Storia delle relazioni internazionali
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Storia delle relazioni internazionali

I. Dalla pace di Versailles alla conferenza di Potsdam 1919-1945

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I. Dalla pace di Versailles alla conferenza di Potsdam 1919-1945

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Una ricostruzione storica unitaria degli eventi che hanno radicalmente modificato i caratteri del sistema internazionale tra il 1919 e il 1945: il dopoguerra, contrassegnato da problemi come il revisionismo tedesco, l'insoddisfazione francese e l'ambivalenza italiana; la paura della rivoluzione russa e la 'grande depressione' economica che paralizza gli Stati Uniti nel '29; la Germania hitleriana e l'Europa del secondo conflitto mondiale. Il rovesciamento di alleanze nel 1941, segnato dall'attacco tedesco all'Unione Sovietica, è il momento di svolta, così come un altro momento è l'attacco giapponese agli Stati Uniti con la globalizzazione del conflitto. La prima questione atomica conclude questa fase della storia mondiale.

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Informazioni

Capitolo primo.
La mancata ricostruzione del sistema europeo
e le illusioni della stabilizzazione

1. Ricostruire il sistema europeo: aspetti generali

All’indomani della prima guerra mondiale toccava ai vincitori il compito di affrontare il problema della ricostruzione interna e internazionale. La guerra aveva provocato tanti cambiamenti che il compito di fare una pace appariva quanto mai impervio. Era finito il tempo in cui i conflitti riguardavano solo le ristrette fasce di territorio effettivamente attraversate da eserciti affamati e predatori, mentre il resto avvertiva solo un’eco lontana e indiretta. Fra il 1914 e il 1918 la guerra fu il primo grande scontro interno alla società industrializzata, e dunque la prima conflagrazione che potesse provocare distruzioni di massa.
Sul piano dei sentimenti e della cultura di massa, la guerra era pertanto sempre meno un fatto riguardante solo le classi dirigenti e i militari. Essa toccava tutti i cittadini e suscitava le loro reazioni: esasperava il nazionalismo e l’odio verso il nemico; creava una partecipazione angosciata alle vicende militari; faceva scoprire l’aberrazione del fare la guerra come mezzo per risolvere conflitti politici; faceva comprendere come la vita di tutti gli Stati fosse esposta ai calcoli di un gruppo limitato di dirigenti e poneva dunque il problema del controllo sull’operato di questi dirigenti. La prima guerra mondiale, in sintesi, trasformava anche la politica internazionale da regno della diplomazia segreta in dominio aperto al controllo democratico o, quanto meno, alla rivendicazione di un controllo, pur difficile in pratica da ottenere. Oppure, in senso opposto, creava nei governanti il bisogno di ricorrere a mezzi sempre più sofisticati, e spesso ingannevoli, per conquistare un consenso pubblico divenuto indispensabile. Si finiva così per esaltare valori contrastanti, come il pacifismo o l’internazionalismo, oppure il nazionalismo e il bellicismo, con il risultato di allontanare la cultura della gente comune e persino la stessa riflessione degli intellettuali dai valori realmente fondamentali per l’umanità.
Non meno importante fu la serie dei cambiamenti sociali. Per quattro o cinque anni, milioni di uomini, appartenenti alle generazioni più giovani e perciò più produttive, furono allontanati dalle loro occupazioni abituali per vivere sotto le armi. Al loro ritorno avrebbero dovuto reinserirsi nella vita civile, dimenticando le consuetudini e la mentalità assunte durante la vita militare. Ma non sempre questo ritorno risultò facile. Nascevano il mondo dei «reduci» e il «reducismo» come nuove categorie sociali che non potevano essere trascurate, poiché interessavano milioni di giovani, un paio di generazioni.
