Forchetta, bacchette o mani?
Muoviti, per quanto puoi.
Attraverso l’oceano, o semplicemente un fiume.
Prova a indossare i panni di qualcun altro,
o almeno a mangiare come lui.
Anthony Bourdain
“È in tavola!”, dice a voce alta mia madre, affacciandosi dalla porta della cucina. Se dovessi dire qual è per me il significato del concetto di “casa”, direi che è racchiuso in questa frase. Quel “è in tavola!” e il suono dei passi rapidi miei e di mia sorella che improvvisamente smettiamo di giocare e corriamo a sederci, mentre mio padre accende la radio e si versa un bicchiere di vino. E se dovessi dire cosa mi rende cittadino del luogo in cui sono nato direi la gioia di mangiare con i miei un piatto di cappelletti in brodo: i cappelletti romagnoli, da non confondere con i tortellini emiliani, errore che può risultare fatale a un forestiero. Credo che non esista un male d’animo al mondo che non possa essere lenito da un piatto fumante di cappelletti in brodo. Il vapore che si alza appannandomi gli occhiali, il luccicare di tante piccole stelle nel brodo, che rincuora e fa rinascere. Ancora oggi, come faceva sempre mio padre e suo padre prima di lui, metto una goccia di vino nel brodo. Il Sangiovese che tinge di rosso quel piccolo mare giallo, in cui nuotano i cappelletti. Per le occasioni speciali li facciamo ancora in casa. Il trucco è prepararli lentamente e chiuderli velocemente. Se però siamo in tanti a pranzo, o non c’è il tempo necessario per farli con calma, li compro alla mia bottega di pasta fresca di fiducia.
Il cibo è una straordinaria – e spesso piacevole – fonte di conoscenza. Dalle tradizioni alimentari di un paese possiamo capire moltissimo. Una delle prime domande che mi faccio prima di partire è: cosa si mangia lì? Una volta arrivato, mi prende una sorta di frenesia: prima di tornare a casa devo aver assaggiato tutto.
Ricordo ancora la mia prima volta in Sicilia, che a mio giudizio rimane uno dei luoghi con la miglior cucina del mondo e sicuramente con i migliori dolci che abbia mai mangiato. Il giorno in cui dovevo partire espressi a Laura, l’amica palermitana che mi ospitava sul divano, il mio dispiacere nel doverla lasciare così presto: mi mancavano ancora troppe cose da assaggiare. Così lei mi accompagnò in una pasticceria dove ordinai di tutto. Stiamo parlando di qualcosa come dieci o quindici tipi di dolci diversi. Avevo diciannove anni, potevo permettermelo. Mangiai tutto, di gran gusto, sotto gli occhi esterrefatti della pasticciera.
Se è vero che si viaggia con le gambe, è vero anche che per farlo nella maniera migliore occorre viaggiare anche con le papille gustative.
Ecco la mia top 5 dei migliori piatti mangiati per le strade del mondo:
1 – il granchio, aperto e servito crudo nei fiordi norvegesi (se ve lo state chiedendo ha il sapore di tonno, ma più pungente);
2 – la pizza di maccheroni che fa Pino in via delle Botteghelle a Salerno. Un classico nelle giornate concitate di Salerno Letteratura. Una variante interessante me l’ha insegnata Gennaro, un caro amico napoletano che la chiama frittata ’e maccarun. Lui la fa con gli spaghetti avanzati dalla cena prima, uova, scamorza, parmigiano e pepe nero. L’abbiamo poi mangiata in spiaggia, come pranzo d’asporto. Effetti collaterali: crea dipendenza;
3 – i pierogi, i ravioli polacchi, mangiati nella coloratissima città di Wrocław, dove eravamo in scena nel teatro che negli anni Sessanta aveva ospitato il grande regista-guru Jerzy Grotowski;
4 – il pad thai thailandese, saporitissimo piatto di noodle con arachidi, latte di cocco, germogli di soia, salsa di pesce (puzzolentissima e presente in ogni piatto thailandese, come l’olio nei nostri) e altri ingredienti vari a seconda della stagione. A Bang-
kok una ragazza insegnò a me e Martina a cucinarlo, andammo insieme al mercato a scegliere gli ingredienti e poi spadellammo tutto il pomeriggio, con grande soddisfazione!
5 – l’asado! La carne cotta alla brace tipica di Argentina, Cile e Uruguay. L’asado è il simbolo della socialità, si cucina con un rito lento e collettivo scandito da bicchieri di vino tinto. Ho avuto la fortuna di sentire niente meno che Luis Sepúlveda che ci mostrò la sua ricetta segreta – un complicato rituale in cui la carne era messa in mezzo a pietre appena tolte dal fuoco assieme a erbe aromatiche – che posso confidare solo a chi mi invita a cena.
Non posso aggiungere i cappelletti in brodo a questa lista per motivi di conflitto di interesse: sono la mia risposta alle madeleine di Proust, generano tanti ricordi felici.
