Se ne sono andati, alla fine. Hanno scelto la campagna che sempre li chiamava al fine settimana. Hanno venduto tutto, a parte la casa davanti alla quale sei adesso, la cui chiave stai girando nella toppa, e si sono comprati il casolare di cui parlavano sempre. Sei stato a trovarli questa mattina. Hai preso la macchina, ferma davanti alla vecchia casa, e hai guidato attraverso mezza valle, superando borghi e capannoni, pievi e cimiteri e balze, tra cittadine sempre più disadorne e una vegetazione dal vigore che non ricordavi; sei passato davanti all’unico luogo che ancora attira gente in queste terre, che ancora alla sua gente dà lavoro, quel The Mall sede, officina e outlet di Prada, e hai continuato poi su, oltre le colline aspre intorno e fino a quelle dolci e gravide di vino in cui sono andati ad abitare. Gli abbracci consueti, il giro per il giardino, che è grande e senza recinto e ha anche una sua vigna, e il frutteto. Visto che roba? Qua metteremo i susini. Là, invece, c’è il noce... Sai che Vinicio ci ha portato le allodole... Qua è tutto come una volta... Hey Tod!
Tod?
Il nostro vicino. È simpatico, viene dal Massachusetts...
Camminate fino al cespuglio di uva spina. Senti che buona... Abbiamo piantato anche la mentuccia, e poi vogliamo fare anche le mandorle, come nell’albero che avevamo una volta... Sei stato a casa vecchia, no?
Certo, per prendere la macchina...
Vero. Che pensi di farci?
Con la macchina?
Con la casa.
Io?
Be’, è tua ora.
Credevo me l’aveste assegnata solo per le tasse.
Magari vuoi metterla in affitto, oppure proprio andarci a stare. Risparmieresti.
Rimettermi a fare il pendolare? Mmm...
Non sapevi cosa pensare lì, e non sapevi cosa pensare mentre rientravi, e si faceva sera, e attraversavi a ritroso quella provincia che, una volta presa distanza sufficiente dal verde scuro dei cipressi, da quello più chiaro delle vigne, dalla curva delle colline, perdeva carattere locale per divenire buona approssimazione regionale, nazionale, se non, nei legami tra piccoli e medi centri, nel rapporto tra popolazione e territorio, tra spazio e tempo e vita e storia, di una bella fetta di continente; una mappa che, foste stati in un gioco di ruolo (in un wargame no: in un wargame ci sarebbe passata truce la Linea Gotica), si sarebbe riassunta in tre, quattro puntini per i paesi, due quadratini per i capoluoghi, una linea per il fiume da cui nasce la valle e magari un paio di triangoli per la torre e il castello che ne abbadano le campagne, semplici ruderi che in un gioco avrebbero avuto ben altro rilievo, sedi di guarnigioni se non di maghi, veridiche Isengard della valle sull’Arno, vigili nel giorno che ormai cede al crepuscolo...
Giri la chiave, la casa ti appare serena e plumbea allo stesso tempo. La casa dell’infanzia, ma prima la casa dei tuoi genitori, e dei nonni. Anche quella cameretta, intatta rispetto all’adolescenza e al suo prolungarsi, può davvero dirsi tua? Di pelli ne hai lasciate, per strada: ora è la camera di qualcuno con cui hai una confidenza imbarazzata, che quasi vorresti minore. C’è solo un posto, qui, che ti appartiene ancora.
