Il sorriso di Niccolò
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Il sorriso di Niccolò

Storia di Machiavelli

  1. 288 pagine
  2. Italian
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Il sorriso di Niccolò

Storia di Machiavelli

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Un sorriso enigmatico «che non passa drento» accompagna sempre Machiavelli, da quando giovanissimo ascolta le prediche del «profeta disarmato» Savonarola e assiste alla cacciata dei Medici da Firenze, a quando diventa integerrimo e raffinato Segretario della Repubblica di Soderini. Quel sorriso che non si spegne né a seguito del ritorno al potere dei Medici, che lo destituiscono da ogni incarico pubblico e lo rinchiudono nelle carceri del Bargello, né quando, dopo aver quasi perso la vita, si ritira nelle campagne fiorentine e si dedica alla scrittura dei suoi capolavori della politica. I suoi consigli restano inascoltati e, ironia della sorte, la morte lo coglie mentre gli eserciti stranieri saccheggiano quella patria che ha amato più dell'anima.Attraverso l'appassionante intreccio delle alterne vicende personali di Niccolò Machiavelli con la storia del suo tempo, Maurizio Viroli restituisce al lettore un'immagine inedita, complessa e inquieta dell'autore del Principe.

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Informazioni

Anno
2016
ISBN
9788858126295
Argomento
Filosofia

XX. Gli ultimi amori

La vita di Niccolò volge alla fine. Ad annunciare che ­l’epilogo è ormai vicino, più che il passare inesorabile degli anni, è l’affievolirsi delle passioni che hanno animato i suoi giorni, ­ovvero l’amore per le donne e il desiderio di fare grandi cose per Firenze e per l’Italia. Il tempo, che spesso diminuisce le forze senza estinguere il desiderio, lo costringe a mettere da parte il primo; la malignità e la meschinità degli uomini che non hanno voluto ascoltare né tantomeno tradurre in opere la sua conoscenza delle cose politiche, gli impediscono di coltivare il secondo. La sua vita si chiude sotto il segno dell’amarezza e della tristezza, come tante altre vite. Niccolò Machiavelli, istorico, comico e tragico, si firmò in una lettera dell’ottobre 1525. Di storie ne scrisse, e di commedie pure; ma tragedie non ne scrisse nessuna: la tragedia era la sua vita, e se ne accorse all’ultimo atto.
Pochi mesi dopo il suo ritorno dalla trionfale missione a Carpi, nell’agosto del 1521, Niccolò ha la soddisfazione di vedere stampata dall’editore fiorentino Filippo di Giunta una sua opera importante, dal titolo Dell’arte della guerra. L’ha scritta, come egli stesso ci dice nel Proemio, per non avvilirsi nell’ozio cui le circostanze della vita lo hanno costretto. C’è da credergli, perché se c’è qualcuno che egli disprezza sono proprio gli oziosi che sprecano la vita senza far nulla di utile o di importante: sono «infami e detestabili», aveva scritto in una splendida pagina dei Discorsi, gli uomini «inimici delle virtù, delle lettere e d’ogni altra arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione, come sono gl’impii, i violenti, gl’ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i vili» (D, I.10). E l’ha scritta anche per gli amici degli Orti Oricellari, affascinati come lui dall’antichità e soprattutto dalla leggendaria organizzazione militare degli antichi Romani.
Dedica il suo lavoro a Lorenzo di Filippo Strozzi, che lo aveva aiutato negli anni più bui con qualche regalo e l’aveva presentato al cardinale Giulio de’ Medici. O perché a ­scrivere di guerra e di milizia si sentì ancora segretario, o perché i giovani amici degli Orti Oricellari lo consideravano tale, si presenta ai lettori come «Niccolò Machiavegli, cittadino e segretario fiorentino» (Opere, 529).
Le idee che difende sono quelle che propugnò e cercò di mettere in pratica, almeno in parte, quando era davvero il segretario, a cominciare dalla tesi fondamentale del libro, ovvero che l’esercizio dell’arte della guerra è il completamento e il fondamento necessario della vita civile. Senza adeguate difese, gli ordini della vita civile sono infatti «vani» e destinati a perire, come le stanze di un «superbo e regale palazzo ancora che ornate di gemme e d’oro», ma prive di un tetto che le difenda dalla pioggia (Opere, 530).
