Albert Einstein
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Albert Einstein

Il costruttore di universi

  1. 192 pagine
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Albert Einstein

Il costruttore di universi

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La più avvincente introduzione alla vita e alle idee di un genio insofferente di ogni ortodossia.Giulio Giorello

Ci sono tanti Einstein. Il genio della teoria della relatività. Il pessimo padre che abbandona la figlia nata fuori del matrimonio. Lo stratega che consiglia al presidente degli Stati Uniti di costruire la bomba atomica. L'icona pop che mostra la lingua pedalando in bicicletta. Il farfallone amoroso che si concede innumerevoli avventure. Il profeta del disarmo e dei diritti umani. Tutti sono riuniti nel saggio di Barone con equilibrio, rigore e agile scrittura.Piero Bianucci, "Tuttolibri"

La letteratura su Einstein è sterminata. Ma è composta da testimonianze classiche, corpose biografie e studi sull'opera scientifica, la maggior parte dei quali sono difficilmente reperibili oggi. Ben venga dunque questo bel libro di Barone che ci riporta la figura, l'opera e la vita di uno degli eroi del nostro tempo, lo scienziato che ha innovato quanto nessun altro la visione del mondo trasmessa da Galileo e da Newton.Luciano Maiani, "Il Sole 24 Ore"