Non tutti coloro che ritornavano dalla guerra ritornavano sani come quando erano partiti. I mutilati erano in Europa alcuni milioni: spesso inabili, e sempre meritevoli della solidarietà nazionale. Si ponevano problemi assistenziali collettivi, dei quali doveva farsi carico tutta la società, e che avevano costi altissimi. Quasi sempre mogli e figli giovanissimi dovevano ricostruire la loro esistenza. Era la nuova classe sociale (poiché la dimensione del fenomeno autorizza a usare questa definizione) degli orfani e delle vedove di guerra. Sino al 1914 nessuno aveva pensato che questo problema sarebbe divenuto uno dei motivi dominanti le conseguenze di un conflitto.
Vi erano poi le conseguenze economiche. In ogni paese la durata della guerra aveva imposto sacrifici pesanti dal punto di vista delle condizioni di vita. Più pesanti ancora erano le trasformazioni del sistema produttivo che aveva dovuto essere riconvertito alle esigenze dell’economia di guerra. In termini macroeconomici questa riconversione non era sempre stata un fenomeno strategicamente negativo, poiché essa aveva provocato l’irrobustirsi dell’industria pesante (specialmente produzione e manifattura dell’acciaio e metallurgia) e la crescita dei profitti che nel dopoguerra avrebbero potuto essere reinvestiti per finanziare la ricostruzione. Ma in senso più immediato, le esigenze della guerra avevano distorto la vita economica di tutti i paesi, mutato la destinazione dei consumi, cambiato la composizione della manodopera. Per la prima volta i giovani avevano dovuto essere sostituiti dai vecchi o dalle donne. Un fatto forse positivo, questo, dal punto di vista dell’emancipazione femminile, ma certo una declinazione non funzionale allo sviluppo di un sistema economico di pace. Allo stesso modo, poteva essere considerato positivo l’intenso sforzo di innovazione e modernizzazione. Ma nell’insieme il sistema economico subì una forte scossa dalla quale esso stentò a riprendersi e che fu resa più complessa dalle tentazioni rivoluzionarie del dopoguerra. A ciò si aggiunsero i problemi della ricostruzione, che mai nel passato si erano presentati in modo così massiccio. Non furono ancora distruzioni paragonabili a quelle provocate fra il 1939 e il 1945 dalla seconda guerra mondiale, ma già allora in tutte le regioni attraversate dagli eserciti, e in quelle, assai circoscritte, colpite da bombardamenti aerei, si poneva il problema di ricostruire case e infrastrutture. Prepararsi alla pace voleva dire affrontare i problemi della ricostruzione.
Tutto ciò poneva questioni interne e internazionali. Le spese di guerra avevano costretto i singoli governi a un appesantimento della pressione fiscale. Ma soprattutto li avevano costretti a fare ricorso al mercato finanziario internazionale. La Gran Bretagna, il paese meno esposto al peso della guerra combattuta, era stata il primo mercato finanziario degli Alleati; in minor misura lo era stata la Francia. A questo indebitamento interno all’alleanza si accompagnò un parallelo indebitamento britannico, francese, italiano e degli altri paesi del fronte antitedesco nei confronti degli Stati Uniti. Il problema di ripianare questa situazione si trascinò per un certo numero d’anni e diede origine a una spirale viziosa nel momento in cui i vincitori collegarono, in una triade inestricabile, la restituzione dei debiti di guerra con il pagamento, da parte tedesca, di riparazioni adeguate a compensare i conti totali.
Sullo sfondo (o sul proscenio?) di tutto questo si stagliava la nuova situazione creatasi in Russia dopo le rivoluzioni del 1917 e specialmente dopo la rivoluzione d’ottobre. L’illusione che la rivoluzione fallisse, o comunque restasse circoscritta all’interno dell’antico impero degli zar, se mai fu davvero nutrita da qualcuno, si rivelò presto infondata. Il movimento operaio aveva radici troppo profonde nelle società industrializzate perché parti delle forze socialiste non subissero l’attrazione dell’appello lanciato da Lenin. Gli echi germanici e balcanici della rivoluzione; il fascino che essa esercitava sulla sinistra socialista italiana e francese; il peso che essa aveva anche su quei partiti socialisti – che respingevano, per ragioni di principio, le forme violente e antitetiche alla tradizione democratica del