Erano passati nove anni dall’agosto del 1512, quando la milizia che Machiavelli aveva voluto e costruito si lasciò fare a pezzi senza combattere dai fanti spagnoli. Chissà quante volte amici e nemici gli avranno rimproverato, in faccia o dietro le spalle, quella vergognosa sconfitta. Ora può rispondere a tutti e spiegare che una sconfitta non dimostra che l’idea della milizia sia sbagliata. Anche gli eserciti romani e quelli di Annibale furono sconfitti; eppure nessuno ha mai messo in discussione il valore dell’organizzazione militare romana e cartaginese. La milizia fiorentina fu sconfitta a Prato perché non era né ben comandata né ben addestrata; ma questo non vuol dire che fosse sbagliato il progetto di affidare la difesa della repubblica a una milizia composta di cittadini e sudditi del contado, anziché dipendere da soldati e capitani mercenari. L’Ordinanza andava dunque corretta, non abolita, e il modo di correggerla Machiavelli lo spiega, fin nei minimi particolari, nell’Arte della guerra.
Oltre ai consigli di arte militare, l’Arte della guerra contiene importanti insegnamenti politici. Machiavelli spiega che nessun regno e nessuna repubblica bene ordinati hanno mai permesso ai loro sudditi o ai loro cittadini di usare la guerra come loro arte, ovvero diventare soldati di professione; che fine dell’arte della guerra non è la guerra bensì la difesa e che per poter difendere i sudditi o i cittadini, chi governa deve «amare la pace e saper fare la guerra» (Opere, 544). Loda le virtù militari, in primo luogo il coraggio, la forza e la disciplina, ma non esalta mai la guerra come affermazione di potenza o come evento grandioso e terribile. Sa bene, per averlo visto, che la guerra è una immane e immonda crudeltà che si scatena soprattutto contro i non combattenti e gli inermi; sa che la peggior guerra è quella delle bande mercenarie che vivono di guerra senza leggi, senza disciplina, senza onore; e sa soprattutto che le guerre non si fermano con le preghiere, le suppliche o il denaro, ma solo con le milizie bene ordinate.
Come nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Machiavelli si lascia a volte abbagliare dallo splendore dell’antichità romana paragonata alla miseria dell’Italia del suo tempo. Non si accorge che l’introduzione delle artiglierie mobili sta cambiando il modo di fare le guerre, anche se bisogna tener presente che quando egli scrive tale mutamento è appena agli inizi e che egli non dice che le artiglierie non sono importanti, ma solo che il «nervo» della guerra è ancora rappresentato dalle fanterie. Del resto, egli crede davvero che si possa tornare alla grandezza antica, e in questa sua convinzione c’è tutta la forza e insieme la debolezza, di dettaglio più che di sostanza, del suo pensiero politico. Che cosa poi egli volesse resuscitare della politica antica lo dice nell’Arte della guerra con più chiarezza che in qualsiasi altra opera: «onorare e premiare le virtù, non dispregiare la povertà, stimare i modi e gli ordini della disciplina militare, costringere i cittadini ad amare l’uno l’altro, a vivere sanza sètte, a stimare meno il privato che il publico, e altre simili cose che facilmente si potrebbono con questi tempi accompagnare». Crede che non sia difficile persuadere gli uomini del suo tempo della superiorità di un simile modello rispetto al loro modo di vivere, e che chiunque possa capire che una repubblica ordinata secondo i principi antichi sarebbe come una grande pianta all’ombra della quale ognuno potrebbe vivere «più felice e più lieto che sotto questa» (Opere, 536).
Con l’Arte della guerra, Machiavelli vuole lasciare in dono ai più giovani e alle generazioni che verranno le conoscenze che ha accumulato con gli studi e l’esperienza. Si sente ormai vecchio, e sa che non avrà più occasione di mettere in pratica quella saggezza nata tutta dalla vita che egli voleva tradurre in nuove forme di vita degli Stati e dei popoli. Vuole sottrarre questo suo tesoro alla morte. Per questo, più ancora che per vanità letteraria, che è poi un peccato veniale, lo ha messo in carta. Il suo è un lascito venato di risentimento contro la natura, la quale o «non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire», e ispirato dal pensiero che in Italia potesse davvero rinascere la vera arte della guerra, perché «questa provincia pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura» (Opere, 689).
L’opera fu giudicata assai bene, anche da uomini importanti. Il cardinale Giovanni Salviati gli scrive il 6 settembre 1521 per dirgli che il libro gli è piaciuto molto perché gli sembra che «al perfettissimo modo di guerreggiare antico» Machiavelli abbia aggiunto «tutto quello che è di buono nel guerreggiar moderno, e fatto una composizione di esercito invincibile». Se non farà altro frutto, commenta il cardinale, il vostro libro dimostrerà almeno che in Italia ai tempi nostri c’era qualcuno che conosceva «quale è il vero modo di militare» (L, 380).