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Informazioni

Anno
2017
ISBN
9788858129050

1.
L’infanzia e la giovinezza

Albert Einstein nacque la mattina del 14 marzo 1879 a Ulm, una cittadina della Svevia, regione della Germania sudoccidentale abitata da una popolazione in prevalenza rurale, che parlava un curioso dialetto e si sentiva alquanto lontana, geograficamente e culturalmente, dal mondo prussiano del nord. Il padre, Hermann Einstein, era un piccolo uomo d’affari, di indole mite e contemplativa; la madre, Pauline Koch, di undici anni più giovane del marito, era una donna arguta e dotata di senso pratico, figlia di un ricco commerciante di granaglie.
Nel 1880 gli Einstein si trasferirono a Monaco di Baviera, dove vissero per quattordici anni, e dove, alla fine del 1881, nacque la loro secondogenita, Maria, detta Maja, che rimase sempre molto legata al fratello. Alla notizia dell’imminente nascita della sorellina, Albert immaginò che si trattasse di un nuovo giocattolo, cosicché quando la vide per la prima volta chiese alla mamma: “Dove sono le rotelline?”.
Einstein cominciò a parlare abbastanza tardi, dopo i due anni, il che fece temere ai familiari che avesse un deficit mentale (timore rafforzato dal fatto che era nato con un cranio insolitamente grosso e un po’ deforme). Aveva in effetti una certa difficoltà a esprimersi verbalmente, e anche quando superò questo problema mantenne per alcuni anni l’abitudine di ripetere tra sé e sé le frasi più volte. Sotto l’aspetto caratteriale, era piuttosto solitario e riflessivo: raramente partecipava ai giochi con gli altri bambini, preferendo stare in disparte a fantasticare o a costruire castelli di carte – uno dei suoi passatempi preferiti. Solitamente tranquillo, era di tanto in tanto soggetto a esplosioni di collera. A pagarne le conseguenze era la sorellina, che in un’occasione rimase ferita alla testa (rievocando l’episodio molti anni dopo, Maja dirà che “ci vuole un cranio solido per essere la sorella di un pensatore”).
A cinque anni, Albert ricevette in regalo dal padre una bussola. Questo strano oggetto, con il suo ago magnetico che si muoveva sotto l’azione di una forza misteriosa, lo impressionò profondamente e gli fece capire – sono parole sue – che “dietro alle cose doveva esserci un che di profondamente nascosto”. Da grande avrebbe ricordato spesso quell’evento, considerandolo emblematico della “meraviglia” da cui nasce la scienza e che si manifesta “quando un’esperienza entra in conflitto con un mondo di concetti già sufficientemente stabile in noi”. Forse non è un caso che il suo famoso lavoro sulla teoria della relatività del 1905 si apra proprio con l’esempio di un magnete in movimento.
Più o meno nello stesso periodo, su sollecitazione della madre, appassionata di musica e pianista dilettante, Einstein cominciò a studiare il violino. Quella che all’inizio gli apparve un’occupazione noiosa, divenne gradualmente, soprattutto dagli anni dell’adolescenza, una grande passione. Il violino fu per lui un inseparabile compagno (molte foto lo ritraggono mentre suona, o con la custodia dello strumento tra le mani, nei suoi numerosi viaggi) e una costante fonte di piacere e di serenità. Se ne serviva anche come efficace stimolo per il pensiero: quando sentiva di non venire a capo di qualche problema complicato, cercava rifugio nella musica e si metteva a suonare, anche a notte fonda.
Tra i compositori, Einstein ebbe sempre un’assoluta predilezione per Mozart. Giudicava invece Beethoven troppo drammatico e personale, Wagner decadente e addirittura “offensivo”. Nelle opere musicali apprezzava le stesse qualità che a suo giudizio caratterizzavano le grandi teorie fisiche: una struttura architettonica armoniosa, l’unità interna, il senso di intima necessità. Quando, all’apice della fama, gli chiesero se la musica avesse svolto un ruolo diretto nella sua attività scientifica, rispose: “La musica non influisce sulla ricerca, ma entrambe derivano dalla stessa fonte di ispirazione e si completano a vicenda nel senso di liberazione che ci procurano”. Sulla sua abilità di violinista i pareri sono discordi: se Elsa, la sua seconda moglie (il cui giudizio non era evidentemente imparziale), dichiarò di essersi innamorata di lui perché suonava magnificamente Mozart, una musicista che lo accompagnò al piano disse invece che “non aveva una grande capacità musicale”.
I genitori di Einstein erano entrambi ebrei non osservanti: non frequentavano la sinagoga, né seguivano le tradizionali norme religiose, e impartirono ai figli un’educazione non confessionale. La scelta stessa del nome Albert fu motivata da questo atteggiamento: il primogenito si sarebbe dovuto chiamare Abraham, come il nonno paterno, ma il nome sembrava troppo ebreo e fu quindi sostituito da Albert, che aveva la stessa iniziale.
