Intermezzo 1.
Il quinto elemento del mondo
Ogni volta che penso a questo racconto, ho una certezza. Nell’anno del primo giubileo,
anno del Signore 1300, era già chiaro a tutti che il mondo si divideva in due: da
un lato, c’era Firenze. Dall’altro, tutto il resto. Che però sogna di diventare Firenze.
Perché lo dico? Basta leggere ciò che segue, e si capirà. È una storia tanto breve
quanto conosciutissima. Che cavalca il successo di una città. E si trasmette nel tempo,
anche quando questo successo è ormai tramontato o sta per tramontare, due secoli dopo.
Racconto che fa così1.
Siamo al Laterano. Al cospetto di papa Bonifacio VIII. L’occasione è solenne. Arrivano
dodici ambasciatori dei principali regni d’Europa, e non solo. C’è chi rappresenta
l’imperatore. Chi il re di Francia. Chi la Castiglia. Chi l’Aragona e la Navarra.
Chi, ancora, il granduca di Borgogna. Chi i re di Napoli e d’Ungheria. Chi il re di
Cipro. Chi il gran maestro dei cavalieri di Rodi. Chi il re di Polonia. Chi, nella
Penisola, le signorie di Padova, di Milano, di Camerino. Chi, persino, i signori del
khanato di Armenia, di Trebisonda o l’impero di Bisanzio. Dodici ambasciatori in tutto. Senza
esclusione alcuna, tutti Fiorentini. Il papa osserva la scena. Guarda i cardinali.
Sembra essere stupito. Riflette. Poi, comincia a parlare. E pone una semplice domanda
a tutti i presenti. Legittima, davanti allo spettacolo cui ha appena assistito. E
chiede: «Ma, Firenze, che città è?». Silenzio. Ripete allora la domanda. Ancora silenzio.
Allora sbotta. Quasi la grida. Per la terza volta. A questo punto, solo a questo punto,
il cardinale di Spagna trova le parole per rispondere. Ma cincischia. Come se volesse
lasciarsi scivolare addosso la domanda. Pare sorvolare: cos’è Firenze? «è una buona città».
Tutto qui? Tutto qui. Per Bonifacio, queste parole suonano quasi come un insulto.
Questa superficialità lo irrita. La trova irridente. Perde le staffe. «Asino di uno
spagnolo», grida. «Non hai capito niente. Firenze non è solo una buona città. È la migliore del mondo. Un mondo retto dai Fiorentini. Che reggono noi. La
nostra curia. Le nostre finanze. E quelle del re di Francia, di Inghilterra, dell’imperatore.
E se su quattro elementi – terra, aria, fuoco e acqua – si regge l’universo, da oggi
aggiungetene un quinto. I Fiorentini».
Questa la storia. Se sia vera o falsa, difficile dirlo. Un grande storico come Arsenio
Frugoni su di essa ha sollevato tanti dubbi2. Considerazioni che diventano quasi macigni se si osserva che un cronista attento
come Villani non faccia alcun cenno all’episodio, nonostante dedichi molte pagine
al giubileo. Allora, è un falso? Anche questo non sembrerebbe vero: basta leggere
i nomi degli ambasciatori per accorgersi di come corrispondano a personaggi davvero
esistiti, e tutti di spicco. Diciamo allora che questo racconto, più che vero, appare
verosimile. Poi, vero o falso che sia, attendibile o meno, ha comunque un significato
che trascende la sua verosimiglianza. Perché emana un fascino da paura. L’alone profondo
di una potenza che si dispiega. Del ruolo internazionale di una città, ormai consolidato
dai fatti e nei fatti. E non posso che condividere le parole di Claudia Tripodi. Per
lei, di questa incredibile storia «resta il dato della testimonianza di una vicenda
che – poco importa se verosimile o veritiera – doveva avere avuto un forte peso già
al momento della sua nascita nella costruzione di un’identità. Questa identità che
raggruppava al suo interno uomini capaci e ambiziosi, cavalieri, uomini di potere,
talenti della finanza, e si manifestava nel rendersi riconoscibile entro spazi sempre
più vasti»3. Gli ambasciatori non possono che essere Fiorentini, in quanto essi sono i migliori
rappresentanti del nuovo che avanza. Grazie al know-how, agli strumenti di cui dispongono. Alla loro razionalità. Alle loro competenze e
alla loro rinnovata visione della società. Alla loro arte di dominare gli spazi, i
mercati, le cancellerie. Alla capacità di erogare nuovi servizi, di cui tanti sentono
il bisogno, soprattutto le finanze statali in formazione. Gente che si propone come
il passepartout per penetrare nelle più recondite camere dei segreti, fatte di registri, brogliacci,
carte, libri di conto, lettere, cambiali, interessi, tassi di sconto... Uomini che,
con la loro opera, come novelli incantatori, lasciano intravedere – a chi li ascolta,
a chi si fida – le più minute sottigliezze che sono alla base di ogni fortuna, economica,
militare o politica che sia. Abili nell’orientare le loro scelte, le loro decisioni.
