Steven Weinberg:
«I primi tre minuti. L’affascinante storia
dell’origine dell’universo»
Comincia così. «Vi fu un tempo remoto / in cui nulla era: / non sabbia né mare / né gelide onde. / Non c’era la terra / né la volta del cielo; / ma voragine immane / e non c’era erba». Da questo abisso turbinante di nulla, il Ginnungagap (letteralmente «varco spalancato»), emersero il ghiaccio e il fuoco: a nord sorse il Niflheimr, una landa gelida e mortifera, mentre a sud c’era l’insopportabile calore del Múspellsheimr. Le fiamme del sud sciolsero una parte del ghiaccio del nord, e dalle gocce del liquido così formatosi nacque un gigante, Ymir, il primo degli esseri, tanto grande che quando si sdraiava per riposare il suo corpo copriva tutta la terra. Ma di cosa si nutriva Ymir? Insieme a lui pare ci fosse una vacca, Auðhumla, dalle cui mammelle sgorgavano quattro fiumi di latte. D’accordo, ma Auðhumla cosa mangiava allora? Leccava il sale sulle rocce. Da queste rocce, dopo tre giorni, nacque la prima creatura di forma umana, Búri. E così via.
Oppure comincia così. L’Hiranyagarbha, l’uovo cosmico fecondato da Brahmā, galleggia sull’oceano della non esistenza, finché si schiude: la metà superiore del guscio, che è fatta d’oro, diventa il cielo; quella inferiore, d’argento, forma la terra. Le membrane interne dell’uovo diventano le montagne, quelle esterne le nuvole, che attraverso la pioggia danno vita ai fiumi sacri. Alla fine del ciclo cosmico, il fuoco di Śiva fa piazza pulita dei mondi e Brahmā riassorbe in sé ogni cosa per ricominciare tutto da capo: «Egli non ha motivo di essere. Allo stesso modo il mondo è semplicemente un suo gioco». E così via.
E se iniziassimo così? «Primo di tutti fu il Caos», scrive Esiodo nella Teogonia. Dal Caos emerse Gea, la terra, la madre di ogni cosa, che generò le stelle e le nubi, che divennero il cielo, e cioè Urano, che sposatosi con Gea diede vita ai Titani che diedero vita agli dèi... e così via.
Oppure cominciamo così. «Dio disse: “Sia la luce!”. E la luce fu». E così via.
C’è poco da fare. Non esiste domanda più fondamentale e universale di «Da dove veniamo?». Come ogni essere umano – chi non l’ha fatto almeno una volta nella vita, magari alzando lo sguardo alle stelle di una notte d’estate? – così ogni cultura si è interrogata sull’origine delle cose: le risposte hanno nutrito i miti e le religioni di tutto il pianeta, dando vita ad alcuni dei racconti più emozionanti e profondi che l’uomo abbia mai intessuto. C’è qualcosa nel cervello umano, nel suo modo di concepire la causalità, che ci fa collegare l’origine delle cose con la direzione che esse prendono nel tempo: insomma, con il senso. Senza origine, senza un’origine, non c’è senso: c’è poco da fare, siamo programmati per pensare così.
Allora per darsi un senso, una direzione, gli abitanti del terzo pianeta del sistema solare si sono chiesti: come è iniziato tutto?
Come è iniziato tutto non lo so. Se invece mi chiedete come è iniziata questa passione per i libri di scienza e i loro racconti, per rispondere mi basterebbe tirare fuori dalla libreria un vecchio tascabile dalle pagine ingiallite. Dai segni a matita e a penna che si alternano sulle pagine di I primi tre minuti di Steven Weinberg si capisce che è uno di quei libri (non molti, a dire il vero) che ho letto e riletto più volte, e ogni volta ricavandone qualcosa di diverso, fermandomi su un passo diverso, lasciandomi sorprendere da un’immagine invece che da un’altra.
C’è una stilografica che ha evidenziato che «ogni galassia si sta allontanando da ogni altra galassia con una velocità relativa proporzionale alla reciproca distanza»; mentre un’ondina a matita, a margine di una delle ultime pagine, ricorda la «stagione apocalittica» che ogni lettore, soprattutto se adolescente, ha attraversato: un tempo, quello apocalittico, in cui il Weinberg che scrive «quando l’universo si sarà nuovamente contratto fino a un centesimo delle sue dimensioni attuali, la radiazione di fondo comincerà a dominare il cielo: il cielo notturno sarà caldo (300 °K) come lo è oggi il nostro cielo diurno» può stare serenamente accanto all’ultimo sguardo che il Viaggiatore protagonista di La macchina del tempo di Herbert G. Wells getta a una terra morente alla fine del tempo: «Finalmente, a più di trenta milioni di anni da adesso, l’immane cupola rossa del sole crebbe fino a occupare quasi la decima parte del cielo ottenebrato. Allora mi fermai un’altra volta, perché la moltitudine strisciante dei granchi era scomparsa, e la spiaggia rossa, a eccezione delle alghe epatiche e dei licheni verde livido, sembrava senza vita: era ora chiazzata di bianco».
