, ci sono quelli di Messner, che meriterebbero un breve discorso a parte.
Sono cinque, tutti sulle Alpi orientali, e vengono contrassegnati con un azzeccatissimo logo disegnato dalla sapiente mano di un pubblicitario: le aste delle tre «M» di Messner Mountain Museum (questo il nome unificato dei cinque) diventano, sovrapponendosi in successione, altrettante cime di una catena montuosa: mmm. Pur definendosi «Museum», in realtà anche questi di Messner non sono veri e propri musei, ma collezioni private di cimeli e oggetti artistici incentrati sull’alpinismo e sulla cultura della montagna: oggetti d’arte che lo stesso Messner ha raccolto durante i suoi ripetuti viaggi in Himalaya. E già qui potrebbe sorgere una prima perplessità: esportare oggetti d’arte, anche se acquistati, rappresenta un’attività eticamente poco limpida, perché, si sa, l’arte non è proprietà esclusiva di chi ne rivendica il possesso, ma è anche parte della società e dei luoghi dove l’oggetto è venuto alla luce (questa è l’elementare distinzione tra proprietà e possesso). Di questi cinque musei, quello di Juval, nel severo e magnifico castello che domina la Val Venosta – residenza estiva del grande alpinista – è uno dei più visitati. Sui cartelli che invitano a entrare per una visita guidata (15 euro!) è ritratto il suo viso che emerge come una nuvola lievissima dall’antro pauroso di un crepaccio, quasi fosse lui stesso lo «spirito delle montagne» a cui il museo è dedicato. Di spirito delle montagne si parla molto durante la visita, mentre si passa di fronte a reperti di finissima arte indiana, tra statue di Shiva e Kali, altri oggetti rari e reperti antichi dello stesso castello. Tutto è disposto con apparente casualità, come se a dominare fosse il dio del sincretismo, un po’ new age un po’ pop kitsch: ogni cosa, fianco a fianco, dall’Oriente alle Alpi, dal passato al presente, senza luogo, senza tempo. Perché – secondo quanto dicono i cartelli esplicativi e l’affascinate guida dai fluenti capelli biondi che accompagna la visita – a dominare deve essere lo spirito delle montagne nel rispetto dei popoli. Come ovvio, tutto ciò ha poco a che vedere con un’istituzione museale finalizzata a conservare e a divulgare un tema in un’elaborazione costante e senza finalità di lucro. Ma queste mostre sono allestite appositamente per attirare i turisti di passaggio, poco esigenti e ben disposti al plauso. E infatti non stupisce che siano visitatissime in tutte le stagioni, anche perché collocate all’interno di favolosi castelli, in punti strategici nel grande traffico delle Dolomiti. I musei di Messner, si sarà capito, non fanno certo parte delle nostre «Alpi segrete».
Ben diverso è il Museo Etnografico della Provincia di Belluno e del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, ospitato negli splendori di una villa patrizia che affaccia sul Feltre e la Val Belluna. Insieme a quello della Gente Trentina di San Michele all’Adige in provincia di Trento, è uno dei due musei più seri e meglio gestiti delle Alpi. Qui il museo torna a svolgere il suo ruolo di istituzione al servizio della società, che compie ricerche, acquisisce, conserva, comunica, elabora temi, e soprattutto espone a fini di studio, di diletto e non di lucro. E una visita riserva alcune sorprese indimenticabili e permette un passo avanti nella conoscenza della museografia alpina.
Al suo interno sono conservati cimeli e reperti della cultura materiale del luogo, e beni materiali e immateriali del passato. Questo museo, direbbe un uomo di marketing, è «un vero gioiello». Eppure è sconosciuto e ignorato rispetto ai pubblicizzatissimi mmm.
Per raggiungerlo, dalla vicina Feltre in Val Belluna, si imbocca una stradina in salita che porta alle pendici dei primi massicci delle Dolomiti Bellunesi. A un paio di centinaia di metri di dislivello dal fondovalle, la strada piega a destra e a mezzacosta percorre una piacevole dorsale panoramica, tra boschi e radure pascolive, tra cascine e piccole frazioni immerse nel silenzio.
Si corre proprio sulla soglia del mondo dolomitico, sulle prime alture che separano montagna e campagna agricola. E netta è l’impressione di trovarsi su un confine, a un passo dai grandi boschi che sfumano negli ambienti più aspri delle vallate interne al massiccio dolomitico. Dopo dodici chilometri da Feltre si arriva a Cesiomaggiore, luminoso paese di mezza montagna dalle vie larghe e silenziose. Posto su un dosso a quasi cinquecento metri sul versante meridionale della montagna, è esposto al sole per tutta la durata del giorno: l’aria è secca, il clima ideale. E data la vicinanza al f...

Indice dei contenuti

  1. Premessa
  2. Dall’alto
  3. Elva, il paese che era
  4. Il Badile e Riccardo
  5. La Val di Mello e i suoi asteroidi
  6. Le Dolomiti nascoste sopra Belluno
  7. Le oasi e le isole della Valle dei Mòcheni
  8. La «Via Eterna» delle Alpi Giulie
  9. Il segreto di Dino: una favola esemplare
  10. Glossario
  11. Ringraziamenti