Non essendoci una scuola ebraica vicino a casa, nel 1885, all’età di sei anni, Einstein venne mandato alla scuola cattolica del suo quartiere, la Petersschule, dove si trovò a essere l’unico studente ebreo. Nel 1888 cominciò a frequentare il ginnasio Luitpold, una scuola media di carattere prevalentemente umanistico ma aperta anche all’insegnamento della matematica e delle scienze. Il metodo didattico dominante era quello autoritario e militaresco, tipico delle scuole tedesche: gli insegnanti (veri e propri “marescialli e tenenti”) ricorrevano di frequente a punizioni corporali per inculcare negli allievi le nozioni scolastiche. Einstein mal tollerava questa situazione e fu spesso sottoposto a provvedimenti disciplinari. “Il sistema peggiore nella scuola – avrebbe detto in seguito – mi sembra quello che fa leva sulla paura, sulla forza e sulla falsa autorità. Un tale trattamento distrugge i sentimenti sani, la sincerità e la fiducia in se stesso dell’allievo”. La scuola, al contrario, dovrebbe porsi come obiettivo “la formazione di individui che agiscano e pensino liberamente, pur vedendo nel servizio della comunità il compito più alto della loro vita”.
Negli anni tra la Petersschule e il Luitpold, Einstein attraversò l’unico periodo di fervore religioso della sua vita. Per qualche tempo aderì con convinzione e rigore a tutti i precetti della religione ebraica: non mangiava carne di maiale, riposava il sabato, componeva inni in lode di Dio. Questo periodo si concluse attorno ai dodici anni, prima del bar mitzvah, con la scoperta della scienza: la lettura dei primi libri scientifici gli fece capire che i racconti dei testi sacri non potevano essere veri. Da allora fu sempre disinteressato alle religioni tradizionali (salvo riscoprire, negli anni della maturità, l’ebraismo come elemento identitario) e divenne – come scrisse nelle note autobiografiche del 1949 – un “accesissimo sostenitore del libero pensiero”. Cominciò inoltre a coltivare “un atteggiamento di sospetto contro ogni genere di autorità, e di scetticismo verso le convenzioni particolari dei diversi ambienti sociali”. Il “paradiso religioso” dell’infanzia era stato il suo primo tentativo di liberarsi “dalle catene del ‘puramente personale’, da un’esistenza dominata solo dai desideri, dalle speranze, e da sentimenti primitivi”. La scienza gli aveva offerto un paradiso alternativo, quello della contemplazione del mondo: “Fuori c’era questo enorme mondo, che esiste indipendentemente da noi, esseri umani, e che ci sta di fronte come un grande, eterno enigma, accessibile solo parzialmente alla nostra osservazione e al nostro pensiero. Il possesso intellettuale di questo mondo extrapersonale mi balenò alla mente, in modo più o meno consapevole, come la meta più alta fra quelle concesse all’uomo. Gli amici che non si potevano perdere erano gli uomini del presente e del passato che avevano avuto la stessa meta, con i profondi orizzonti che avevano saputo dischiudere. La strada verso questo paradiso non era così comoda e allettante come quella del paradiso religioso; ma si è dimostrata una strada sicura, e non ho mai più rimpianto di averla scelta”.
Tra le innumerevoli leggende fiorite attorno alla figura di Einstein c’è quella secondo cui, da ragazzo, egli sarebbe stato rimandato in matematica. La leggenda è falsa: i suoi voti nelle materie scientifiche erano eccellenti, ed erano buoni anche quelli nelle discipline più mnemoniche, come il latino e il greco, che non amava (l’insegnante di greco gli disse davanti ai compagni che non avrebbe mai combinato nulla di buono nella vita – guadagnandosi così un posto d’onore nella storia delle profezie sbagliate). Le sue conoscenze matematiche travalicavano ampiamente i programmi del ginnasio. Aveva cominciato presto a studiare algebra e geometria per proprio conto, con l’aiuto soprattutto dello zio Jakob, ingegnere elettrico, che svolse un ruolo di primo piano nella sua educazione. Jakob Einstein guidò il nipote alla scoperta delle bellezze della matematica, facendogli apprezzare il fascino di certi concetti e mettendolo spesso alla prova con quesiti e problemi stimolanti. Un giorno gli parlò del teorema di Pitagora, e Albert ne scoprì da solo una dimostrazione ingegnosa, basata sulla similitudine dei triangoli, totalmente diversa da quelle tradizionali dei libri di testo. “Colui che nella prima giovinezza non ha provato entusiasmo davanti alla geometria euclidea – dirà Einstein in una conferenza sul metodo della fisica nel 1933 – non è nato per fare lo scienziato teorico”.
Un altro importante mentore di Albert fu uno studente ebreo di medicina, Max Talmud (poi Talmey), che frequentava regolarmente la casa degli Einstein. Talmud ampliò gli interessi culturali del suo giovane amico, invitandolo tra l’altro a leggere Kant (che rimase uno dei punti di riferimento filosofici di Einstein) e raccomandandogli numerosi testi scientifici, tra i quali una serie di volumetti di scienza popolare scritti da un certo Aaron Bernstein, che offrivano un panorama completo della fisica e della biologia, fino alle scoperte più recenti, con un particolare accento sull’unità dei fenomeni naturali. Bernstein, tra l’altro, invitava i lettori a immaginarsi su un treno in corsa, o a cavallo di un segnale elettrico, ed è forse possibile ricondurre anche a questi espedienti divulgativi la predilezione per gli esperimenti concettuali che caratterizzò sempre lo stile scientifico di Einstein (i treni in movimento abbonderanno nella sua relatività e i segnali elettrici saranno sostituiti dai raggi di luce).