Scendi. Due giri di scale. La stanza è sottoterra. Ha tre finestrelle, ma tutte hanno gli avvolgibili tirati. Solo l’ultima imposta, per via dello sfasamento di due liste, lascia entrare un ago chiaro, sufficiente a suggerire l’esistenza del mondo fuori, ma niente di più. A tastoni accendi la luce. La stanza compare alla vista. Era un garage, una volta: quando eri piccolo, tuo padre portava la macchina buona fin dentro, mentre quella di tua madre la ficcava nel cortiletto davanti al portone. Riuscire a portare le auto dentro senza raschiare la fiancata era prova di abilità e maturità, ma quando cominciasti a farlo davvero avevate già preso a mettere quella di tuo padre in cortile e quella di tua madre nella rampa. Poi entrambe in rampa. Poi entrambe fuori. Non erano più così pregiate, e gli anni ottanta, anni di eroina e cascami di lotta armata e rapine (nell’83 si fotterono la Mini della mamma e ce ne fecero una alle Poste; la ritrovaste tre paesi più in là, il tuo mitra giocattolo, sul sedile dietro, spaccato a mezzo), erano finiti. La stanza diventò un misto fra deposito e laboratorio, garage solo per le bici, ecco lì a impolverarsi la tua mountain bike di carbonio... Sempre così: ti buttavi su qualcosa, diventavi bravino, compravi l’equipaggiamento serio, ti passava la voglia. Là c’è anche la Burton, la dovresti vendere, una tavola come quella due lire le vale... Lo skate... Le bombolette per i graffiti... La muta da sub... La scatola da scarpe con dentro i mazzi di Magic... Da qualche parte ci sarà pure quella con le scarpette per il free climbing... In quella là di legno, in mezzo agli scatoloni con i tuoi vecchi giocattoli, c’è la scacchiera coi pezzi Dubrovnik di acero e noce... Imparavi, crescevi, acquistavi, smollavi. Di tante passioni, hobby, passatempi, solo uno è rimasto, negli anni, facendoti accumulare manuali, mappe, moduli – eccone i segni, ovunque intorno. Alcuni ovvi, come il barattolo pieno di matite o i dadi raccolti a decine in un’insalatiera (c’è pure un pacchetto di Chesterfield, deve averlo dimenticato il Paride chissà quanto tempo fa); altri incomprensibili, come i “cartelli” affissi alle pareti, fogli con scritte cubitali e farneticanti: PORTATE FUORI IL CADAVERE PEZZENTE; VI MANDEREMO DAL DAIMYO DEL LOTO! MA... COL PERMESSINO?; GIOVANNI PAOLOZZO; LA... COMPLETA VERITÀ?;... Nient’altro che ipse dixit, le frasi più memorabili pronunciate da qualcuno durante il gioco ed eternizzate, ma quanto può essere incomunicabile tale patrimonio volatile di ricordi?
Le mappe, almeno, hanno un significato per se. Disegnate su cartoncino, più grandi e pesanti dei cartelli, dopo un po’ si staccavano dal muro, e infatti ne sono rimaste solo tre. Quella di Secoli bui, un’annata in stile Brancaleone: vi scorgi le Grotte dello Sgomento e le Langhe della Miseria, il lago Calisco e quello Vetulo, la Cripta di San Rovo e la Foresta di Perdivia, e ancora castelli e villaggi che paiono la trasfigurazione, vivida, vitale, delle vostre frazioni tutte intorno, Pernaia, Grovine, Sant’Ermo come Meleto, San Gusmè, Piantravigne... Accanto, la carta del Mondo delle fiabe, un’ambientazione tra Wonderland, Oz e i fratelli Grimm... Il fantasy chiede la mappa più degli altri generi, ogni anno alternavate con la fantascienza ma la città del futuro è troppo enorme per essere mappata, e il mondo, fatto di collegamenti aerei e AV, non ha più ragione di essere descritto così (cosa c’è, del resto, tra Night City e Nuova Salem? Sterpaglie, viadotti, discariche, al massimo un rave...), e ancor meno avrebbe senso per una galassia: la realtà, quando ti sposti in astronave, è ciò che sta tra un balzo warp e l’altro... Anche la terza mappa, infatti, è fantasy. Una delle più strutturate, per la vostra più grande e lunga campagna: un mondo piatto, a due facce, circondato e definito da un Oroboros, denso di tutti i riferimenti mitici ed esoterici che avevi da spendere. Ecco il Jotunheim e l’Æsir, il palazzo di Solimano il Magnifico e la ziggurat del Serpente Piumato; ecco l’Irmingsul e il Ponte Arcobaleno (questo viene da Topolino e la Spada di Ghiaccio, però) e ancora Agarthi, Thule, l’Abbazia di Thélema, e, in mezzo al lago centrale, l’Isola Tabù. Potranno mai i personaggi non andare all’Isola Tabù?
Giri per il mondo, hai la mappa del mondo. Entri in una città, un quadratino nero sulla mappa del mondo, ed ecco da lì aprirsi una mappa della città. Fai uno scontro in una taverna, e subito si disegna la mappa di quello stanzone, tavoli e sedie e banco, per permettere posizionamenti e spostamenti tattici. Qualunque quadratino bianco, qualunque dungeon, è sempre pronto a dipanarsi in dedalo, in formicaio di mostri e trappole, cunicoli oscuri e sale mirabolanti. Se la parola crea il mondo, la mappa circoscrive il possibile, l’area specifica delle vertigini: ogni bosco può nascondere una strega, ogni villaggio adoratori del demonio, ogni pozzo, grotta...