Prima di Piazza Fontana
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Prima di Piazza Fontana

La prova generale

Paolo Morando

  1. 384 pagine
  2. Italian
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Prima di Piazza Fontana

La prova generale

Paolo Morando

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Informazioni sul libro

Una piccola storia ignobile della giustizia italiana, subito cancellata e rimossa. La prova generale della strategia della tensione. A cinquant'anni dai fatti, un libro-inchiesta, degno erede dei lavori di Corrado Stajano e di Camilla Cederna, rivela le verità nascoste di uno dei momenti chiave della storia repubblicana.

Milano, 25 aprile 1969: due ordigni scoppiano alla Fiera campionaria e all'Ufficio cambi della Banca Nazionale delle Comunicazioni della Stazione centrale, provocando una ventina di feriti. È il primo atto della campagna di attentati che pochi mesi dopo porterà a Piazza Fontana. L'Ufficio politico della questura, fin dalle prime ore, punta verso gli anarchici. A condurre le indagini sono il commissario Luigi Calabresi e i suoi uomini, gli stessi che si troveranno nel suo ufficio la notte della morte di Giuseppe Pinelli, nome che nell'inchiesta spunterà di continuo, come quello di Pietro Valpreda, che già qui si profila come futuro capro espiatorio. Nel giro di pochi giorni vengono arrestati tre giovani (e altrettanti nelle settimane successive) e una coppia di noti anarchici milanesi, amici dell'editore Giangiacomo Feltrinelli, che pure verrà rinviato a giudizio assieme alla moglie. Due anni dopo, con un colpo di scena dietro l'altro, il processo chiarirà le dimensioni della macchinazione anti-anarchica innescata da quegli attentati. Una vicenda determinante per comprendere fino in fondo i misteri di Piazza Fontana. Un racconto serrato di una pagina nera per la giustizia italiana, da allora totalmente rimossa dalla memoria, che assume nuova luce grazie alla scoperta di documenti fin qui inediti.