Visto, però, che fondamentalmente sono un grande goloso, ecco la mia personale top 5 dei dolci del mondo:
1 – colazione con la granita al caffè e la panna fatta in un baretto del centro di Catania;
2 – pasteis de Belém, pasticcino di crema e pasta sfoglia, mangiato alla Manteigaria di piazza Luís de Camões a Lisbona;
3 – Sachertorte al Klimt Café di Vienna;
4 – il mango mangiato in spiaggia a Koh Samui. La frutta dei tropici ha un sapore incredibile: è dolce, profumata, colorata, mette allegria. In Occidente abbiamo ucciso il gusto dei frutti della terra, che hanno un sapore a metà tra l’acqua e il truciolato Ikea. Esistono ancora luoghi in cui la frutta sa di frutta, speriamo riescano a resistere;
5 – la gibanica slovena, sul lago Bohinj. Una mattonella con strati di semi di papavero, ricotta, noci e mele. Tempo di digestione richiesto: 4 ore.
Il caffè è un elemento centrale per i miei viaggi. Mi piace scoprire come lo bevono in diverse parti del mondo: quello lungo degli Usa, insopportabile i primi giorni, ma poi molto buono quando ci fai l’abitudine; il café au lait in Francia; l’olandese (l’Olanda è il paese in cui si beve più caffè d’Europa); il greco (o turco, a seconda dei punti di vista), con il suo fondo terroso, che, contrariamente al nostro, va bevuto lentamente, sorseggiato dopo che lo si lascia depositare, altrimenti si finisce col mangiare la polvere, e nel cui fondo, secondo la tradizione, puoi leggere il tuo futuro.
Ci sono poi molti paesi in cui il caffè semplicemente non si trova. In Marocco e nei paesi arabi è sostituito dal tè con la menta, molto dissetante soprattutto se bollente. In Marocco andai con un mio conoscente italo-marocchino e fu una pessima idea. Si chiama Hamza e lo avevo conosciuto perché anche lui faceva teatro. Viveva nelle campagne romagnole e suo padre lavorava allo zuccherificio. Hamza si era spacciato come grande esperto del Marocco che avrebbe guidato me e la mia ragazza, Martina, come uno sherpa. In realtà, Hamza viveva in Italia da 12 anni e ormai in Marocco lo trattavano peggio di un turista. Il suo arabo era arrugginito e là non vedono di buon occhio l’espatriato che ha avuto fortuna e torna a fare l’uomo di mondo, così ci rifilavano delle truffe peggiori di quelle che avremmo preso da viaggiatori sprovveduti.
La storia di questa disavventura parte dalla moschea di Casablanca. Venivamo in treno da Marrakech, una città splendida. La piazza di notte si riempie di tavoli e persone che grigliano carne. Il fumo riempie il cielo come una torre fumosa dal profumo di arrosto. Il giorno si trasforma in un mercato di arance e diventa completamente arancione. L’unico problema è il caldo. Anche di notte il vento è talmente caldo che sembra di avere un phon acceso puntato in faccia.
Mi ero recato a Casablanca con il mito del film di Michael Curtiz con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, uno dei più belli di sempre. Ovviamente la città non ha niente a che fare con quella ricostruita a Hollywood se non il fascino esotico di essere certi di essere fuori dall’Occidente, nel bene e nel male. Dopo una passeggiata in città e un passaggio per il mercato, in cui vendevano animali vivi e il cui odore putrescente segnò profondamente la mia memoria olfattiva, decidemmo di visitare la moschea di Casablanca. In Marocco, come in quasi tutti i paesi musulmani, le moschee non possono essere “visitate” da chi non è fedele: tutte, tranne la grande moschea bianca di Hassan II, una delle più grandi del mondo, che si erge sul lungomare della città ed è uno dei simboli del paese. Peccato che fosse aperta ai turisti fino alle 15, orario in cui arrivammo, quindi niente da fare. La moschea era ancora piena di gente, ma dopo quell’ora l’accesso era consentito solo ai fedeli. Ovviamente tentai l’ultima carta: “Solo una sbirciatina”, unita al “siamo in città solo oggi, non la vedremo mai più”, ma non mosse a commozione il grigio funzionario a guardia dell’edificio. E così la osservammo a lungo, da fuori. Nel piazzale c’erano alcune cabine del telefono e così, dopo aver inserito i gettoni, chiamammo Hamza e gli demmo appuntamento lì, nel piazzale davanti alla moschea. Ci aveva detto che viveva vicino a Casablanca, ma mentiva, la casa della sua famiglia era a Mohamedia.