Nell’indirizzarli nelle strategie. Per il presente come per il futuro.
Davanti al papa, allora, dodici ambasciatori. Dodici apostoli di una città on the wave. Fra i quali, manco a dirlo, al primo posto ci sono dei banchieri. Ciampolo di Guido dei Franzesi, l’ambasciatore per il re di Francia, è lo stesso banchiere-usuraio
senza scrupoli protagonista della novella del Decamerone di ser Ciappelletto. Per l’imperatore, arriva Vermiglio Alfani, legato da molteplici
affari con il vicario di Rodolfo d’Asburgo, con Adolfo di Nassau e con Alberto d’Austria.
Bernardo del gruppo dei banchieri Cerchi viene inviato dai della Scala. Cino Diotesalvi,
ambasciatore per i signori di Camerino, era un «grande e ricco uomo». Guido Talani,
in rappresentanza dei re di Napoli, apparteneva ad una delle famiglie più ricche della
zona di Santa Croce. Anche i cavalieri di Rodi si affidano ad un fiorentino: Bencivenni
di Folco Folchi, attivo come socio di una delle compagnie dei banchieri Peruzzi. Fino
al mercante Guicciardo Bastari, che aveva fatto, con il padre, fortuna presso il settimo
khan d’Armenia, di Georgia, di Persia, di Siria e di Mesopotamia: il potente Ghazan. Tanto
da rappresentarlo presso il papa e presso gli altri sovrani europei4.
Queste dodici pedine che sfilano davanti al pontefice sono significative. Emblematiche
di quell’enorme gioco internazionale, nel quale i Fiorentini si muovono con sempre
maggior destrezza. Anche perché dalla loro (e all’origine della immensa fortuna che
li contraddistingue) hanno qualcosa che gli altri non hanno e che invece è ben chiara
a papa Bonifacio VIII. La possibilità di gestire le finanze della Chiesa. Nel prossimo
capitolo si vedrà come questa posizione venne raggiunta. E come si svolse la lotta
che portò al predominio fiorentino.
1 Per una esauriente spiegazione critica e filologica dell’episodio del giubileo del
1300, cfr. C. Tripodi, I fiorentini “quinto elemento dell’universo”. L’utilizzazione encomiastica di una
tradizione/invenzione, in «Archivio Storico Italiano», 168/3 (2010), pp. 491-516.
2 A. Frugoni, Il giubileo di Bonifacio VIII, Roma-Bari 1999, pp. 111 ss.
3 Tripodi, I fiorentini cit., p. 503.
4 Su di loro, cfr. la schedatura ivi, pp. 504 ss.
II.
La parte della Chiesa
1. Banchieri alla Crociata
Il posto della Chiesa in questa storia è fondamentale, centrale, unico. È forte da sentir dire, ma è così: senza la Chiesa le banche non sarebbero mai nate. Perché la Chiesa ha bisogno, in questo Medioevo, delle banche. E del loro danaro. Per sostenersi. Per alimentare la propria struttura amministrativa e diffusa. Per consentire che le sue decime raccolte in ogni dove non si disperdano. Per difendersi. Per nutrirsi. Per promuovere le proprie battaglie, politiche, ideologiche, religiose. E allora se questa storia della banca deve avere un inizio, ebbene, che lo abbia. Non crediate però che tutto cominci nel silenzio di un caveau, dove l’unico rumore avvertibile è il clic-clac delle chiavi. Ma tra le urla di soldati. In mezzo alle tende di un esercito, tra la polvere e il calore. Nelle pieghe di una corte. Di una città. Ad Acri. Dove un re, un grande re, san Luigi IX di Francia, ha appena subito la sua più dura sconfitta, alla settima Crociata.