Premio FiuggiStoria Anniversari 2019

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Informazioni

Anno
2021
ISBN
9788858147214
Argomento
Economia

Il processo

È lunedì 22 marzo 1971: davanti alla seconda Corte d’assise di Milano si apre il processo ai giovani in carcere, chi da quasi due anni (Braschi, Della Savia, Faccioli) e chi da un anno e mezzo (Pulsinelli, Norscia e Mazzanti). La data è quella evocata dal circolo di Valpreda e Merlino: anche il caso si diverte a legare tra loro le vicende giudiziarie del 25 aprile e di Piazza Fontana. I sei detenuti fanno il loro ingresso in aula alle 10, salutati a pugno chiuso dal pubblico. Manca invece la coppia Feltrinelli-Melega: l’editore fa pervenire al presidente Paolo Curatolo una lettera, spedita il 15 marzo da Parigi, in cui dichiara di considerare la propria presenza superflua, perché «non posso che confermare le mie dichiarazioni fatte al giudice istruttore». Tutti notano la composizione della Corte: assieme a Curatolo e al giudice a latere Roberto Danzi, dei sei giudici popolari ben cinque sono donne. Il pubblico ministero è Antonino Scopelliti, 36 anni, destinato a una straordinaria carriera e a una morte tragica. L’indicazione degli avvocati da parte degli imputati riserva qualche sorpresa: Braschi ha infatti revocato l’incarico ai suoi legali dell’istruttoria, Luca Boneschi e Marco Janni, sostituiti da Francesco Piscopo e Andrea Malagugini, deputato del Pci, che nel corso del dibattimento lascerà poi il posto a Eduardo Di Giovanni, coautore dell’inchiesta La strage di Stato. Per Pulsinelli, Raffaele Salinari è affiancato da Giuliano Spazzali. Confermati invece per Della Savia Giuseppe Duminuco e lo stesso Salinari (che poi sarà sostituito ancora da Spazzali), William Barchi e Sergio Ramajoli per Faccioli, Massimo Dinelli per Norscia e Mazzanti, quest’ultima patrocinata anche da Leonida Fasanelli. Feltrinelli e la moglie Melega sono invece difesi da Sandro Canestrini, Valerio Mazzola e Vittorio D’Aiello (che verso fine processo però si ritirerà). Molti di loro sono attivi in Soccorso rosso, avvocati militanti della sinistra extraparlamentare.
Dopo la costituzione delle parti, serve più di un’ora per la lettura dei capi d’imputazione. E qui scocca la prima scintilla. Della Savia si accende una sigaretta, un carabiniere gli intima di spegnerla, il giovane non fa una piega. Poi il battibecco con il presidente Curatolo: «Che fa, fuma? La smetta, non è consentito fumare durante l’udienza! Non siamo al cinema!». Della Savia: «E io non sono un pagliaccio!». Curatolo: «Come ha detto?». Danzi: «Ha detto pagliacci». Curatolo: «Vada fuori e impari l’educazione!». Della Savia: «Io mica imparo l’educazione borghese, provi lei piuttosto a imparare l’educazione proletaria». Ed esce tra gli applausi, per poi rientrare al termine della lettura delle accuse. Curatolo aggiorna quindi i lavori alle 9 del giorno dopo, accogliendo la richiesta degli avvocati di poter partecipare allo sciopero di categoria proclamato proprio per quel giorno. I giudici si apprestano ad abbandonare l’aula, quando improvvisamente avviene qualcosa che mai finora si era visto in alcun tribunale italiano.
Ancora Della Savia sfugge alla vigilanza dei carabinieri, sale sull’ultimo gradino del “gabbione” e srotola quello che sembra un pezzo di lenzuolo con la scritta «1871 1971 Viva La Comune di Parigi». La foto sulla copertina del numero di aprile del mensile «Re Nudo», allora “bibbia” della controcultura italiana, lo immortala mentre imbraccia quella specie di panno, al suo fianco Paolo Faccioli con il braccio destro levato in alto a pugno chiuso, sotto gli occhi di tre carabinieri immobili ritratti di spalle, mentre un quarto cerca di strappargli di mano il lenzuolo. Che tale non è: si tratta infatti di una camicia. Se la ritroverà tra le mani 45 anni dopo la loro coimputata Clara Mazzanti, salita dalla Toscana a Milano per consultare gli atti del processo: eccola lì, ripiegata in uno dei dodici faldoni conservati all’Archivio di Stato, «una camicia Terital Rhodiatoce – scrive – in voga all’epoca e di ottime finiture, tagliata orizzontalmente a metà, mantenendo i bottoni, quindi cucita in modo da diventare un lungo rettangolo, su cui campeggiava la scritta». In altre foto della medesima sequenza, anche di Braschi e Pulsinelli compaiono i pugni chiusi al cielo. Entrambi con un vistoso fazzoletto rosso al collo, Della Savia e Faccioli in quei concitati secondi riescono a gridare «Viva la Comune di Parigi», a scandire lo slogan «Giustizia proletaria», a urlare alla Corte «Buffoni, buffoni», e con loro il pubblico. Che in gran parte è composto da anarchici. Fin dalla mattina palazzo di giustizia è in stato d’assedio: tutti gli ingressi sono presidiati da polizia e carabinieri, in contatto continuo attraverso walkie-talkie con l’aula del processo. Per non parlare dei tanti agenti in borghese e dei lunghissimi controlli di giacche, sacche e borsette all’ingresso. D’altra parte dopo le bombe del 25 aprile, dopo quelle di agosto sui treni, dopo Piazza Fontana, e Pinelli, e Valpreda, dopo quasi due anni di anarchici alla gogna, quella mattina poteva forse mancare la psicosi bomba?
In un clima del genere, si capisce perché alla vigilia del processo giri un volantino ciclostilato in 20 mila copie dagli anarchici milanesi, in difesa dei compagni e in cui si accusa «il capitale come unico mandante di ogni strage», sostenendo che «gli attentati sono stati compiuti dai fascisti». In piazzale Aquileia, davanti a San Vittore, da una quindicina di giorni è eretta una tenda dove sempre gli anarchici manifestano la loro solidarietà ai sei detenuti. Mentre il sabato prima del processo, con l’autorizzazione della questura, un corteo di libertari giunti anche da altre città fa più volte il giro del carcere. E tutto questo al netto delle polemiche che investono i magistrati chiamati a giudicare gli imputati: il presidente Curatolo e il giudice Danzi sono infatti gli stessi che l’anno prima hanno condannato Piergiorgio Bellocchio per apologia di reato in qualità di direttore di «Lotta Continua», per un articolo di sostegno alle lotte operaie, mentre il pm Antonino Scopelliti, nota «l’Unità», «è lo stesso che ignorò le torture dei carabinieri di Bergamo». Vicenda, questa, che spiega bene come a volte andassero le cose, allora, in caserme e questure durante gli interrogatori. In Tribunale, giusto qualche mese prima del processo agli anarchici, si apprende di percosse, bastonate, privazione del sonno e del cibo, cani lupo aizzati alla maniera delle SS, piedi pestati, interrogatori in locali gelidi con gli imputati nudi, mazzate sugli stinchi, stiramento dei genitali: così i carabinieri del gruppo di Bergamo ottengono le confessioni di 23 persone, poi tutte risultate innocenti, accusate di far parte della “Banda del lunedì”, autrice di numerose rapine nel Milanese e nel Comasco tra 1963 e ’64. Scopelliti c’entra, perché è lui il magistrato che li interroga dopo i carabinieri. E in più casi gli interrogati rivelano le sevizie subite. Perché quelle confessioni?, viene chiesto in Tribunale a uno degli accusati. Risposta: «Avrei confessato anche di avere ucciso Kennedy per quel che mi era stato fatto e quel che potevano ancora farmi».

