II. Madri sole, «figli della vergogna»
Il 27 febbraio 1945 il ministero dell’Interno invia a tutte le procure e agli uffici di stato civile una circolare sulla definizione del «cognome e [della] cittadinanza [per i] figli illegittimi nati dall’unione naturale di donne nubili italiane con cittadini germanici». Si stabilisce così, in poche righe, che negli atti di nascita sia «imposto al neonato il cognome della madre, anche se il padre abbia proceduto al riconoscimento del figlio naturale nell’atto di nascita».
Sul destino delle ragazze madri, che hanno commesso il ‘crimine’ d’innamorarsi del soldato nemico, non pesa soltanto la condanna sociale di paesi, città e villaggi d’origine. È infatti la legge della nuova Italia liberata a far scontare ai nati dagli «amori di guerra» il peso di un conflitto e di una colpa che non appartengono per nulla alla loro storia. O che perlomeno non dovrebbero influenzarne la crescita.
Per il secondo governo presieduto da Ivanoe Bonomi, che è anche promotore del decreto, cancellare per sempre la paternità del «nemico tedesco» significa rendere più accettabili quegli incontri di vite che le donne italiane hanno scelto tra macerie e distruzioni, fra timori e speranze vissuti in guerra. Si tratta certo di un atteggiamento pieno di pregiudizi reconditi e di tabù massificati, ben diverso da quello che viene riservato alle cosiddette «spose di guerra», ragazze italiane che hanno vissuto relazioni amorose con soldati inglesi o americani, sbarcati in Italia a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, fino al punto di seguirli negli Usa e in Gran Bretagna per poterli sposare, in una vera e propria «emigrazione sentimentale». Il riconoscimento di rispettabilità e d’onore di cui queste relazioni possono godere è dato dall’aver stabilito un legame profondissimo, di sangue, col «vincitore», che è tale anche fisicamente.
Le italiane, del resto, non sono insensibili al fascino dei «guerrieri» venuti da oltre Atlantico: militari, molto spesso di origine italiana, arruolati nello Us Army e inviati a combattere nella penisola, che arrivano sulle loro jeep ben nutriti e sorridenti, con le divise pulite e cibo da distribuire alla popolazione. A destare una certa eco nella stampa dell’epoca è non a caso la relazione, poi sfociata nel matrimonio, dell’ammiraglio Ellery Wheeler Stone, capo della Commissione alleata di controllo, con Renata Arborio Mella, un’ausiliaria italiana che l’ufficiale conosce a Roma nel 1944 e che ha trent’anni meno di lui. Il loro incontro ha dimostrato, ancora una volta, che la guerra non è stata solo terrore, abuso e violenza, perché nei giorni del conflitto vi sono stati anche momenti di gioia e persino di leggerezza. Momenti ispirati da una nuova voglia di vivere, che ha permesso di sopportare con spirito diverso l’oppressione e il senso di fine.
Ma tutto questo non può valere per le donne che hanno partorito i «figli del nemico»: bambine e bambini ai quali verrà nascosta per sempre la verità sul loro padre biologico.
Ada è una delle donne italiane su cui pesano l’ostilità e la condanna della gente. Rimasta vedova giovanissima e con due figli piccoli, si è messa a fare qualsiasi lavoro, rinunciando completamente a se stessa, e per questo è rispettata da tutti gli abitanti di Sulmona, il suo paesino d’origine. Stretta tra «due fuochi», tra le stragi dei tedeschi che controllano il territorio e i bombardamenti alleati, che finiscono per colpire quasi sempre il «bersaglio strategico» della popolazione civile, Ada resiste al mondo della guerra che sembra farle crollare addosso ogni certezza. Ma la donna non si scoraggia. È fiera, orgogliosa, non si vergogna di fare lavori umili e di vivere in condizioni di ristrettezza, anche se la sua vita procede tra mille difficoltà: non ultima, quella di non poter sfamare i suoi bambini. Insomma, è il ritratto della madre esemplare che accetta di vivere da sola, con i suoi pudori, i suoi sogni nascosti, imprigionata nel ruolo che la famiglia tradizionale le ha assegnato.
La vita sta però per riservarle una svolta inaspettata. In una giornata d’autunno dell’ottobre 1943 appare Helm, un soldato austriaco di venticinque anni con indosso l’uniforme della Wehrmacht, che dopo l’armistizio ha seguito le truppe tedesche sull’Appennino centrale, per attestarsi sulla linea Gustav.
Dopo l’iniziale timidezza e una certa diffidenza (dovuta anche al fatto che i due parlano lingue diverse e incomprensibili l’uno all’altra), Ada si lascia pian piano conquistare da quel giovane che per lei rappresenta, in qualche modo, la possibilità di riappropriarsi di se stessa, del suo essere donna, e anche della sua femminilità. Sa benissimo che si tratta di un amore impossibile, che sarà osteggiato da tutti. Eppure sente, in quel compendio di fuga e di astrazione dalla realtà della guerra, che solo rifugiandosi in quell’amore potrà ritrovare la propria salvezza.