socialismo occidentale e il concetto che la dittatura del proletariato fosse da imporre con colpi di mano come quelli usati da Lenin e dai suoi collaboratori contro l’Assemblea costituente russa – non scemavano l’attrazione esercitata su tutto il socialismo mondiale da un partito che si proclamava rappresentante dei lavoratori. Il problema del contagio non era dunque né immaginario né semplice. Ogni paese europeo doveva fare i conti con situazioni interne proprie; tutti insieme i vincitori dovevano trovare un modo comune per fronteggiare la situazione esistente in Russia, senza essere per nulla d’accordo su cosa fare nel merito. Il timore della rivoluzione fu presente sempre: come preoccupazione di fondo ma anche come problema concreto, che aveva riflessi sul modo in cui la Germania avrebbe dovuto essere trattata e, più ancora, sul modo in cui avrebbero dovuto essere risolti i problemi riguardanti l’Europa centro-meridionale.
Infatti, dal punto di vista della situazione politica contingente, ciò che da ultimo caratterizzava il clima nel quale le paci sarebbero state negoziate e la ricostruzione del sistema politico europeo sarebbe stata attuata era l’eccezionale portata dei cambiamenti politico-istituzionali che la guerra aveva lasciato dietro di sé nell’Europa centrale, orientale e meridionale. Quattro imperi erano scomparsi o si trovavano in piena agonia. L’Impero germanico era stato travolto dalla sconfitta; l’Impero zarista era stato distrutto dalla rivoluzione. Tuttavia sia la Germania sia la Russia, e i territori da essa dipendenti, rimanevano abbastanza coesi (salvo le amputazioni che i vincitori avrebbero imposto alla Germania e i dubbi che si potevano nutrire sul successo finale della rivoluzione bolscevica).
Ben diversa era la situazione provocata dal crollo dell’Impero austro-ungarico, al quale aveva fatto seguito una sistemazione provvisoria, caratterizzata da una serie di incertezze e perplessità. E altrettanto grave era la situazione provocata dalla crisi finale verso la quale si avviava l’Impero ottomano, non ancora estinto sulla carta, ma circondato da nemici, che lo avrebbero privato di gran parte dei suoi territori, sino a portarlo alla dissoluzione. Dinastie al potere da secoli venivano d’un tratto cancellate dalla sconfitta dei loro eserciti. In questo quadro generale si collocavano le questioni concrete che la Conferenza di Parigi avrebbe dovuto risolvere.
Il compito degli statisti, che a partire dal 18 gennaio 1919 si riunirono a Parigi per negoziare i trattati di pace, va interpretato alla luce delle soluzioni che essi diedero all’insieme di questi problemi e, in concreto, al modo in cui tali problemi riflettevano i conflitti che avevano scatenato la guerra.
Quando si isolano tali conflitti, cioè si ricercano le cause della prima guerra mondiale, si individuano i punti di attrito permanenti o emergenti, ossia le rivalità generate dalla diversa crescita (o crisi) delle grandi e medie potenze nelle quali il sistema internazionale europeo era suddiviso. La Germania aveva costituito un fronte demografico robusto e compatto. Tanto più compatto in quanto la crisi dell’Impero asburgico, delineatasi fra il 1859 e il 1866-67, aveva dato vita dal 1879 a un’alleanza stretta e duratura, che in pratica condizionava la libertà di manovra dell’Impero austro-ungarico, vincolandola e subordinandola a quella germanica.
Alla crescita germanica si contrapponevano rivali vecchi e nuovi. Vecchi, come la Francia che dal 1871 meditava la revanche; e nuovi, come la Russia panslavistica, che spingeva le nazioni balcaniche minori, non legate dinasticamente a Berlino, a vedere nell’asse austro-tedesco l’ostacolo per la loro crescita e una minaccia potenziale, dopo che la Germania ebbe assunto la protezione dell’Impero ottomano. Il progetto di una ferrovia Berlino-Baghdad esprimeva quasi plasticamente l’estensione pensata per un dominio che da Berlino tendeva a raggiungere l’Oceano Indiano per trovare qui un nuovo punto di scontro (oltre a quelli esistenti nel Mare del Nord e nell’Atlantico in generale) con l’altro nuovo