Hamza si era fissato che non voleva mandarci a dormire in hotel, ma voleva sistemarci a casa di qualche amico. Io ribadii più volte che preferivamo l’albergo ma non ci fu niente da fare. Quella notte vagammo con lui e due suoi amici che ascoltavano a tutto volume musica marocchina e parlavano tra di loro in arabo, mentre Martina ed io dietro ci sentivamo parecchio a disagio. Alla fine ci mandò a casa di questo “cugino”. Ci aprì la porta questo tizio con folti baffoni e ci mostrò la nostra camera. Era una piccola stanza completamente vuota. Non c’era letteralmente nulla, nemmeno il letto. All’aspetto sembrava più un garage appena svuotato. Hamza se ne andò e ci abbandonò lì. L’uomo con i baffi portò un materasso e lo buttò a terra, poi disse qualcosa e se ne andò anche lui. Era ormai notte fonda, non avevamo molte alternative. Avevo parecchia paura, pensai che ci volessero rapire per chiedere un riscatto o qualcosa del genere, ma era notte e non sapevamo nemmeno dove fossimo. Non esistevano ancora i cellulari con il gps, potevamo essere letteralmente ovunque. Sperai che la notte volasse via velocemente, temevo che da un momento all’altro entrasse qualcuno e ci desse un mucchio di botte. Martina era invece più tranquilla. Più che altro ce l’aveva con me per aver cercato quella esperienza “autentica” di Nord Africa, quando Marrakech era così bella. Fino alla sera prima il nostro problema più grande era che in albergo non ci fosse l’aria condizionata, ora eravamo in mezzo a un non luogo, senza vie di fuga. Appena i primi raggi di sole filtrarono dalla finestra decidemmo di fuggire. La porta era aperta. Uscimmo in strada. Era un reticolo di strade strettissime. Procedemmo dritti, finché vedemmo dei binari del treno: in quel momento mi sentii veramente felice. Se c’erano dei binari ci doveva essere una stazione e se c’era una stazione c’era la salvezza. Seguimmo i binari per qualche chilometro e trovammo la stazione. Entrammo. C’era un treno per Rabat che partiva dopo due ore. Prendemmo i biglietti, “solo andata”. A quel punto la tensione cominciava a sciogliersi. Vedevamo la salvezza. Quella nuova temporanea serenità mi vece venire appetito e proposi di andare nel bar di fonte a bere un tè. Non avevo chiuso occhio e necessitavo di una bevanda ritonificante. Ci sedemmo a bere, eravamo tranquilli, quando sentii una voce: “Salam Aleikum!”. Mi girai e nel tavolo accanto c’era l’amico di Hamza, quello che la sera prima aveva guidato come un pazzo. Mi venne un brivido. Sembrava di essere in un film di Hitchcock. “Did you sleep well?” “Yessss”, risposi ostentando un sorriso tirato. “Good”, rispose. Si alzò e se ne andò. Appena si allontanò abbastanza corremmo in stazione e salimmo sul primo treno che partiva, senza guardare dove andasse. La sera arrivammo a Rabat, mi sembrò di essere giunti nel paradiso in terra.
A volte il mangiare mi fu anche (quasi) letale. Quando mi avvelenai non ero però in un paese lontano a mangiare serpenti o ragni fritti, ma ero in Spagna. Barcellona per me è stata una dura conquista. Le prime due volte che abbiamo provato ad andarci con il Supercamper abbiamo fallito. La prima stavamo tornando dal Portogallo e perdemmo qualche giorno in più del previsto per passare da Cadice e dovemmo tagliare la tappa. La seconda volta, invece, eravamo quasi arrivati quando a Figueres, città natale di Dalí, poco distante da Barcellona, mia sorella si sentì male. Andammo da un medico, ma non capì di cosa trattava. Poco dopo mi sentii male anche io e mia madre saggiamente disse che mi ero fatto suggestionare. Dopo due ore eravamo ricoverati tutti e quattro all’ospedale di Figueres per intossicazione alimentare. Non capimmo mai cosa fu, se il panino mangiato nel convento di frati dalle parti di Montpellier o un gelato mangiato vicino a casa di Dalí. Fatto sta che rimanemmo fuori gioco per dieci giorni. Eravamo distrutti. Quando tornai a casa avevo perso 8 chili. Mi ci vorrebbe adesso una dieta così drastica.
A parte queste esperienze estreme il restante 99% delle volte mangiare e scoprire nuovi gusti è stato grandioso.
Ho anche una mia personale classifica con le migliori bevute:
1 – degustare il vino nelle vigne della Champagne, a pari merito con bere il Porto nelle cantine lungo il fiume Douro (appunto, a Porto);
2 – il tour delle birrerie di Mons e di Liegi in Belgio, la birra Kölsch ghiacciata al carnevale di Colonia;
3 – il sidro alla Aste Nagusia, la festa dell’orgoglio basco di Bilbao;
4 – il chianti in Toscana, amato da tutti i turisti del mondo. Ci sarà un motivo! Io amo particolarmente mangiucchiare “du pici” e sorseggiare all’osteria Il Grattacielo di Siena (il nome è ironico, perché il soffitto è talmente basso che si tocca alzando il braccio);
5 – uno spritz con il Cynar in un bàcaro sui canali di Venezia.
Va bene, sulle bevute ho più ricordi (anche se sfocati) che sui dolci. Ne avrei da aggiungere molti altri:
– l...