Decide allora di rinunciare all’ipocrisia sociale che l’ha condannata a essere soltanto una brava madre e una «vedova» rispettabile e di tuffarsi in quell’avventura. Tra i due nasce un amore tenero e al tempo stesso intenso, fatto di messaggi silenziosi e di incontri appassionati. Ada e Helm finiscono per incarnare uno spazio, seppure minimo, di umana sopravvivenza: una sorta di spazio metafisico in cui l’umanità può trovare ancora una speranza nel futuro. Al di là dello scandalo, la tenacia e la forza di quest’amore, che tutti considerano indecoroso e sbagliato, fanno sì che Ada non tema di andare incontro ai pregiudizi e alla comune condanna; in una sorta di ribellione allo stigma dell’infamia che in pochissimo tempo l’ha trasformata da moglie esemplare in «puttana del tedesco».
Non tutte però hanno il coraggio di Ada. Nell’universo delle donne sole, condannate dalla comunità e dallo Stato, c’è anche chi non se la sente di tenere con sé il «frutto della colpa». È ciò che fa la madre di Alberto, un bambino venuto alla luce nel reparto maternità dell’ospedale dell’Aquila pochi giorni prima della liberazione della città. Lo chiamano il tedeschino, perché è uno dei tanti «figli della guerra», e per di più nato da una donna che si è «concessa allo straniero». Poco importa che quella relazione non abbia avuto origine dall’interesse ma «dall’intenso amore che nutriva per il biondo soldato alemanno». Dopo aver allattato il bambino per alcuni giorni, soffrendo «l’ansia della madre nubile, afflitta dalla partenza improvvisa dell’amato», e temendo di essere punita dagli alleati che stanno arrivando in città, visto che da tutti è conosciuta come «l’amante del tedesco», la donna decide di abbandonare il piccolo Alberto e lo consegna all’ostetrica di turno in ospedale. Da quel momento perderà ogni traccia di quel figlio, serbandone per sempre un sordo e sofferto ricordo.
La sua, ovviamente, non è una storia isolata, perché sono diverse migliaia le «madri nubili» che, dopo aver messo al mondo i loro figli (nella maggior parte dei casi abbandonati subito dopo la nascita, senza che vi sia alcun contatto umano), sembrano destinate a rimanere in uno stato d’incuria e d’abbandono. Per le donne che decidono di tenere con sé la propria creatura vi è poi l’aggravio di dover badare da sole a quei «figli della vergogna», considerati da sempre frutto di «adulterio, impudicizia o libertinaggio».
Come già accade da qualche secolo, le cosiddette «madri degli esposti» (cioè dei figli abbandonati nei brefotrofi senza che sia rivelata l’identità della madre) non hanno infatti alcun diritto a rivendicare la ricerca della paternità dei bambini che mettono al mondo.
Il codice Pisanelli del 1865 – il primo codice civile adottato nel Regno d’Italia, ispiratosi a quello napoleonico – non ammette alcuna ricerca sul padre del bambino, a meno che non si tratti di «casi di ratto o di stupro violento, quando il tempo di essi rispond[a] a quello del concepimento» (art. 189). Il regio decreto del 15 novembre 1865 sull’ordinamento dello stato civile ha inoltre vietato la ricerca del nome della madre che al momento del parto ha volutamente rifiutato di indicare le proprie generalità sull’atto di nascita del figlio. Per tutte le altre donne che hanno deciso di lasciare in affidamento i propri piccoli ai brefotrofi è tuttavia ammesso l’accertamento dell’identità, in modo che sia possibile rintracciarle e quindi garantire al bambino perlomeno la presenza di un genitore (art. 190).
È quindi evidente come la norma risponda alla necessità di preservare anzitutto la «sanità e il decoro della famiglia», tutelando in primis gli uomini che hanno avuto relazioni extraconiugali e quindi figli nati fuori dal matrimonio.
Il pregiudizio della società italiana dell’epoca vuole, in sostanza, che la nascita di un bambino illegittimo sia un evento sommamente disonorevole, da cui la donna caduta in errore può riscattarsi soltanto con la separazione definitiva dal «frutto della colpa». Certo, esistono eccezioni a questo comportamento, ma sono tutte conseguenza di decisioni discrezionali prese dalle singole malcapitate. Il caso di Regina Terruzzi, che suscitò non poco scandalo sulla stampa nell’autunno del 1906, ha del resto ben mostrato quale sia la condanna sociale inflitta alle «madri degli illegittimi». La donna, militante del Partito socialista e amica di Filippo Turati, aveva svolto il suo incarico d’insegnante con grande passione, finché non si era accorta d’essere rimasta incinta dell’uomo con cui aveva da tempo una relazione clandestina. Pur essendo consapevole delle conseguenze a cui sarebbe andata incontro, aveva deciso di riconoscere quel bambino come «suo figlio». Ma all’epoca la rimozione dal suo posto di lavoro, per ragioni di decoro, non aveva avuto altro effetto che l’inizio di una vera e propria battaglia di opinione.
Ancora nel secondo dopoguerra, così com’era avvenuto nel 1914-18, il concetto di assistenza all’infanzia pare limitato ai figli legittimi di coppie sposate, sebbene il problema degli illegittimi esploda violentemente come questione sociale di prim’ordine proprio con la liberazione dell’Italia dalle forze occupanti tedesche.
Nella mentalità e nella cultura del tempo...