Che città è Acri, in questo momento, all’inizio degli anni Cinquanta del Duecento? E che storia aveva vissuto fino ad allora? Come si sa, dopo la prima Crociata, intorno al 1100, nel Levante si formano quattro regni latini. Per la prima volta, dopo secoli di invasioni da est verso ovest, questa inversione è il segno di una profonda trasformazione. Di un cambiamento ideologico e di mentalità nonché, naturalmente, di un mutamento politico e militare. Una nuova condizione geo-politica che va sottolineata, in quanto riveste un ruolo fondamentale per lo sviluppo di Acri. Specialmente in chiave economica, tra XII e XIII secolo.
La storia di questa città è tutta legata al mito della Crociata. Centro strategico di primaria importanza, conquistata dai Musulmani nel 638, Acri è situata nella baia di Haifa, ora parte dello stato di Israele, nella Galilea occidentale. I Crociati se ne impossessano nel 1104 e la incorporano al cosiddetto Regno di Gerusalemme. Rimane sotto controllo cristiano fino al 1187, quando la prende il sultano d’Egitto Saladino. Conquista assai breve: appena quattro anni. Nel 1191, infatti, nel corso della terza Crociata, è Riccardo Cuor di Leone che l’assedia e se ne impadronisce. Comincia allora il secondo periodo latino di Acri. Cento anni, dal 1191 al 1291, in cui la città raggiunge il suo apice, demografico ed economico. Il suo periodo di splendore1.
L’ascesa di Acri comincia nei primi vent’anni del regno latino, dunque intorno al 1120-1125. In questo periodo Tiro, che fino a quel momento è il maggior porto del Levante, resta sotto controllo musulmano, dei Fatimidi d’Egitto: fattore che le impedirà di usufruire della corrente di scambio che, intanto, tra Oriente ed Occidente, sta aumentando. E che fa proprio la fortuna di Acri. In breve, essa diventa il principale punto di sbarco per le truppe crociate e per l’invio di risorse. Il porto si presta. La sua logistica è eccezionale. I servizi che offre sono incomparabilmente migliori di quelli degli scali europei, sia per periodi di transito lunghi, quanto a breve e medio termine. Se già questo continuo flusso lascia intuire cosa possa significare per l’economia di una città in espansione, c’è un altro elemento che gioca in maniera decisiva in suo favore: Acri diventa il principale porto di ingresso per i pellegrini in viaggio per i luoghi santi. Chi arriva via mare dall’Europa – cioè la stragrande maggioranza – per visitare Betlemme, Nazareth e, in modo particolare, Gerusalemme, deve per forza transitare per Acri.
L’importanza della posizione di Acri viene intuita subito da chi il mercato lo conosce e lo pratica. Genovesi e Veneziani ottengono importanti privilegi per le loro rispettive colonie mercantili, in cambio del decisivo apporto navale, necessario a garantire il continuo feedback tra Europa e Medio Oriente. Le due comunità ottengono ognuna un quartiere e un numero notevole di concessioni e privilegi. Non solo di natura commerciale, ma giuridica e fiscale. Aspetti che garantiscono alle due colonie una posizione di sicuro vantaggio rispetto a tutte le altre2. Come ad esempio Pisa, che si muove al traino delle altre due, e, solo nel 1168, ottiene garanzie quasi del medesimo livello. Ma è alla comunità veneziana che bisogna guardare, dal momento che costruisce qui ad Acri grosse fortune. Ad esempio, alla famiglia Morosini, la quale crea due poli di interesse, uno qui, l’altro a Tripoli di Siria. Oppure, al mercante Marino da Canal, attivo nel porto armeno di Laiazzo, con un agente ad Acri e interessato a quanto avviene a Montpellier. Persino i Polo passano per Acri: il padre e lo zio di Marco ci si fermano in ritorno dalla Cina, nel 1269, in attesa di un trasporto per la città lagunare3.
È un paradosso, rimarcato con evidenza da David Jacoby4, ma è proprio la celebre sconfitta crociata di Hattin nel 1187 da parte di Saladino che segna il definitivo take off di Acri. Infatti, dopo la riconquista cristiana della città nel 1191 essa sostituisce Gerusalemme come capitale – religiosa e politica – del regno latino e diventa la sede preferita di residenza dell’élite locale. Il che significa maggiore smalto, slancio, apertura, gente, commercio e, naturalmente, giro di denaro. Man mano che cresce l’attività mercantile in città, proporzionalmente aumenta il numero dei suoi addetti. Si tratti di Pisani, Genovesi e Veneziani; si tratti di latini immigrati provenienti dalle zone interne della Siria; si tratti pure di commercianti mus...