avversario, la Gran Bretagna, che in pochi lustri aveva visto l’antico alleato di tutto il secolo XIX trasformarsi in concorrente industriale, commerciale, tecnologico, navale. Quando la potenza tedesca si era affacciata sul mare e da questo aveva tratto nuovo alimento, la rivalità britannica era diventata un fatto inevitabile. Esisteva sul continente prebellico una nuova forza esplosiva, dotata dei mezzi e dei punti di riferimento necessari per darle credibilità come minaccia. Vecchi e nuovi avversari della Germania erano dunque stati spinti verso un’intesa che delimitasse i rischi, erodesse la nuova forza, sconfiggendola.
Se le antiche rivalità erano scontate e prevedibili, erano quelle nuove che davano dinamismo alla coalizione antitedesca: la rivalità britannica, che esplose con la scoperta della dimensione globale del rischio, e quella russa, che ritrovava tradizionali contrapposizioni continentali ma soprattutto vedeva sorgere un ostacolo inatteso sia all’affermazione dei popoli slavi, come la Serbia e la Bulgaria, sia al secolare disegno di erosione dell’Impero ottomano. Il marchio teutonico, divenuto ancora più evidente dopo la rivoluzione dei «Giovani Turchi» del 1908, era sufficiente a far passare in secondo piano (come era accaduto del resto già tra la Francia e la Gran Bretagna nel 1904) gli antagonismi coloniali e a favorire la ricerca di compromessi ragionevoli in spazi importanti ma non di prima linea (come la Persia, l’Afghanistan e gli altri oggetti delle convenzioni anglo-russe del 1907).
A questo insieme conflittuale centrale, dal quale scaturì la guerra nel 1914, altri momenti di crisi dovevano aggiungersi: alcuni legati al conflitto di base, come le tensioni balcaniche e i nazionalismi mitteleuropei (Polonia, Boemia-Moravia, Slovacchia); altri tendenzialmente oscillanti, per l’obiettiva ambivalenza degli interessi in gioco e la necessità di misurarli secondo opportunità, come era il caso dell’Italia.
La sconfitta subita dagli imperi centrali nel 1918 consentiva in teoria il superamento delle tensioni prebelliche a spese della Germania e in senso antitedesco. In realtà le novità maturate o manifestatesi durante la guerra limitarono la libertà di manovra dei vincitori e diedero una prima indicazione di come tutte le potenze europee non fossero più in grado di risolvere da sole i problemi legati ai trattati di pace.
Nel loro insieme, infatti, i trattati di Parigi cancellarono solo in parte le ragioni della guerra. Forse ciò si spiega poiché la vittoria non aveva segnato la debellatio (cioè la scomparsa come Stato) della Germania ma aveva assunto la forma di armistizio, firmato l’11 novembre 1918 dalla Germania con gli Stati Uniti e le potenze dell’Intesa, sulla base dei 14 punti wilsoniani, ma con la riserva degli Alleati circa il problema delle riparazioni e quello della libertà di navigazione. Oppure si spiega poiché a occidente i vincitori si impegnarono meglio a chiarire la portata del loro successo, mentre la scomparsa dei tre imperi centro-orientali rese meno chiare le linee e le forze sulle quali costruire un nuovo ordine europeo. Col risultato che un nuovo ordine europeo non fu costruito e vennero invece creati nuovi motivi di antagonismo – magari minori ma non meno acuti e forse più pericolosi – che si aggiunsero alla massa delle insoddisfazioni, nutrite dalle attese inappagate. È sorprendente, a tanti anni di distanza, considerare come gli autori dei trattati di Parigi non si rendessero conto (tranne qualche eccezione, allora considerata polemica) di aver creato un nuovo «ordine», che rispetto a quello travolto dalla guerra presentava anzi più numerosi e più gravi motivi di conflitto, che la Società delle Nazioni non sarebbe certo stata in grado di risolvere. Infatti l’insieme di quei trattati non fornì un risultato conclusivo ma rappresentò solo un momento di sosta, una pausa, durante la quale le rivalità europee si riproposero in maniera esasperata sino all’autodistruzione, e i cambiamenti esterni all’Europa maturarono sino a presentarsi come gli elementi dominanti della nuova situazione globale.