Di lì a pochi anni, il cardinale avrebbe toccato con mano le amare conseguenze, per la Chiesa e per l’Italia, del fatto che chi sapeva di arte militare non poteva fare e chi faceva non conosceva l’arte. Le parole del cardinale fecero certo piacere a Machiavelli, e ancora di più gli avrebbe fatto piacere vedere il suo lavoro ristampato sette volte solo durante il Cinquecento, e tradotto in molte lingue europee. Le lodi e la fama non gli toglievano tuttavia l’amarezza per essere lontano dagli affari politici in Sant’Andrea in Percussina, fra i beccafichi e i polli.
Mentre cresce la sua reputazione di esperto di cose militari, lavora alle Istorie Fiorentine, che Leone X e il cardinal Giulio gli avevano commissionato. Non che gliene importasse molto, ma Leone X non visse abbastanza per leggere il frutto delle fatiche di Machiavelli. Morì infatti il primo dicembre 1521, lasciando il cardinal Giulio solo arbitro del governo di Firenze. Come aveva fatto Leone X circa un anno prima, anche il cardinale, preoccupato per la mancanza di discendenti diretti dei Medici in grado di prendere le redini del regime, fa qualche pensiero di riformare la costituzione della città e permettere il ritorno ad una qualche forma di regime repubblicano. Chiede anch’egli pareri a fiorentini esperti di cose di Stato, e fra questi interpella anche Machiavelli. Il quale risponde con un progetto intitolato Minuta di provvisione per la riforma dello stato di Firenze l’anno 1522, come se si trattasse di una riforma già decisa e da porre in atto.
Come aveva già detto nel testo presentato a Leone X, la soluzione ai problemi politici di Firenze era una pacifica restaurazione del governo repubblicano che assicurasse al cardinal Giulio il potere fin quando egli restava in vita e ai giovanissimi Ippolito e Alessandro, figli illegittimi rispettivamente di Giuliano e Lorenzo, proprietà e prestigio. Era dunque una transizione governata dai Medici, ma era pur sempre una transizione verso la repubblica. Repubblica voleva dire Consiglio Grande; voleva dire «restituire la sala antica» dove il Consiglio si radunava. Tutto questo Machiavelli lo afferma chiaramente, e davvero sorprende che gli studiosi abbiano parlato di un Machiavelli che negli ultimi anni della sua vita abbandona gli ideali repubblicani per diventare un fautore del principato (Opere, 746-52).
Di questa fantasticata transizione alla repubblica, come di quella vagheggiata ai tempi di Leone X, non si fece nulla, anche perché in quei primi giorni di giugno si scopre in Firenze una congiura per uccidere il cardinal Giulio, nel giorno del Corpus Domini (19 giugno). Capi della congiura sono due amici di Machiavelli, Zanobi Buondelmonti e Luigi Alamanni di Piero, il poeta. Fra gli implicati ci sono anche altri frequentatori delle riunioni degli Orti Oricellari, dove Machiavelli aveva tante volte intrattenuto i suoi giovani amici parlando di repubblica e di tirannicidio. Anche se nei Discorsi, la sua opera legata più di ogni altra all’ambiente degli Orti, Machiavelli aveva spiegato quanto fossero difficili e pericolose le congiure contro il principe, ce n’era d’avanzo per sospettare che anch’egli fosse coinvolto, o fosse per lo meno un istigatore. Il pericolo di dover passare ancora una volta fra gli orrori del carcere e della tortura era reale, e questa volta non ne sarebbe uscito vivo.
Per sua fortuna, lo lasciarono, pare, in pace. Non ebbero invece fortuna Luigi Alamanni di Tommaso e Iacopo Diacceto. Esaminati con la tortura, confessano, e il 6 giugno sono decapitati. Zanobi Buondelmonti e Luigi Alamanni di Piero riescono a mettersi in salvo con la fuga. Finiva così il gruppo degli Orti Oricellari. Machiavelli doveva molto a quei giovani ed era legato ad essi da vincoli di profonda stima, di gratitudine e di affetto. Negli anni più duri aveva trovato nella loro attenzione e nel loro interesse per le cose della politica e per l’antichità romana lo stimolo a scrivere tante delle sue pagine più belle. Vedeva in essi degli animi generosi che per la loro virtù e per la posizione sociale che occupavano avrebbero potuto fare quelle grandi cose che lui dovette accontentarsi di immaginare. Quando le morti e gli esilii resero deserti quegli Orti, anche Niccolò si trovò più solo e più sconsolato.