A Monaco di Baviera, Hermann Einstein aveva avviato, assieme al più energico e intraprendente Jakob, autore di numerosi brevetti, un’impresa per la produzione di dinamo elettriche e lampade ad arco. L’elettricità rappresentava la tecnologia di punta dell’epoca, e per alcuni anni gli affari dei fratelli Einstein andarono a gonfie vele. L’azienda, che contava duecento dipendenti, riuscì ad aggiudicarsi vari appalti per l’illuminazione cittadina, compreso quello per l’Oktoberfest. Ma nel 1894 la fortuna cambiò verso: le commesse vennero a mancare e la società fallì. La famiglia Einstein decise quindi di lasciare Monaco per l’Italia, dove le prospettive sembravano migliori. A Milano, Hermann e Jakob fondarono una nuova ditta di impianti elettrici, assieme a un socio torinese, l’ingegnere Lorenzo Garrone. Per i primi mesi, gli Einstein (a eccezione di Albert che rimase a Monaco per proseguire gli studi) risiedettero nel capoluogo lombardo (in via Berchet 2), poi nel 1895 si spostarono a Pavia, dove era collocata la loro fabbrica, alloggiando in un appartamento che era stato la dimora di Ugo Foscolo. Ma anche questa avventura imprenditoriale (nonostante i successi iniziali, con gli appalti per gli impianti di illuminazione di alcune città dell’Italia settentrionale, tra cui Susa e Varese) fu sfortunata e nel 1896 la Einstein, Garrone & C. dovette chiudere. Mentre Jakob decise di abbandonare le attività in proprio e divenne direttore tecnico di un’importante azienda tedesca che operava anche in Italia (e che realizzò, tra l’altro, la tramvia elettrica del mare a Lecce), Hermann si ostinò ad aprire una serie di piccole fabbriche, tutte destinate al fallimento. Assieme alla moglie e alla figlia si ritrasferì nell’autunno del 1896 a Milano (questa volta in via Bigli 21), dove visse fino alla morte, avvenuta per un infarto nel 1902.
Negli ultimi giorni del 1894 Albert abbandonò di sua iniziativa il ginnasio di Monaco, dove ormai era apertamente avversato dagli insegnanti a causa del suo spirito indipendente e ribelle, e raggiunse la famiglia in Italia. Ai genitori promise che si sarebbe preparato da autodidatta per gli esami di ammissione al Politecnico di Zurigo. Passò così la prima metà del 1895 a Pavia, studiando ponderosi trattati di fisica e matematica, coadiuvando il padre e lo zio nell’azienda di famiglia e soprattutto conducendo una vita spensierata e finalmente libera da costrizioni. In una lettera scritta in italiano nel 1946 alla sua più cara amica di Pavia, Ernestina Marangoni, parlò dei “giorni e settimane senza ansie e senza tensione” trascorsi in Italia come delle “più belle ricordanze” della sua vita. La villa dei Marangoni a Casteggio, nell’Oltrepò pavese, fu, nella primavera-estate del 1895, il suo luogo di svago e di divertimento abituale e da lì una volta egli partì per attraversare a piedi l’Appennino, fino a Genova, dove vivevano gli zii materni. “L’Italia fece una grossa impressione su di lui. Il modo di vivere, il paesaggio, l’arte, tutto lo attraeva, e più tardi, da lontano, divenne oggetto di grande nostalgia”. Così Maja Einstein descrisse nel 1924 il legame affettivo che il fratello Albert aveva stabilito in gioventù con il nostro paese, e che sarebbe durato per sempre.
Einstein fece domanda di ammissione al Politecnico di Zurigo nell’autunno del 1895, con due anni di anticipo sull’età minima richiesta (diciotto anni). Superò agevolmente l’esame di matematica e di scienze, ma non quello di cultura generale, e venne respinto. Decise allora di frequentare per un anno la scuola cantonale della vicina Aarau. Qui si trovò finalmente a suo agio, perché l’insegnamento, che si ispirava ai precetti del grande pedagogista svizzero Johann Heinrich Pestalozzi, tendeva a privilegiare la libertà critica e lo spirito di indipendenza degli allievi, ben diversamente da quanto succedeva nelle rigide e autoritarie scuole tedesche.
Ad Aarau Einstein alloggiava presso la casa di Jost Winteler, un intellettuale progressista, il cui pacifismo e internazionalismo furono decisivi nella formazione politica del suo giovane pensionante. Così, quando per repulsione nei confronti del militarismo della sua patria d’origine Einstein espresse l’intenzione di rinunciare alla cittadinanza tedesca, Winteler lo incoraggiò a farlo. Nel gennaio 1896 la domanda fu accettata e Einstein divenne un apolide. Nella stessa domanda egli dichiarò di non aderire ad alcuna confessione religiosa: era la rottura ufficiale con l’ebraismo. Qualche decennio dopo, la marea montante dell’antisemitismo avrebbe avuto l’effetto di farlo riavvicinare alla tradizione culturale ebraica (non alla religione). I Winteler furono importanti per Einstein anche sul piano affettivo: Marie, una delle figlie di Jost, divenne la sua prima fidanzata, mentre un altro dei figli, Paul, sposò Maja Einstein. L’atmosfera liberale della scuola di Aarau e l’ambiente stimolante di casa Winteler contribuirono notevolmente alla maturazione di Einstein, che cominciò ad acquistare fiducia in se stesso e a sviluppare una propria, originale, visione del mondo. Del “valoroso svevo” – come amava definirsi – abbiamo un’efficace descrizione dovuta a un suo compagno di scuola: “Con il cappello di feltro grigio spinto indietro sulla folta chioma scura, camminava vigorosamente, sicuro di sé, a un ritmo rapido, direi trascinante, da spirito irrequieto che si porta dentro un intero universo. Nulla sfuggiva allo sguardo acuto dei suoi occhi luminosi. Chiunque gli si avvicinasse veniva catturato dalla sua superiore personalità. Libero da ogni convenzione, si confrontava con il mondo come un filosofo irridente, e il suo sarcasmo arguto castigava impietosamente ogni vanità o artificio”.