2. La Società delle Nazioni

Dal punto di vista del presidente americano Wilson, il presupposto della ricostruzione europea stava nell’attuazione di alcuni dei punti programmatici ai quali gli Stati Uniti avevano affidato il loro «manifesto» di guerra, cioè nella creazione di un’organizzazione che, istituzionalizzando i conflitti internazionali, rendesse più facile una loro soluzione pacifica o rendesse possibile una risposta collettiva tale da scoraggiare gli aggressori o da sconfiggerli. In passato questo compito era stato affidato alle sottigliezze della diplomazia segreta ma dal 1917 proprio contro di essa si era scagliata l’offensiva – spesso demagogica – di chi la indicava come principale responsabile del concatenarsi di impegni che nel 1914 aveva reso fatale l’estendersi della guerra. In ossequio alle pressioni tendenti a una formazione più democratica delle decisioni di politica internazionale si badava al sintomo – pur importante – senza percepire che esso esprimeva a sua volta contraddizioni più profonde. E si credeva che, per rimuovere tale sintomo (nella fiducia di estinguere il «male» della «politica di potenza») fosse necessaria una pseudo-diplomazia «aperta», come Wilson aveva chiesto nel primo dei suoi 14 punti, affidata a una «Società delle Nazioni», frutto dell’internazionalismo del presidente americano.
Ma fu davvero la Società delle Nazioni l’organo capace di affermare una visione mondiale dei problemi, oppure essa fu travolta subito dalla prepotente realtà delle politiche di potenza? Il Covenant, cioè il documento istitutivo della Società delle Nazioni, venne inserito nel trattato di Versailles come prima parte del testo. In 26 articoli esso dettava la nuova disciplina della vita internazionale. Gli organi della Società erano l’Assemblea, il Consiglio, il Segretariato permanente (art. 2). L’Assemblea era formata dai rappresentanti di tutti i paesi membri e non aveva poteri chiaramente delimitati. Il Consiglio era composto dai rappresentanti delle «principali potenze alleate e associate» e da quattro altri membri indicati dall’Assemblea, a rotazione ma discrezionalmente; la sua composizione poteva essere modificata da un semplice voto dell’Assemblea stessa. Il Consiglio era l’organo di governo della Società, poiché esso poteva occuparsi «di qualsiasi materia rientrasse nella sfera delle competenze della Società o riguardasse la pace nel mondo». Sia il Consiglio sia l’Assemblea adottavano le loro deliberazioni con voto unanime, escluse le parti in causa in una controversia. I compiti del Segretariato non venivano precisati, ma erano implicitamente quelli del coordinamento organizzativo.
Il mantenimento della pace era affidato a misure preventive (arbitrato, mediazione, intervento del Consiglio, sentenze giurisdizionali della Corte internazionale permanente di giustizia: artt. 11-14) oppure all’intervento politico del Consiglio...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. Parte prima. Vent’anni fra due guerre.
  3. Capitolo primo. La mancata ricostruzione del sistema europeo e le illusioni della stabilizzazione
  4. Capitolo secondo. La grande depressione e la prima crisi del sistema di Versailles
  5. Capitolo terzo. Dalla crisi al crollo del sistema di Versailles
  6. Capitolo quarto. Verso la guerra
  7. Parte seconda. La seconda guerra mondiale
  8. Capitolo quinto. La prima fase della seconda guerra mondiale
  9. Capitolo sesto. La guerra globale
  10. Capitolo settimo. La vittoria alleata e la preparazione del dopoguerra
  11. Suggerimenti bibliografici