A rendergli ancora più dolorosi quei giorni, arrivò ai primi di giugno del 1522 una lettera di Roberto Pucci, gonfaloniere di giustizia, con la notizia che suo fratello Totto, fattosi prete nel gennaio del 1510, era in fin di vita. Totto era un uomo buono e gentile che aveva saputo essere vicino al fratello scapestrato nei momenti più bui. Niccolò, che amava i buoni e sapeva conservare la gratitudine, gli voleva bene. Per quel poco che poteva, diede anche denari al cappellano ser Vincenzo, affinché continuasse a dir messe nelle chiese parrocchiali di Totto e i popolani non avessero a rammaricarsi.
Pochi mesi dopo, nell’ottobre, redasse una breve memoria per Raffaello Girolami, che andava ambasciatore in Spagna presso Carlo V. È facile immaginare con quale stato d’animo scrisse quei consigli per un giovane scelto per una missione che egli aveva desiderato più di ogni cosa, come dirò. Eppure distillò in quelle poche pagine il meglio della sapienza diplomatica che aveva accumulato quando toccava a lui l’onore di rappresentare la repubblica presso i potenti d’Europa. Il Memoriale a Raffaello Girolami quando ai 23 d’ottobre partì per la Spagna all’Imperatore ha per la nostra storia un’importanza particolare, in quanto ci permette di capire come Machiavelli intendesse il lavoro del diplomatico e come egli ricordasse le sue esperienze lontane ormai più di un decennio. Sono dunque, in parte, pagine autobiografiche, e per questo vale la pena leggerle con attenzione.
Il Memoriale inizia con un elogio del cittadino che va ambasciatore, tanto sincero quanto malinconico: «Le ambascierie sono in una città una di quelle cose che fanno onore a un cittadino, né si può chiamare atto allo stato colui che non è atto a portare questo grado». Per svolgere bene il proprio compito, spiega Machiavelli, l’ambasciatore deve più di ogni altra cosa «acquistarsi reputazione» mostrando con il proprio comportamento di essere «uomo da bene», generoso, integro, «non avaro e doppio», e non essere considerato uno che «creda una cosa e dicane un’altra». Gli ambasciatori che si comportano con doppiezza perdono la fiducia dei principi presso i quali sono inviati, e non possono per questo negoziare in modo efficace.
L’ambasciatore, ovviamente, non può dire sempre la verità. Ci sono casi in cui «è necessario nascondere con le parole una cosa». Un buon ambasciatore deve essere capace di dissimulare, e se viene scoperto deve avere pronta e rapida una risposta. Ma la vera difficoltà del suo compito consiste nell’essere bene informato delle «cose che si son concluse e fatte» e nel capire bene le «cose che si trattano» e le «cose che si hanno a fare». Mentre è relativamente facile raccogliere notizie esatte sulle cose fatte, a meno che non si tratti di accordi segreti, è molto difficile capire gli sviluppi di trattative che sono in corso e intendere i piani dei principi, per l’ovvia ragione che questi cercano quasi sempre di dissimulare le loro vere intenzioni.
Per svolgere bene questa parte del lavoro dell’ambasciatore, consiglia il vecchio Machiavelli, bisogna usare bene «il giudizio» e la «coniettura», ovvero fare valutazioni precise e congetture che poi si rivelino conformi al vero, e bisogna saper raccogliere informazioni dai tanti faccendieri che circolano nelle corti. Il modo migliore per ricevere informazioni è darne, perché «chi vuole che altri gli dica quello che egli intende, è necessario che lui dica ad altri quello che lui intende». È dunque un buon ambasciatore chi è in grado da solo di capire bene le cose e poi di arricchire le proprie conoscenze scambiandole con quelle di altri.
Infine, ammonisce Machiavelli, è importante che l’ambasciatore sappia presentare al suo sovrano i propri giudizi in modo che non appaiano come valutazioni personali, ma come analisi obiettive della situazione politica e militare. L’artificio da usare, e qui emerge tutta l’esperienza del vecchio diplomatico, è ricorrere a una formula di questo tipo: «Considerato adunque tutto quello che vi è scritto, gli uomini prudenti che si trovano qua, giudicano che ne abbia a seguire il tale effetto e il tale» (Opere, 729-31).
Consegnato il Memoriale a Raffaello Girolami, Machiavelli si immerge totalmente nella stesura delle Istorie. Lo si capisce bene da una lettera scritta il 26 settembre 1523 al cognato Francesco del Nero per sollecitargli il pagamento del salario promesso; io a mia volta, scrive Nicco...