Nell’estate del 1896 Einstein superò con voti eccellenti (fuorché in francese – le lingue rimasero sempre il suo punto debole) gli esami di licenza media e poté finalmente accedere al Politecnico di Zurigo. Il padre avrebbe voluto che il figlio diventasse ingegnere ma gli aspetti pratici di questo mestiere non si confacevano all’indole del ragazzo, più incline al pensiero astratto (“pensare per il piacere di pensare”, disse una volta). Il corso quadriennale cui si iscrisse era quello destinato a formare i futuri insegnanti di fisica e matematica. Tra queste due discipline, il suo interesse era rivolto soprattutto alla prima, e fu in effetti negli esami di fisica (e in particolare di fisica teorica) che ottenne i voti migliori. Seguì invece con una certa distrazione, e con risultati meno brillanti, i corsi di matematica. Si sarebbe accorto anni dopo dell’importanza, per un fisico teorico, di padroneggiare anche i metodi matematici più sofisticati. Uno dei suoi professori, il matematico Hermann Minkowski, ebbe spesso motivo di lamentarsi per il suo scarso entusiasmo e le ripetute assenze a lezione, ma – ironia del destino – si ritrovò in seguito a dare importanti contributi proprio alla teoria della relatività dell’allievo “scansafatiche”.
Ricordando nel 1949 gli studi universitari, Einstein spiegò che la sua preferenza per la fisica era stata determinata anche dal fatto che, nell’ambito di quella scienza, riusciva “a discernere ciò che poteva condurre ai princìpi fondamentali da quella moltitudine di cose che confondono la mente e la distolgono dall’essenziale”, mentre non era in grado di fare altrettanto nel campo della matematica. La capacità di cogliere l’essenziale in ogni problema fu in effetti una delle sue doti principali e un elemento chiave del suo successo scientifico.
Fortunatamente per Einstein, tra i suoi compagni di corso c’era uno studente particolarmente bravo in matematica, Marcel Grossmann, che gli passava gli appunti. Grossmann divenne da allora il “consulente” matematico di Einstein, e una quindicina di anni dopo lo aiutò a porre le basi formali della relatività generale.
Neanche i rapporti con il cattedratico di fisica sperimentale del Politecnico, il tedesco Heinrich Weber, furono molto facili. Weber era il classico scienziato ottocentesco, legato a programmi di ricerca ormai antiquati e del tutto indifferente agli sviluppi più recenti della fisica, che Einstein era invece smanioso di approfondire. Egli inoltre mal sopportava l’indipendenza di giudizio e lo spirito contestatore del suo studente, che non aveva alcuna remora nel rivolgersi a lui in modo abbastanza irriverente (per esempio, con un informale “Herr Weber”, invece che con il dovuto “Herr Professor”). “Lei è un giovanotto molto intelligente – gli disse una volta Weber –, ma ha un grande difetto: non le si può mai dire nulla”.
Poco dopo l’arrivo a Zurigo Einstein conobbe colui che sarebbe diventato il suo amico e sodale più caro: Michele Besso, figlio di un dirigente delle Assicurazioni Generali di Trieste, che, trasferitosi temporaneamente a Zurigo, aveva acquisito per sé e per i propri figli la cittadinanza elvetica. Nato in Svizzera nel 1873 (aveva quindi sei anni più di Einstein), Besso era rientrato in Italia con la famiglia, ma aveva poi completato gli studi universitari al Politecnico di Zurigo, dove si era laureato in ingegneria meccanica nel 1895. La sua amicizia con Einstein durò per tutta la vita, fino al 1955, quando morirono entrambi, a un mese di distanza l’uno dall’altro. Besso era un giovane colto e intelligente, ma incapace di applicarsi con assiduità a qualunque impresa. La sua mente era tanto acuta quanto disordinata e divagante. “È uno smidollato terribile – diceva di lui Einstein – e non ha un pizzico di sano buon senso. È incapace di farsi abbastanza coraggio per combinare qualcosa nella vita o negli studi; e dire che ha una testa straordinariamente fine, di cui osservo con molto piacere i caotici processi mentali”. La spiccata – quasi patologica – propensione al dettaglio e l’ampia cultura fecero di Besso l’interlocutore privilegiato di Einstein e una sorta di suo alter ego intellettuale, fonte continua d...

Indice dei contenuti

  1. Introduzione
  2. 1. L’infanzia e la giovinezza
  3. 2. L’exploit del 1905
  4. 3. La vita privata
  5. 4. Ingegnere capo dell’universo
  6. 5. La fama mondiale
  7. 6. “Dio non gioca a dadi”
  8. 7. Dal Vecchio al Nuovo Continente
  9. 8. Guerra e pace
  10. 9. Il grande sogno
  11. 10. Il cervello del genio
  12. Fonti delle citazioni e bibliografia