I primi tre minuti è il racconto dell’origine dell’universo secondo la scienza, in particolare «della nuova concezione della primissima fase della sua evoluzione, quale è maturata in seguito alla scoperta, nel 1965, del rumore di fondo della radiazione cosmica a microonde».
I primi tre minuti non è forse il libro più bello che possiate leggere sull’origine dell’universo. Di certo non è il più aggiornato: è del 1977 e la teoria dell’universo inflazionistico – che sanerà molti dei paradossi e illuminerà i punti oscuri del modello cosmologico standard – si farà strada all’inizio degli anni Ottanta. Non è neanche il più amichevole dei libri: Weinberg non lesina in formule matematiche (c’è un’intera Appendice dove, chi volesse, potrebbe osservare e svolgere con carta e penna alcune delle equazioni che descrivono i fenomeni raccontati nel libro) e in generale esige un lettore attento e curioso. Non cerca la confidenza del suo ascoltatore, Weinberg, e non la dà. Non è il tipo: la voce che risuona in queste pagine è quella del professore austero, e forse severo. Non dà l’idea di essere uno dalla battuta facile, no, anche se un paio gliene scappano: ma, ecco il punto, non ne ha bisogno. Non hai bisogno di accattivarti il lettore, quando quella che gli stai raccontando è la storia dell’universo.
Storia lunga, verrebbe da pensare. Almeno tredici miliardi di anni. E rotti. Ma ecco la mossa geniale di Weinberg: alla fine, se uno guarda bene, c’è poco da raccontare. Bastano tre minuti. La storia più incredibile che l’umanità sia riuscita a ricostruire dura tre minuti. Quello che viene dopo è solo ordinaria amministrazione, passaggi intermedi di un’equazione che lo studente può risolvere da solo, quando torna a casa.
Come ebbe a dire Weinberg, «molto poco d’interessante è accaduto dopo i primi tre minuti».
Allora, più che il film dell’universo, Weinberg proietta il trailer. Perché dilungarsi per quasi quattordici miliardi di anni? Bastano tre minuti e stop.
Ma che film è quello di cui Weinberg fa il trailer? Altra sorpresa: non è un film di fantascienza. È un giallo. Di quelli classici, con il detective che arriva sulla scena del delitto e osservandola ricostruisce a ritroso la dinamica del crimine. L’universo è un delitto perfetto. E come uno Sherlock Holmes cosmologico, Weinberg, con metodo induttivo, procede a ritroso dal presente fino a dove le leggi della fisica gli permettono.
«In principio ci fu un’esplosione». Non fu un’esplosione normale, di quelle con cui abbiamo familiarità sulla terra, di quelle che partendo da un punto preciso di innesco inghiottono progressivamente l’aria circostante. Non c’era un granello di materia che galleggiava nel vuoto intorno, riempito via via dall’esplosione. Perché non c’era nessun «intorno», non c’era nemmeno il vuoto. Questa fu un’esplosione che avvenne simultaneamente ovunque, perché a esplodere fu letteralmente lo spazio. L’esplosione non ha luogo nell’universo: l’esplosione è l’universo.
Che il racconto dell’origine dell’universo, anche quello che ne fa la scienza, tocchi le corde profonde dell’immaginazione e del mito, dell’inconscio e del sacro, lo sa bene anche Weinberg, fisico teorico e premio Nobel nel 1979. E infatti Weinberg apre il suo libro con la cosmogonia norrena così come è raccontata nell’Edda, una raccolta di miti nordici scritta dal poeta islandese Snorri Sturluson intorno al 1220, amata da Wagner, Borges e Tolkien... e da lì giunta fino a Le cronache del ghiaccio e del fuoco di George R.R. Martin. Certo, quella con il gigante Ymir e la vacca Auðhumla non è una spiegazione molto soddisfacente dell’origine dell’universo eppure, prosegue Weinberg, «non possiamo limitarci a sorridere dell’Edda rinunciando a ogni speculazione cosmogonica».