Indice dei contenuti

  1. Dedica
  2. Prefazione alla presente edizione
  3. Premessa
  4. I. La maschera e il volto
  5. II. Episodi che lasciano il segno
  6. III. La nascita della repubblica e la morte del profeta
  7. IV. Un segretario molto particolare
  8. V. Orizzonti più larghi
  9. VI. Una moglie infuriata e un duca inquietante
  10. VII. Il gran teatro della politica
  11. VIII. La storia insegna, a chi vuole imparare
  12. IX. Un’idea grande. Forse troppo
  13. X. L’invidia dei fiorentini e un papa guerriero
  14. XI. La missione presso l’imperatore e la conquista di Pisa
  15. XII. La tempesta si avvicina
  16. XIII. Come muore una repubblica
  17. XIV. La tragedia e il riso
  18. XV. Sembrar vivo
  19. XVI. «Il Principe» e gli amori
  20. XVII. La commedia della vita
  21. XVIII. Il sapore della storia
  22. XIX. Storie di frati, d’inferno e di diavoli
  23. XX. Gli ultimi amori
  24. XXI. In Palazzo Vecchio e sul campo, per l’ultima volta
  25. XXII. Amare la patria più dell’anima
  26. Cronologia essenziale degli avvenimenti italiani, 1494-1527
  27. Bibliografia essenziale