1. «Processo a porte chiuse»

Gli anarchici vengono giudicati dalla seconda sezione della Corte d’assise perché la prima, da quando in precedenza ha assolto un antimilitarista, non riceve più processi politici. E la ragione sta nella protesta dei magistrati che la compongono nei confronti della polizia, che pretende di conoscere i loro nomi, cognomi e indirizzi. Protesta peraltro lasciata cadere dal Consiglio superiore della magistratura. Mentre in appello per il giovane antimilitarista la condanna era arrivata poi puntuale.
Che il processo sia destinato a diventare un processo show ante litteram lo dimostra anche la seconda udienza di martedì 23 marzo. Che si apre con una dichiarazione che la dice lunga sul clima di quei giorni. Detta infatti a verbale il presidente Curatolo:
La Corte è la prima ad auspicare che questo delicatissimo processo si svolga, come tutti gli altri, alla luce del sole e cioè con le piene garanzie della pubblicità. Ho il dovere di avvertire imputati e pubblico, con decisione e fermezza, che non tollererò ulteriori intemperanze come quelle di ieri mattina e il ripetersi di qualsiasi manifestazione che possa turbare la serenità del dibattimento. I disturbatori saranno espulsi e il dibattimento potrebbe procedere a porte chiuse. Non costringetemi ad emettere questi provvedimenti: state calmi e in silenzio.
Per un po’ la tregua tiene, gli avvocati Duminuco e Ramajoli illustrano le loro istanze, parlano di nullità di vari atti compiuti durante l’istruttoria. Alle 11.30 Curatolo decide per una pausa di cinque minuti. E la tregua si rompe. Dal «Corriere della Sera»:
In mezzo al pubblico compare uno striscione rosso-nero (il Milan non c’entra, quei colori sono qui il simbolo dell’anarchia) e molte voci scandiscono in coro: «L’unica giustizia è quella proletaria». Fanno eco, tra gli imputati, il Della Savia, Pulsinelli, Faccioli e Braschi, che i carabinieri subito sospingono ruvidamente fuori dal recinto. Sopra le grida cadenzate del pubblico arriva la voce del presidente: «Tutti fuori, siete cacciati dall’aula. I carabinieri eseguano l’ordine». Il pubblico sfolla lentamente, si sente ancora gridare «Pinelli sarai vendicato». Queste ultime battute si spiegano perché, in quello stesso momento, alla prima sezione del tribunale, è in corso una udienza del processo che il commissario Lui­gi Calabresi ha intentato contro il direttore di Lotta Continua; un processo nato dal “caso” Pinelli. Espulsi dall’aula della Corte d’assise, una cinquantina di anarchici, guidati dagli immancabili Pasquale Valitutti e Jo Fallisi, si uniscono in corteo e cominciano una marcia all’interno del palazzo di Giustizia. Percorrono corridoi, salgono e scendono scale alternando i consueti ritornelli della nuova anarchia: «Solo il popolo può fare giustizia», «Le bombe le mette Saragat», «Borghesia assassina», «È giusto rubare», «Fuori tutti i delinquenti», «Siamo tutti delinquenti», «Fuoco alle aule». Il corteo passa davanti all’aula dove è in corso il processo Calabresi-Lotta Continua. Alcuni giovani si arrestano, vogliono entrare. Li affronta un funzionario di polizia: «Se volete entrare – dice il funzionario – state in silenzio e mostrate un documento». Quelli se ne vanno. Il corteo continua a vagolare, raggiunge l’atrio della Corte d’appello, al terzo piano, qualcuno spalanca i finestroni, si fa sventolare la bandiera anarchica. Dalle due scalinate laterali sopraggiungono i carabinieri e gli anarchici finalmente si sbandano: i giovani se la squagliano, a piccoli gruppi di due, tre elementi.
Ormai si è fatto mezzogiorno. Magistrati e giudici popolari rientrano in aula, come fanno solo due imputati, Norscia e Mazzanti: non gli altri, in solidarietà con il pubblico allontanato dall’aula. E tra lo stupore generale arriva l’ordinanza di prosecuzione del processo a porte chiuse: Curatolo autorizza a presenziare le sole persone «che hanno il diritto o il dovere di assistervi, compresi i rappresentanti della stampa». Ma gli avvocati insorgono. Il primo a prendere la parola è Canestrini, legale di Feltrinelli e Melega. È una voce importante: ex partigiano, difensore di parte civile al p...

Indice dei contenuti

  1. Perché questo libro
  2. Qualcosa di più di un prologo
  3. Gli attentati
  4. Gli arresti
  5. L’istruttoria
  6. Le bombe alla Rinascente
  7. Il processo
  8. Le sentenze
  9. Le testimonianze
  10. Spoon River
  11. Fonti e bibliografia
  12. Ringraziamenti