Fin dai suoi primi passi, tra Cinque e Seicento, la scienza moderna si è interrogata sull’origine dell’universo, ma ancora a metà del XX secolo gli studi di cosmologia non godevano di buona fama. Non era un pregiudizio del tutto fuori luogo: fino agli anni Cinquanta e Sessanta mancava «una base di osservazioni e di teoria adeguata sulla quale poter costruire una storia dei momenti iniziali dell’universo» (è sempre Weinberg a scriverlo). Già, perché se oggi è conoscenza condivisa, anche a livello popolare, che la nascita dell’universo è legata a una sorta di esplosione iniziale (vedremo poi il senso da dare alla parola «esplosione»), fino ad allora non c’era concordia tra gli scienziati su come le cose fossero cominciate. La stessa espressione Big Bang, ormai diventata sinonimo di origine, nascita, punto zero, in realtà era stata coniata con intenti ironici negli anni Cinquanta da Fred Hoyle (uno scienziato inglese che per molto tempo aveva creduto nella cosiddetta «teoria stazionaria» dell’universo, e cioè l’idea che l’universo non avesse avuto una vera e propria origine, ma fosse sempre stato più o meno così).
Fu il fisico, astronomo e gesuita belga (un religioso, quindi: l’universo o chi per lui ha un certo gusto per l’ironia...) Georges Lemaître a ipotizzare, intorno agli anni Venti, che lo «spostamento» verso l’estremo rosso dello spettro luminoso della luce proveniente dalle stelle fosse dovuto al loro allontanarsi dall’osservatore (e cioè dalla terra). E dato che tutte le stelle si stavano allontanando, questo voleva dire che l’universo si stava espandendo.
La prova sperimentale arrivò solo nel 1965. Due giovani studiosi dei laboratori Bell (il centro di ricerca e sviluppo dell’allora monopolista della telefonia statunitense: che detto così sembra una cosa come tante, ma da lì sono arrivati sette premi Nobel e invenzioni fondamentali nei campi che vanno dal laser alla telecomunicazione, dalla teoria dell’informazione alla radioastronomia, appunto), due giovani studiosi, dicevo, Arno Penzias e Robert Wilson, stavano mettendo a punto un’antenna per le comunicazioni in New Jersey. Purtroppo il segnale era costantemente disturbato: c’era un rumore di fondo, come un sibilo, un rumore bianco che era impossibile da eliminare. A un certo punto pensarono di aver capito. Salirono sull’antenna e scoprirono che un uccello vi aveva costruito un nido, insozzandola di un «materiale bianco dielettrico» (insomma: escrementi). Dopo averla pulita, però, il disturbo persisteva. A rendere più misterioso il fenomeno era anche il fatto che il rumore sembrava provenire da tutte le direzioni, non importa come si orientasse l’antenna. Questo escludeva che il disturbo fosse di natura terrestre o atmosferica.
La soluzione arrivò a qualche chilometro di distanza dall’antenna: alla Princeton University un gruppo di ricerca stava studiando lo stesso fenomeno, seguendo un’ipotesi dell’astrofisico di origine russa George Gamow. Quando vennero a conoscenza del segnale rilevato da Penzias e Wilson, i ricercatori capirono di avere la prova di quello che Gamow aveva ipotizzato: ciò che stavano «vedendo» in New Jersey era la luce del Big Bang, l’onda luminosa dell’esplosione che attraversando lo spazio e il tempo si era «allungata» fino a trasformarsi nelle microonde rilevate dall’antenna.
Era come osservare la risacca di un’onda partita tredici miliardi e mezzo di anni fa.
Alan Guth, lo scienziato che qualche decennio dopo con la teoria inflazionistica metterà a punto uno dei modelli teorici più solidi su come è andato davvero il Big Bang, fornirà un paragone efficace: immaginiamoci sulla terrazza al centesimo piano dell’Empire State Building e guardiamo giù. Se dove siamo noi è il presente e il livello della strada è il Big Bang, le galassie più lontane che riusciamo a osservare sono circa al sessantesimo piano, mentre i quasar, gli oggetti più distanti di cui siamo a conoscenza, al ventesimo. Ecco: la radiazione cosmica di fondo rilevata dall’antenna dei laboratori Bell è a mezzo millimetro dal suolo.
I cosmologi hanno diviso la storia del Big Bang in «ere»: alcune durano frazioni di secondo, altre migliaia di anni. Tre minuti possono sembrare pochi, ma se sono i primi sono quelli decisivi: non stupisce che siano frazionati in decine di epoche. C’è un limite, però, oltre il quale è impossibile spingere lo sguardo, il confine di ciò che è possibile conoscere allo stato attuale della conoscenza umana: è come se ci fosse un’ultima cortina, una sottilissima membrana che ci divide dal tempo zero, dalla singolarità nuda da cui è nato l’universo. È l’era di Planck.
L’era di Planck si estende (se così si può dire) dal tempo zero a 10–43 secondi dall’inizio. Ovvero un decimilionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo. Quando l’universo misurava 10–35 metri, un centomilionesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di metro. È il limite oltre il quale, al momento, non ci possiamo spingere. È una singolarità...